« No Ordinary Crossover » Italian GDR

Votes taken by Illiana

  1. .
    :Oliver:
    La vita era guerra, battaglia, contrasto. Lotta per vincere o soccombere. Non esistevano posti in cui nascondersi, non esisteva motivo plausibile per farlo. Perseguivo la contesa come necessitavo dell'aria per respirare. E molto spesso, il conflitto lo accoglievo dentro di me, sfidando i miei pensieri in uno scontro che mi toglieva il sonno.
    Erano diverse ore che fissavo l'oscurità della nostra camera, i muscoli che chiedevano di liberarsi da una posizione che, per quanto comoda, stava diventando sgradevole per l'immobilità assoluta che mi infliggevo.
    Ero una statua anche per non disturbare il riposo della mia Dea. Sentivo il suo sonno sempre molto leggero, ad un passo dal dormiveglia. Avvertivo che la sua essenza era vigile, sebbene riposasse. Nonostante questo, apprezzavo la sapienza che le aveva fatto decidere di lasciarmi lo spazio e il modo per gestire i numerosi problemi che richiedevano soluzioni e decisioni risolute e definitive.
    Solo alle prime luci dell'alba sentii Nyx risvegliarsi. Anche senza guardarla, avevo nella mente in maniera vivida la sua bellezza, che risplendeva anche più del sole che stava sorgendo. La sua mano fresca si appoggiò sul mio petto.
    "Cosa ti turba?" Sussurrò preoccupata.
    Irrigidii la mandibola. Potevo rivelare liberamente davanti a lei il mio turbamento, quello che nessun altro avrebbe mai visto dietro la mia maschera rigida e indecifrabile. Lei era la guida, il punto di riferimento della mia anima e la sola confidente che possedevo, l'unica persona alla quale mostrare il lato più debole non sarebbe stata una scelta rischiosa.
    “Ho scoperto delle incongruenze nei miei ricordi acquisiti.” Le presi la mano e la portai alle labbra, sfiorando la pelle morbida. Confessai il più grave dei dilemmi con cui stavo confrontandomi da ore. “Lo Yumi Bow è custodito al sicuro nel mio studio, stando a quello che ho sempre saputo. Ma ora, so anche che mi è stato sottratto da ladri che non sono mai riuscito a rintracciare, diversi decenni fa.”
    Lei si sollevò lentamente e rimase in silenzio per qualche secondo. Non avevo fornito dettagli superflui, le nostre conversazioni erano sempre molto asciutte e puntuali. Possedevo una fiducia incrollabile nella sua capacità di leggermi nella mente. Non ero sicuro che si trattasse di un effettivo potere quanto più del legame che ci univa, ma tanto mi bastava.
    Infatti, Nyx mormorò con sicurezza: "Qualcuno ha giocato con il tempo" Dal tono, riconoscevo il suo fastidio e l'accusa implicita. "Inutile dire che sono molti pochi i giocatori che possono aver fatto qualcosa del genere..."
    Mi girai a guardarla, restando come sempre per i primi istanti in completa venerazione della sua figura. I capelli lunghi dai riflessi dorati, esaltati dalla luce esterna, accarezzavano la sua pelle perfetta. La rabbia mi strappò dall'indugiare su altri pensieri invitanti.
    “Solo i Templari possiedono questa capacità grazie ai Monoliti... Quando ho individuato la discrepanza, mi sono precipitato a controllare e come temevo, l'arco non c'era. Cosa dovrei pensare?” Diedi voce al suo sospetto con voce tagliente. La mia non era una domanda retorica, ma una vera richiesta di consiglio. “Sono stato costretto ad accettare le condizioni che Mahkent mi imponeva, consapevole che non avrei mai dovuto abbassare la guardia con lui così come lui con me, ed ora...” Premetti le labbra sulla sua mano. “Le uniche conclusioni a cui sono giunto sono allarmanti: i nostri alleati stanno agendo contro di noi. E io ho l'obbligo di rispondere alle loro macchinazioni...”
    "Non mi sono mai fidata di loro..." Il suo sguardo esprimeva comprensione e approvazione nei miei confronti, e dopo una breve riflessione continuò: "Facciamo buon viso a cattivo gioco, ma nel mentre prepariamo la nostra mossa contro di loro..."
    Sorrisi leggermente; mentre io comunicavo con ostentazione la mia spietatezza, Nyx la nascondeva alla perfezione dietro i suoi modi gentili e accomodanti, ma questo non voleva assolutamente dire che non la possedesse e io non la ammirassi incondizionatamente per questo.
    "Mahkent è uscito dal nulla... come la sua disfunzionale famiglia... qualcosa mi dice che questo potrebbe essere un nostro vantaggio se solo sapessimo chi sia realmente e da dove viene... per farlo forse è ora che tu attinga dal luogo che ti ha dato i natali ed amor mio non è questa Terra e tanto meno questa Dimensione..."
    Soffocai il primo impulso che venne fuori, ovvero quello di attaccare appena lo avessi scoperto – e non ci sarebbe voluto molto – il luogo dove si trovava il mio scomodo alleato. Il desiderio impellente di ridurlo all'impotenza e di eliminare alla radice le sue trame insidiose mi diede un sussulto piacevole e appagante.
    L'allusione di Nyx però mi aveva colpito con forza, e un brivido di terrore primordiale saettò nel petto, sovrastando il gusto della rivalsa, davanti all'ipotesi di scoprire verità che non avevo mai percepito, e che avrebbero potuto cambiare il mio controllo sulla situazione. “I miei natali? Io sono un Deviante, cos'altro potrebbe definirmi?”
    Nyx sorrise e con un movimento morbido si sedette sulle mie gambe. Un desiderio intenso si risvegliò dentro il mio corpo, e combattei anche contro di questo, nonostante le sue mani sulla schiena lasciassero segni immaginari più incancellabili delle cicatrici che la segnavano.
    "Sei un Deviante, ma non come tutti gli altri. E' stato sempre un mio dubbio, ma non avevo elementi, anche se in tutti questi anni con quello che ho visto..." Sussurrò soave. "Ti ho parlato tempo fa di Yggdrasil e le Nove Dimensioni dell'esistenza... Ricordi la Dimensione Ombra... bé credo che tu ne faccia parte..."
    Alzai bruscamente gli occhi in quelli suoi. Lei stava attendendo la mia reazione.
    “Le Nove Dimensioni... una delle quali regge l'intero universo e imprigiona Etere per sempre. Ma credevo che le altre non fossero abitate da forme di vita come noi. Io non ho ricordi di questa dimensione. Arriveranno anche quelli? Oppure la mia appartenenza è per qualcosa di diverso?”
    La risata della mia Dea era un suono dolce, non di derisione. "La Dimensione Ombra presenta effettivamente un tipo di vita... diversa. Vedi i suoi abitanti vengono chiamati Simbionti. Sono parassiti amorfi, hanno una prospettiva di vita assai corta e come le falene sono attratte dalla luce, loro lo sono da forme di vita complesse... Quando una di queste forme di vita complesse va incontro ad una trasformazione, quando ad esempio tu sei passato da Deviante Negato a Deviante, non è raro che esse ne vengano attratte... I Simbionti si legano al loro ospite lasciando a lui il pieno controllo, sono totalmente e completamente remissive, ma in cambio gli donano i poteri e i segreti della Dimensione Ombra..."
    Quasi non respiravo dalla concentrazione, ogni muscolo teso alla ricerca di comprendere le implicazioni, valutare le possibilità, ma soprattutto... accettare ciò che Nyx stava mettendomi a disposizione. "Il tuo potere della paura è Deviante, ma quello dell'Ombra? Assolutamente no. Ascolta il tuo Simbionte e grazie a lui imparerai ad accedervi e così poter sentire e vedere ogni cosa, fare delle ombre la tua forza. Oltretutto molto altro potresti apprendere da lui come percepire altri Simbionti, fratelli, in altri ospiti. Aumentare il tuo fattore rigenerante, potrebbe renderti quasi immune la morte, ma anche renderti invisibile, sviluppare la visione notturna, ma cosa ancor più incredibile creare altri Simbionti ed infettare altri ospiti..."
    Una nuova presa di coscienza. Un nuovo, infinito potere a cui avere accesso. Nyx, nel parlare, aveva continuato a muovere le mani sul mio corpo, provocando ancora di più il desiderio che avevo di lei. Volevo controllarlo, e impedirgli di distrarmi, ma era sempre più impegnativo, soprattutto perché percepivo anche il suo, travolgente e intenso.
    Espirai piano l'aria attraverso i denti stretti, per schiarirmi la mente. Non avevo alcun motivo per dubitare della spiegazione, e anzi, ogni parola che Nyx pronunciava pesava e valeva quanto l'oro. Era una Dea, e non lo dimenticavo mai. Possedeva una saggezza e una conoscenza infinita. Se lei pensava che dentro di me si fosse integrato un essere che mi aveva donato abilità che non rientravano nella razza deviante, allora era sicuramente così. “Approfondirò di certo quello che mi hai detto. Strapperò ogni vantaggio che potrò ottenere per essere sempre più potente e temuto da chiunque. I nostri nemici dovranno aver paura a sfidarci. Noi...” Sottolineai l'ultima parola, stringendo con forza contro il mio petto il corpo sottile di lei. “...li distruggeremo senza pietà. Riconquisteremo quello a cui abbiamo dovuto rinunciare. Tutto quanto. La Terra, il comando, le prerogative, le persone... nessuno oserà più alzare una mano sulla nostra famiglia!”
    "C'è molto da recuperare, tuttavia abbiamo anche molto dalla nostra parte. Moira è una di queste, credo solo che ultimamente abbia perso di vista il suo percorso, ma noi possiamo rimetterla sulla retta via..." Esclamò decisa.
    “Non solo nostra figlia ma sì... Moira darà il suo contributo ai nostri progetti, la abbiamo educata per farla diventare forte e agguerrita. Perché possa prendere il posto che le abbiamo riservato. E' la degna figlia di una Dea...” Il tono passò dall'esprimere orgoglio a rammarico. “Purtroppo, dopo che abbiamo perso l'Abstergo, anche lei sembra essersi smarrita più di ogni altro. Grazie alle tecniche che le ho insegnato, riesce con facilità a eludere il controllo di chi le ho messo addosso per seguirla. Forse dovremmo parlarle...” Anche le mie mani avevano iniziato l'esplorazione della sua pelle, scivolando sotto il tessuto morbido della sottoveste che indossava.
    Nyx si morse un labbro piegando il capo da un lato. "La terrò d'occhio... anzi forse dovremmo organizzare una gita in famiglia..." Una missione tutti e tre insieme, per avere modo di ritrovare l'affiatamento, la prospettiva condivisa, per saggiare la preparazione di nostra figlia e i suoi stessi sentimenti. Era senza dubbio la soluzione migliore. "Metteremo i Templari al loro posto e cosa più importante, tu, amore mio, accrescerai il tuo potere... la tua energia... chissà se così facendo non ti sarà più facile far ragionare tuo fratello..."
    Mi diede un bacio leggero, un nuovo invito sensuale che però venne rovinato dal suo accenno a Liam. Bastava il solo nome per togliermi ogni intenzione magnanima. “Liam... Lui fa parte della mia famiglia, e combatterò fino a che non sarà così. E' mesi che avevo perso le sue tracce. Se non fosse stato per te, non avrei avuto neanche la certezza che mio fratello fosse ancora vivo, dopo la caduta dell'Abstergo... tutto deriva da lì, dai danni che gli Assassini hanno causato con l'aiuto degli Eterni. La punizione non sarà mai troppo clemente, per loro.” La collera si era fatta di nuovo avanti, viva e bruciante come settimane prima, alimentata costantemente dalla mia volontà vendicativa. Avrei proseguito implacabile nei miei progetti, avrei scovato e annientato ognuno di loro, avrei... un altro bacio di Nyx mi distolse dai miei piani di vendetta, facendomi tornare al presente. “Mahkent si è impegnato a consegnarmi informazioni su Liam, ma sono stanco di aspettare che i tempi maturino secondo i suoi criteri... io ho fatto la mia parte, ed è ora che lui faccia la sua!”
    Guardai di nuovo mia moglie, la mia splendida moglie. Cercai di rilassarmi sotto le sue carezze, di mollare la presa sui problemi e i piani che mi avevano svegliato nel mezzo della notte e non mi avevano più lasciato in pace. Le scostai i capelli dal viso e mi avvicinai per baciarla. Mi lasciai andare indietro sul letto, ancora abbracciato a lei. Il suo corpo sul mio e i capelli che spandevano un profumo divino mi fecero finalmente dimenticare ogni resistenza, ogni lotta. Era il mio luogo segreto, quello che mi concedevo con un desiderio e un'emozione che non cambiavano mai. Intrecciai le gambe alle sue. Valeva la pena combattere per questi momenti di piacere e di estasi.


    Edited by Illiana - 23/5/2021, 21:17
  2. .
    :Edward:
    Londra, 1728
    La balaustra di legno scricchiolò sotto il mio peso. Mi ritrovai a penzolare ben oltre il torace nel vuoto, con il sangue che confluiva rapidamente al cervello e gonfiava le vene fino al punto di farle quasi scoppiare. Un sapore acido mi arrivò in gola. Guardai il pavimento diversi metri più in basso. Per un secondo, mi balenò nella mente la visione della mia testa aperta come un frutto troppo maturo, spiaccicata sul marmo bianco, il sangue che si allargava lentamente, scuro e denso come i giorni che si trascinavano da quando lei non era più con me.
    Eppure, mi ero appena svegliato dopo un sogno che facevo spesso, anche se questa volta era stato più reale di tutti i precedenti. Lei era con me e facevamo l'amore come non succedeva da tanto, troppo tempo. Era stato un sogno così vivido da lasciarmi quasi una sensazione fisica addosso. Forse stavo impazzendo. Sogghignai, un suono sgradevole prodotto dalla voce che la vita sregolata aveva arrochito e rovinato.
    Mi crogiolavo in uno stato pietoso, con l'angoscia appiccicata addosso come pece da calafataggio. In quell'esatto momento però, ridevo ed ero di buon umore, senza alcun motivo particolare che non il ricordo sognato di un desiderio.
    Con uno scatto di reni mi tirai su dal pericolo concreto di sbilanciarmi del tutto e precipitare di sotto. Avrei desiderato, in una piccola parte del mio cervello, strapparmi anche dall'altro abisso, quello dello spirito, in cui stavo sprofondando.
    Mi diedi troppo slancio. Non avevo completa padronanza del mio corpo. Il dopo sbornia era duro e durava a lungo, quando si era alcolizzati come me. Dovetti sorreggermi di nuovo alla ringhiera, per non cadere all'indietro. L'equilibrio era difficile da mantenere, e se non fossi stato certo di essere a Londra, avrei giurato di trovarmi sul ponte della Jackdaw in mezzo ad una tempesta infernale, con onde alte come palazzi.
    Mi ero alzato dal letto disturbato da qualcosa che non ricordavo, e a passi malfermi ero uscito dalla camera. In corridoio, avevo cercato di camminare senza sorreggermi al muro, con il risultato di inciampare nei miei stessi piedi e rischiare di volare al piano di sotto. Mi ero salvato in extremis solo grazie alla ringhiera.
    Udii la voce di Haytham, il suono delicato e sottile di un bambino che ride. Ero proprio davanti alla sua stanza, e forse ero lì che avevo l'intenzione di andare, prima di rovinare sulla balaustra. La memoria mi tradiva spesso, annegata nell'alcool che ingurgitavo proprio per cancellarla. Spesso, non ero in grado di capire se era giorno o notte, figuriamoci se possedevo la lucidità di stabilire altre cose più complicate come che giorno fosse o che lavori dovevo portare avanti.
    A passi pesanti, malsicuri e perciò più lenti, entrai nella stanza di mio figlio. Le tende erano tirate e mi accorsi così che era mattino presto. Accanto al piccolo letto in cui dormiva stava in piedi una figura. Lo stomaco minacciò di schizzarmi via. Mi strofinai con energia gli occhi, pensando a un'allucinazione. Ero stato vittima anche di quelle, non molto tempo prima, e avevo fatto impazzire di paura i pochi servi che avevano accettato di lavorare per me, nella dimora nella quale anonimi banditi avevano compiuto una spaventosa carneficina.
    Ma dopo aver ricontrollato mi resi conto che non si trattava di un sogno. Una figura femminile, con la veste verde inconfondibile, la stessa identica che indossava nel sogno, era china sopra Haytham, che si agitava per essere preso in braccio. Per l'eccitazione e l'incredulità di trovare Nike di nuovo qui, nella nostra casa, mi slanciai in avanti per abbracciarla, ma le gambe instabili mi tradirono. Inciampai nel tappeto e caddi in avanti. Sbattei la faccia contro un mobile e sentii il sangue inondarmi la bocca all'istante. Respirai e tossii, girandomi sulla schiena, senza la forza di tirarmi su. Niente aveva importanza, perché la felicità mi stava riempiendo il petto. Risi, mezzo soffocato.
    Alzai gli occhi sentendo che lei si avvicinava, udii anche il parlare tentennante di Haytham, che si trasformò all'improvviso in strilli acuti.
    La veste verde entrò nel mio campo visivo. Io continuavo a sorridere beato.
    “Edward, per l'amor del cielo! Sembri un demonio e stai imbrattando i vestiti e il tappeto di sangue...” Le urla spaventate di Haytham aumentarono di volume. “E spaventi anche Haytham! Dovresti vedere come ti sei ridotto!” Il tono era tagliente, oltre che turbato.
    Strizzai gli occhi per eliminare le lacrime di dolore che mi accecavano. La sua voce stonava con i miei ricordi. Era più bassa e rauca di quella della donna che amavo e continuavo ad amare senza speranza. Con uno sforzo, mi rigirai sulla pancia, puntando il braccio a terra e tirando su il busto. Sputai il sangue che continuava a colarmi dal naso, e mi sforzai di rimandare giù il conato di vomito che minacciava di soffocarmi.
    “Morirai, se continuerai a bere così!” No, il tono esasperato e sprezzante non apparteneva a Nike. Alla fine, uno sprazzo di lucidità arrivò a scacciare la mia folle fantasia. Non era lei ad essere tornata da Giove, fuggita in qualche maniera al controllo oppressivo dei Giudici.
    La donna che stava cercando di calmare Haytham, cullandolo e mormorandogli parole affettuose era Consuelo. D'altronde, se non ci fosse stata lei, lui non avrebbe avuto nessuno che lo accudiva. Non una madre. E non un padre.
    Mi passai una mano sul viso. La risata di sollievo di poco prima si trasformò in un ghigno amareggiato. “Sì, e andrò in paradiso, perché all'inferno ci sono già...” Biascicai caustico e irriverente.
    I passi rigidi e nervosi di Consuelo mi superarono senza degnarmi di risposta. Preferì portare via Haytham, nascondergli lo spettacolo pietoso che stavo dando.
    Dopo alcuni tentativi riuscii a mettermi seduto. Presi respiri profondi, ingoiando sangue e muco. Gli occhi erano fissi nel vuoto, persi nel rivivere la scena appena avvenuta. E la conclusione fu inequivocabile: facevo schifo. Stavo volontariamente uccidendomi con il bere, senza pensare ad altro che al mio dolore e alla perdita che aveva spezzato in mille pezzi la mia vita. Senza curarmi di altro che non fosse il vuoto che avevo nel petto. Senza preoccuparmi dei miei doveri e dei giuramenti che avevo fatto.
    Avevo promesso a Nike che avrei cresciuto io nostro figlio, che lo avrei protetto e fatto diventare una persona di cui lei avrebbe potuto andare fiera.
    Avevo fatto anche un giuramento ai miei Confratelli, un impegno solenne di rispettare e agire per il Credo che mi aveva reso migliore.
    Possedevo una casa e degli affari a cui pensare, per lasciare a mio figlio un patrimonio che lo avrebbe aiutato una volta adulto. Soprattutto, avevo il compito di rappresentare per mio figlio un esempio, un modello da seguire. Lo avrei introdotto al Credo ma, prima ancora, gli avrei dovuto insegnare il significato di essere una persona responsabile e affidabile.
    Proprio ciò che in quel momento non ero.
    Appoggiai la fronte sulle braccia puntellate sulle ginocchia. Chiusi gli occhi.
    Dovevo andare avanti. Nike non sarebbe mai più tornata, se non nei miei sogni. Ma Haytham aveva ancora bisogno di un padre.
    (...)
    Erano passati due mesi da quella mattina orrenda. Nelle settimane successive, con un enorme sforzo di volontà, ripresi le redini della mia vita. Regolai le mie abitudini, rinunciando a bere smodatamente e ritornando ad occuparmi della gestione della casa e dei miei affari. Ripresi a svolgere un ruolo attivo all'interno della Confraternita, e a far pesare la mia influenza. Il precedente Mentore, un incapace e pavido, si ritirò dalla carica dietro le mie pressioni; si era arreso al fatto che fosse un incompetente e rischiasse di mettere in pericolo il lavoro dei suoi confratelli. Presi il suo posto senza tanti complimenti.
    Ripresi il posto anche alla guida della mia società commerciale. Dopo un breve periodo per ricostruire i contatti con i clienti, congedai Reginald Birch dalle sue mansioni. Nei mesi in cui mi ero estraniato da tutto si era comportato in maniera irreprensibile, dimostrandosi davvero degno della fiducia che gli avevo riconosciuto. Controllando i registri, avevo trovato tutti i conti in ordine, e non erano risultati operazioni o ammanchi sospetti di alcun tipo. Birch era una persona d'onore, ma d'istinto avevo preferito allontanarlo dalle mie attività. Forse si trattava di un semplice sospetto, e la decisione presa dipendeva unicamente dalla mia innata diffidenza, ma mi irritava il suo sguardo alle volte troppo indugiante, e le sue domande apparentemente casuali sul mio passato non mi erano piaciute.
    Non assunsi nessun altro per coadiuvarmi nella gestione degli affari. Me ne occupavo io, trascorrendo gran parte della giornata nell'ufficio al pianterreno della mia lussuosa residenza. Questa aveva ripreso quasi del tutto il lustro che vantava nel periodo in cui c'era Nike. La servitù non era più così numerosa, perché a dispetto delle mie abitudini passate e della ricchezza, io e mio figlio conducevamo una vita tranquilla, senza eccessi e, proprio per questo, senza pericoli che potessero minacciare la sua incolumità. Mi ero trasformato in un uomo di affari di successo, molto riservato e attento nelle frequentazioni. La doppia vita come Assassino era tenuta accuratamente nascosta.
    Quella mattina, poco prima dell'ora di pranzo, sentii bussare alla porta dell'ufficio. Diedi una voce per farmi sentire e Consuelo entrò, lo sguardo basso e schivo. Aggrottai la fronte incuriosito. Lei era molto dolce e gentile con Haytham, ma nel suo carattere la modestia non spiccava di certo.
    “Haytham non sta bene?” Provai ad indovinare il motivo della sua comparsa.
    “No, ci mancherebbe. L'ho affidato per qualche momento alla cuoca, che ha già terminato il suo lavoro in cucina, perché volevo parlare con te, da sola...”
    Annuii e la invitai a proseguire con un cenno. “Sentiamo allora, sono tutto orecchi!”
    Consuelo inspirò a lungo dal naso, come se si stesse preparando a buttarsi in un lago ghiacciato. “Ti sono stata vicina per tanti anni. Ho accettato di essere la tua amante, anche quando questo significava tradire mio marito. Ti ho seguito in capo al mondo, scegliendo di servirti con devozione e...” La interruppi per puntualizzare un fatto.
    “Lo hai chiesto tu, di venire in Inghilterra, se non sbaglio!”
    “L'ho fatto per un motivo.” Si morse un labbro, lo sguardo sempre fisso a terra. “Speravo... contro tutte le previsioni... che... dopo...” Si irrigidì imbarazzata. Non sapevo se sorridere del suo atteggiamento oppure se continuare a pazientare, lasciandole il tempo per farle sputare il rospo. Decisi per la seconda opzione. Il mio silenzio probabilmente la incoraggiò, perché finalmente alzò gli occhi su di me – occhi incantevoli e attraenti, ma troppo diversi dai suoi – accompagnando il gesto con un sorriso invitante.
    Più sicura e risoluta, proseguì. “Pensavo che mi avresti chiesto di sposarti!”
    Aprii la bocca, incerto. Avevo bisogno di tempo per pensare. Mi alzai e andai alla finestra, quella che dava sul giardino anteriore. Vagai con gli occhi sulle aiuole e sugli alberi curati, sulla strada spazzata e bianca.
    Avevo esaminato diverse volte questa possibilità, constatando la predilezione che Haytham mostrava per lei. Desideravo farlo crescere con una persona che lo avrebbe amato, dato che sua madre non poteva dargli l'amore che gli sarebbe spettato. Nike non poteva più far parte della nostra vita. Era egoista da parte mia privare mio figlio di qualcosa solo perché il mio cuore era rimasto devoto a lei.
    Perché no, perché non potrei risposarmi, quando non sarebbe comunque un tradimento per nessuno?
    Lo sguardo cadde sulla panchina sotto la quercia, il posto preferito da Nike per far dormire e passare del tempo con Haytham neonato. Il cuore si strinse in maniera dolorosa. Non potevo e non volevo sostituirla con nessuna, decisi.
    Scossi la testa, girandomi a guardarla. “Consuelo, sotto il mio tetto avrai sempre un posto dove vivere, e potrai scegliere se continuare a stare insieme ad Haytham, ma io non mi risposerò. Mai.”
    “Neanche dopo quello che c'è stato tra di noi?” Esclamò.
    Sollevai le sopracciglia stupito. “Dopo cosa? Siamo stati amanti prima che ci fosse Alice, ma non ti ho mai promesso nulla.”
    Consuelo sfoderò un'aria fastidiosa di compiacimento. “Non sto parlando di quel periodo, ma di quello che è successo qualche settimana fa.” Avanzò di un passo. “Credevo che la notte che abbiamo fatto l'amore tu volessi finalmente lasciarti il passato alle spalle. Da quel giorno sei tornato in te, ho rivisto l'uomo risoluto e incrollabile che affrontava la vita invece di subirla. Pensavo di averti salvato dal perderti per sempre...” Poco alla volta, il tono era diventato più insistente.
    Il mio viso era impassibile ma dentro di me si stava sollevando una rabbia intensa. Consuelo stava provando a intrappolarmi nel modo femminile per eccellenza: il ricatto sentimentale. Ripensai a quel sogno così reale, che forse non era un sogno. Chi lo poteva dire con certezza? Non certo io, che non avevo nessun contatto con la realtà, in quei mesi.
    Tuttavia lei aveva un'ultima carta da giocare, quella più devastante. Si portò la mano al ventre e scandì: “Sono incinta di due mesi, Edward. E il bambino è tuo!”
    Mi avventai su di lei. La persi per un braccio e la scrollai trattenendo però la forza, per non farle male. “Stai mentendo! Non credere di poterti prendere gioco di me!” Ringhiai.
    Lei alzò il mento, ostinata. “Sto dicendo la verità, e dovrai aspettare solo poche settimane, prima di vedere il risultato! Ma, a quel punto, lo vedranno anche tutti gli altri, e non avrai più la possibilità di rifiutarmi!”
    Strinsi la presa. “L'hai escogitata per bene, la trappola! Peccato che io non sia sordo e cieco, e abbia sentito gli altri domestici chiacchierare su di te e sullo spasimante segreto che hai da un anno a questa parte!”
    Lei sembrò spiazzata, ma non perse la forza di insistere. “No, non è vero! Sono menzogne. Quell'uomo non è il responsabile del mio stato!”
    “Ti conosco bene, purtroppo per te. Ho visto come sei capace di falsare e cambiare i fatti a tuo piacimento. Vuoi diventare una donna ricca e rispettata mentendo e ingannandomi, e mi ritieni tanto stupido da cascare nella tua rete.” Abbassai la voce minaccioso. “Ti sarai anche infilata nel mio letto quando ero troppo ubriaco da scambiarti per Alice, e ammetto che sei stata furba a usare i suoi abiti per farmelo credere, ma non ti sposerò solo per questo.” La lasciai andare bruscamente. “Il bambino non è mio!” Feci un passo indietro, lo sguardo duro e minaccioso. “Lascia questa casa all'istante. Non hai il permesso di rivedere più Haytham. Sparisci!” Urlai l'ultima parola.
    Consuelo ebbe la saggezza di riconoscere la sconfitta e scappò dalla stanza senza fiatare. Non mi sfuggì il lampo di sfida nei suoi occhi, questo sì, molto consono al suo carattere ambizioso e vendicativo, ma in futuro avrei respinto qualsiasi tentativo di inganno da parte della sua piccola anima profittatrice senza alcun rimorso.


    Edited by Illiana - 14/5/2021, 21:43
  3. .
    :Aphrodite:
    Non era stato difficile per Efesto conquistare il mio interesse inizialmente e il mio cuore subito dopo. Era un uomo misterioso e forte, possedeva un fascino ammaliatore fuori dal comune e il pensiero di averlo conquistato aveva un gusto fortemente proibito.
    Mi aveva circondato di attenzioni serrate ed emozionanti, e benché fossi abituata all'adorazione di uomini e donne, le sue scatenavano in me un piacere intenso. Era coraggioso: non si nascose dietro finte moine per non incorrere nelle ire di mia madre, anzi, la respinse con vigore e chiaro disprezzo quando lei provò ad attirarlo nuovamente a sé, a fargli distogliere l'attenzione dalle mie grazie.
    Andai a letto, quella sera, con il cuore colmo di felicità a di stupore. Venni svegliata nel mezzo della notte da un bacio vorace e passionale. Lui si era introdotto di nascosto nella mia stanza, e senza troppo insistere mi convinse a seguirlo, a fuggire con lui sul suo pianeta, l'asteroide satellite del pianeta Marte che era il Covo dei famigerati Pirati Troiani.
    Efesto era a capo del suo popolo, un gruppo non molto numeroso di combattenti spietati e ribelli, che si proclamavano fieramente indipendenti dai duchi di Marte.
    Ma le questioni politiche non avevano alcun peso, non quando il mio cuore batteva così forte se solo i suoi occhi dalle iridi scure e dure si posavano su di me.
    Fuggii come una ladra, senza avvisare neanche le ancelle al mio servizio della mia partenza. La possibilità che per timore delle ritorsioni di mia madre la avvertissero era concreto. E mia madre avrebbe potuto impedirmi, anche con la forza, dato che la tua tirannia mi era ormai chiara, di ufficializzare e vivere il mio sogno d'amore.
    (…)
    Erano passati alcuni giorni da quando ero arrivata nella dimora di Efesto. Il luogo era cupo e dotato di scarse comodità. La luce del Sole, per quanto l'asteroide orbitasse più lontano rispetto a Venere, era sempre offuscata da nubi eruttive dei numerosi vulcani attivi. Ma io notavo appena i disagi: la passione del mio amante non si era affievolita una volta che mi ero concessa alla sua adorazione, anzi, mi trovavo costantemente al centro della sua attenzione, curata e vezzeggiata in ogni modo possibile. La notte poi, facevamo l'amore fino a che cadevamo nel sonno sfiniti e appagati. Ero così felice che lasciai perdere ogni precauzione fino a che, una mattina, lo sguardo cadde sul cofanetto intarsiato che avevo infilato nel piccolo baule di legno e avorio quando avevo preparato il bagaglio in fretta e furia per la fuga.
    Conteneva le cose più preziose; tra i cosmetici per la cura dei capelli e della pelle c'era la fialetta di vetro scuro della pozione per l'infertilità. Tutte le donne di Venere ne facevano uso per evitare il rischio di una gravidanza che avrebbe appesantito e rovinato il corpo in maniera irrimediabile e definitiva. I nostri bambini, infatti, venivano generati su richiesta utilizzando la tecnologia genetica, che creava venusiani perfetti e con le caratteristiche desiderate dai futuri genitori. Anche io ero nata in questa maniera: il dono genetico dei miei genitori era stato ricevuto e messo a frutto, presso la Casa della Nascita, per consentire all'ovulo di mia madre di svilupparsi e trasformarsi in un feto e poi in un neonato. La Casa della Nascita era una clinica non comune, di fatto l'unica esistente in tutto il sistema solare. Questo metodo faceva parte della nostra cultura da millenni, era una pratica abituale e con molti benefici per chi conosceva le nostre tradizioni, ma inconcepibile e ripugnante per molti altri popoli.
    Feci mentalmente alcuni calcoli prima di portare alle labbra la pozione che dovevo prendere ogni pochi giorni per mantenere la mia purezza inalterata, ma la boccetta mi venne strappata inaspettatamente dalle mani.
    Quando mi girai, stupita, incrociai lo sguardo sospettoso del mio amante e... futuro marito. Ci eravamo scambiati la promessa di fidanzamento la sera prima, e già da stamattina fervevano i preparativi per il matrimonio. Erano già a buon punto, e non avremmo tardato a celebrare il nostro amore con una festa grandiosa. Efesto aveva voluto anticipare e velocizzare l'evento, preda di timori che, intuivo anche io, avrebbero potuto rovinare la nostra felicità.
    “Che cosa stai facendo?” Il tono era diffidente.
    “Nulla di strano... è solo la mia pozione per l'infertilità...” Davvero non capivo la sua preoccupazione... Temeva che lo stessi ingannando? Che il mio amore non fosse sincero? Che non fossi bella così come mi vedeva? Mille domande mi turbinavano incerte nella mente, ma nessuna era quella giusta.
    Efesto ridusse gli occhi a fessure e inspirò rumorosamente dalle narici dilatate.
    “Conosco le vostre tradizioni aberranti in tema di procreazione. Però fammi mettere subito in chiaro una cosa: tu, considerando che diventerai mia moglie, devi rispettare il mio volere e lasciare da parte quello che non mi piace. Io voglio dei figli veri, che siano miei, e non creati artificialmente da qualche scienziato pazzo!”
    Non aveva ancora terminato la frase che scagliò la bottiglietta attraverso la finestra aperta. Udii il rumore di cocci infranti.
    Lo fulminai con lo sguardo, irritata e indignata per la sua cattiveria e mancanza di rispetto.
    “Perché lo hai fatto? Stai calpestando quello che ritengo più sacro dopo il sentimento che provo per te, ovvero il mio corpo! Non puoi ordinarmi di sottopormi ad una simile prova come il portare addosso il peso di un altro individuo! E' atroce e crudele e non mi costringerai a rinunciare alla mia integrità!”
    Ero disperata, perché non avrei potuto recuperare da nessun'altra parte la pozione. Sarei dovuta tornare su Venere, e magari incontrare e fare i conti con mia madre. Nel contempo, non mi preoccupavo per gli avvertimenti del mio fidanzato, convinta che avrei saputo persuaderlo a tempo debito sulle mie ragioni. Mi amava troppo per rendermi triste.
    Non riuscii a impedirmi di sbottare: “E poi, sei così certo che vorrò mai avere dei bambini, da te o da chiunque altro?”
    La reazione di Efesto fu imprevedibile e violenta. Mi schiaffeggiò con forza e non riuscii a mantenere l'equilibrio, caddi per terra. Invece di scusarsi, di consolarmi, o di tentare di farsi perdonare, mi venne addosso e le sue mani si strinsero come una trappola intorno alla gola. Cercai di liberarmi, scalciando e inarcando la schiena, senza riuscirci. Afferrai le sue braccia, conficcando le unghie nella pelle, ma neanche graffiandolo ottenni nulla.
    “Sei una puttana che pensa solo al fare sesso e a godere in modo indecente. Non voglio una prostituta come moglie, quindi ti atterrai ai miei ordini, o ti pentirai presto di non averlo fatto!”
    La sua presa non diminuiva, e cominciavo a sentirmi svenire. Ero incredula e sopraffatta dall'angoscia. Mi stava uccidendo e io... non avrei reagito?
    Strinsi i denti per la rabbia. La mano che stringeva il suo braccio catturò un debole rumore, non sapevo neanche io da dove arrivasse, e lo trasformai in un lampo tagliente, che rivolsi verso il suo viso contratto dalla rabbia.
    Poi persi i sensi senza che me ne rendessi neanche conto.
    (…)
    Mi risvegliai nel nostro letto. La prima cosa che mi assalì fu il dolore: al viso, al collo e alle spalle. Passai una mano sulla gola, sfiorandola con i polpastrelli: la pelle era contusa e illividita dalla brutalità dell'uomo che avevo creduto di amare, che mi aspettavo sarebbe diventato, presto o tardi, il mio imprinting. La seconda cosa che mi colpì fu la disperazione e la paura, nel toccare un sottile cerchio di metallo che mi cingeva il collo. Efesto era seduto sul bordo del letto, le spalle basse e la postura da cane bastonato.
    Non vedevo il suo viso, ma lui si accorse che mi ero ripresa. “Cosa dovrei fare con te? Tra poco diventerai mia moglie e pensavo che saremmo stati felici, lontani dall'influenza di tua madre e delle tradizioni incomprensibili che ci sono su Venere.” Era calmo, ma di un contegno che minacciava al contempo di essere spazzato via da un secondo all'altro alla minima contrarietà. Temevo per la mia incolumità, quindi cercai di ammansirlo con le bugie.
    “Dovremmo pensare solo ad essere felici, come hai detto tu. Ignorare tutto quello che non siamo noi due.” Mi sedetti sul letto con gesti sensuali e attenti a non far trapelare il dolore, nonostante la testa pulsasse per le contusioni. Mi avvicinai verso di lui, invitante, appoggiando i seni ai muscoli contratti della sua schiena.
    Lui girò il viso verso di me, e soffocai un urlo di raccapriccio portandomi una mano alla bocca, spalancata come i miei occhi.
    Ricordavo in maniera confusa di essermi difesa dalla sua rabbia, ma non mi ero accorta di averlo colpito, né in maniera così grave. Il suo viso era sfregiato da una ferita ancora fresca che partiva dal sopracciglio per arrivare fino alla guancia attraversando l'occhio destro. L'occhio era danneggiato, sicuramente in maniera permanente. Una volta guarito, il volto sarebbe stato deturpato da un'orribile cicatrice. Era diventato un mostro. Un mostro tanto dentro quanto fuori. Capii in quel momento il mio errore e la sventatezza con cui avevo agito dopo averlo conosciuto. Avevo vissuto la nostra infatuazione come un modo dissoluto per vendicarmi di mia madre, senza riflettere ulteriormente.
    Lui aggrottò la parte del viso ancora sana, la sua bocca divenne una smorfia terrificante.
    Cercai di allontanarmi da lui, nauseata da quello che vedevo. Il mio respiro era affannoso e spezzato per il disgusto. Una mancanza di fascino e di bellezza era uno spettacolo intollerabile per noi venusiani, e in quel momento, Efesto aveva perso ogni attrattiva su di me, con i suoi modi violenti e la deformità che lo avrebbe segnato per sempre.
    “Non ti avvicinare!” Urlai quasi isterica, tentando di liberare la mano che lui aveva preso nella sua.
    La sua apparente calma si infranse, facendo comparire alla stessa violenza e furia della sera prima. Recuperò la distanza che avevo messo tra di noi afferrandomi per i capelli. “Pensi forse di respingermi, ora che mi hai rovinato con i tuoi poteri da Guerriera? Porterò per sempre il segno del tuo amore bene in vista, così che potrò ricordarmi di te ogni volta che lo vedrò.” Il suo viso era quasi attaccato al mio, la sua forza mi terrorizzava. Dovevo difendermi e trovare il modo di scappare, questo era l'unica cosa che pensavo, ma le mie opportunità si sarebbero drasticamente ridotte a breve. Quando mossi la mano per colpirlo e allontanarlo da me lui vide il gesto con l'occhio sano, e sorrise malvagio.
    “Sarei uno stupido se ti avessi lasciata libera di potermi colpire ancora. Finché non capirò di aver domato la tua ribellione, il Neutralizzatore rimarrà qui, su di te.” La sua mano si posò pesantemente sul collo e sul cerchio che lo cingeva. Poi le dita risalirono sulla mandibola e strinsero. “Mi hai fatto male, come nessun altro era mai riuscito a fare. Dovrei ucciderti, ma ti desidero comunque...”
    Avevo già capito quello che sarebbe successo, e che sarebbe stato molto peggio per me se avessi opposto resistenza. Lo avrei ucciso subito, se avessi avuto i miei poteri a disposizione, invece quel piccolo cerchio in metallo era un prodotto della scienza di questo pianeta, che mi aveva resa una semplice vittima inerme.
    Lasciai che mi strappasse i vestiti per denudarmi, che mi venisse addosso con il suo corpo scuro e brutale, che mi penetrasse e pensasse di avermi spezzata con la violenza e l'oltraggio.
    Cercai solo di estraniarmi dal mio corpo, di viaggiare con la mente lontano da quella stanza e da quel momento. Pensai di rifugiarmi prima sul mio pianeta d'origine, ma mi allontanai delusa anche da lì. Trovai un luogo di pace molto più lontano, sul pianeta azzurro.
    Rimasi in uno stato a metà tra il sonno e la veglia per diversi giorni, senza muovermi dal letto neanche per mangiare. Comunque, non avevo libertà di muovermi, ero confinata nella mia stanza. Resistetti anche alle visite successive dell'uomo che si proclamava mio futuro marito, odiandolo ogni secondo di più. Non avevo ancora un piano per riconquistare la mia libertà, volevo prima di tutto vivere. Poi avrei pensato alla vendetta.
    Qualche giorno più tardi, lui non si presentò come di consueto nel mio letto. E neanche quello successivo. Aveva lasciato il pianeta per i suoi loschi affari, seppi poi origliando i discorsi delle guardie che vigilavano la casa.
    Poteva essere il momento giusto per fuggire, così mi risvegliai dal torpore. Efesto credeva di avermi tolto ogni speranza, ma i miei poteri di Guerriera erano solo una delle armi a mia disposizione. Sedussi la serva che mi portava i pasti due volte al giorno. Non fu difficile farla capitolare, anche se per via della prigionia e del cuore che mi si era quasi spezzato la mia bellezza si era lievemente offuscata. Convinsi la ragazza a farmi uscire e scappare. Probabilmente al ritorno di Efesto avrebbe pagato molto cara la sua inottemperanza, ma non potevo pensare anche a lei!
    Trovai il modi di fuggire dalla prigione, e quando decisi dove rifugiarmi, andai sicura dove sapevo di poter trovare un conforto adeguato per le mie ferite. Andai sulla Terra, a cercare quegli occhi indimenticabili ed elusivi che mi avrebbero aiutata a dimenticare tutto l'orrore degli ultimi giorni.


    Edited by Illiana - 10/5/2021, 20:07
  4. .
    :François:
    Asportai dalla mia divisa tutte le mostrine e i segni di riconoscimento dell'appartenenza e del rango all'interno dell'Ordine. Le depositai meticolosamente dentro uno scomparto estraibile a fianco del cockpit del mio caccia stellare. Avevo trovato un riparo ottimale per il mio A-Wing, al sicuro da possibili sottrazioni o danneggiamenti. Ero sempre oltremodo prudente quando mi muovevo fuori dall'area di controllo delle nostre truppe, e il pianeta Mandalore era appunto una delle zone non soggette alla nostra influenza.
    Uscendo dall'abitacolo venni accolto dalla luce densa del pianeta. Per i miei occhi abituatisi da poco nuovamente alla luminosità del sole sulla Terra, dopo secoli passati nella relativa penombra dell'ambiente lunare, ogni cambiamento minimo nelle condizioni di vita era ancora motivo di un frenetico adattamento per i miei sensi. Questo pianeta, almeno per la zona che finora avevo potuto osservare dal velivolo atterrando, appariva come un ambiente prevalentemente desertico. Le strade erano polverose e la vegetazione scarsa e legnosa, abituata a crescere senza molta umidità.
    Estrassi da una tasca della tuta, ormai un'anonima tuta blu da volo, un paio di occhiali con lenti a goccia per proteggermi dai raggi ultravioletti. Percorsi a piedi in pochi minuti il tratto di strada per raggiungere il piccolo agglomerato di case che costituiva la base dei Cacciatori di Taglie. Eseguii velocemente la prima parte del mio compito individuando la bacheca a cui dovevo affiggere l'annuncio con la richiesta di un contratto. Osservai per qualche secondo il tabellone: sulla parte superiore, quella con le ricompense più lucrose, non c'erano che poche missioni a disposizione, mentre più in basso fioccavano missioni di un livello più modesto: richieste, recuperi, trasporti. Sistemai la mia in alto: una cassa di metallo prezioso si poteva ben dire che fosse una ricompensa allettante, pari al valore che la persona da trovare aveva per noi. Mi auguravo solo che il pagamento considerevole e speciale avrebbe attirato candidati all'altezza del compito, e non individui maldestri che potevano danneggiare la “mercanzia”. Voltai la schiena alla parete e cercai con gli occhi una taverna o un luogo simile dove avrei aspettato il mio contatto. Contavo di non dover attendere troppo.
    Qualche giorno prima ero stato convocato in maniera riservata direttamente dalla persona al vertice del nostro Ordine, monsieur Mahkent. Avevo risposto con sollecitudine a quella chiamata, ovviamente non c'era altro modo con cui farlo. Quando l'uomo più potente dell'Ordine, il deus ex machina del grandioso disegno templare, la mente dietro l'ordine Sessantasei richiedeva il tuo lavoro, l'impiego delle tue capacità, potevi solo ringraziare per il grande onore che ti veniva concesso.
    La riunione fu rapida e concisa. Mahkent fu come sempre di poche parole: le rare volte che si mostrava in pubblico nel suo ruolo di comando, ovvero alle riunioni di aggiornamento dove tutti i capi sezione erano presenti, interveniva molto di rado, limitandosi ad ascoltare con profonda attenzione i nostri interventi. Quando il suo sguardo gelido e calcolatore si posava su una persona, per quella era come se la pressione atmosferica aumentasse e premesse sulla testa e sulle spalle. Era una sensazione fisica, simile al peso invisibile che schiacciava il corpo al sedile durante una manovra in volo ad alto G di accelerazione gravitale.
    Sfiorai con finta noncuranza la giubba in prossimità della tasca dove portavo il trasmettitore che avrei dovuto consegnare al mercenario; Mahkent me lo aveva consegnato dicendo solo che era programmato per localizzare la traccia energetica di una determinata persona, e che avrei dovuto usare i famosi Cacciatori di Taglie di Mandalore per farla catturare il prima possibile oltre che viva.
    Non sapevo nulla di più. Non avevo chiesto. Non si chiedevano spiegazioni, quando chi avrebbe dovuto fornirle era l'individuo tra i più misteriosi e temibili che esistevano. Sul suo passato gravitava una coltre spessa e impenetrabile, che non accennava a diradarsi neanche dopo discrete ricerche che avevo compiuto usando le risorse migliori a mia disposizione.
    Non mi pentivo di aver riposto fiducia nella promessa di un futuro che sembrava impossibile da realizzare, e non ero caduto neanche un attimo nella debolezza del dubbio in quei secoli interminabili nei quali mi ero adeguato a servire un padrone che non avevo mai apprezzato seriamente.
    Il tutto, solo nella vaga speranza che quanto preannunciato da Kenway e dal prodigio di un oggetto arcano si avverasse. La mia fede era solida, non ero il tipo di persona che si faceva corrompere da tentennamenti senza senso e motivo. Inoltre, anche se li avessi ascoltati, non esisteva nessuno con cui condividerli: con gli altri prescelti non avevo mai desiderato condividere i miei pensieri al proposito.
    La Chiave dei Titani che mi aveva scelto mi concesse realmente una longevità in cui non avrei mai sperato, e non solo: insieme a quella, il mio corpo era diventato più forte e resistente a malattie o ferite, veleni o droghe. Era un'attitudine unica, legata all'entità che aveva creato e destinato le chiavi ad ognuno di noi. I miei compagni avevano ricevuto altre capacità, e non potevo dire di conoscerle nemmeno tutte. Solo osservandoli ero riuscito ad intuire il potenziale di alcuni di loro, ma si trattava di informazioni che, per motivi di cautela e di sospetto, tenevamo strettamente riservate. Eravamo stati accolti da questa razza aliena che sembrava benevola, ma non eravamo come loro. Non conoscevamo il loro modo di pensare, e per quanto ci avessero concesso piena fiducia, non era opportuno abbassare la guardia, mentre attendevamo l'arrivo del nostro momento.
    Svolgevo il lavoro a capo della sezione aerospaziale dell'esercito imperiale con precisione e massima attenzione, come d'abitudine. La facoltà di volare e i viaggi spaziali, che sulla Terra del diciottesimo secolo parevano un concetto impensabile, erano invece una parte integrante ed estremamente sviluppata della tecnologia aliena. Ricevetti dai loro istruttori un addestramento eccellente, non posso negare che per mesi rimasi stupito e ammirato delle loro conoscenze. Ma ogni nozione che imparavo e capacità che acquisivo, avevano un unico scopo nella mia visione delle cose: sarebbero stati un vantaggio in più che avrei apportato quando fosse arrivato il momento di conquistare l'autonomia nei confronti dei nostri padroni e tornare nel mondo che avevamo abbandonato, forti di tutte le strutture, gli uomini e gli armamenti che, di fatto, noi Templari stavamo già controllando.
    Il giorno in cui l'Ordine Sessantasei venne diramato, avemmo poco tempo per organizzarci e muoverci secondo gli ordini ricevuti. Da parte mia, avrei dovuto allertare gli uomini e approntare i mezzi militari sotto la mia responsabilità per effettuare il trasferimento della nostra organizzazione. Lo scopo era prima di tutto di sottrarre agli Eterni e agli Imperatori la possibilità di reagire. Era forse la fase più delicata, perché la situazione avrebbe potuto degenerare velocemente in uno scontro, con il problema di non poter determinare le conseguenze in termini di perdite.
    Mi dedicai con rapidità ai miei incarichi, come tutti gli altri avrebbero fatto a loro volta. Eravamo uomini e donne determinati e pronti per realizzare un progetto eccezionale, di portata straordinaria.
    Dopo aver organizzato tutti i velivoli per la partenza, tornai alla mia dimora. Trovai la mia consorte nel giardino in cui amava passare gran parte del suo tempo, intenta a curare un cespuglio di fiori molto simili alle rose terrestri, di un colore iridescente. Mia figlia Naija, di una bellezza delicata molto simile a quella della madre, pura rappresentante del lignaggio lunare, la stava aiutando ad innaffiare con una giara d'argento dall'impugnatura cesellata. Il vaso somigliava molto ai lavori sopraffini che creavo per gli occhi e il gusto della corte reale francese, dei pezzi unici e impagabili che qui invece erano oggetti di uso comune.
    Comunicai loro brevemente che avrebbero dovuto preparare in poco tempo le loro cose, che avremmo lasciato la casa e la vita attuale per abbracciare un progetto grandioso, mirabolante, visionario. Neanche con mia moglie avevo mai fatto parola della speranza che avevo riposto nel luminoso futuro promesso. Non lo ritenevo opportuno: era mia moglie, e davo per assodato che mi avrebbe seguito senza discutere.
    Ma avevo sottovalutato la mia orgogliosa Althea.
    “Trasferirmi sul pianeta dominato dai Devianti? Thomas, non puoi essere serio!” Non aveva mai amato il mio primo nome, preferendo il secondo, a suo dire molto più musicale. E io le avevo concesso questo piccolo capriccio, per amor suo.
    “Non ti preoccupare di questo, li scalzeremo in poco tempo. E quel mondo diventerà il nostro, di noi Templari.”
    “Ma non il mio! E non quello di mia figlia!!” Lei si animò in maniera repentina, come se avesse deciso di ribellarsi a qualcosa che non reputava più accettabile. Era una reazione che, sinceramente, non mi aspettavo, e che mi disturbava. Avevamo pochi minuti, poi i mezzi sarebbero decollati anche senza che i passeggeri fossero tutti a bordo.
    "Intendi rimanere qui? E privarmi della mia famiglia?” Strinsi le labbra profondamente contrariato. “Io vi amo e non voglio dover scegliere tra il mio dovere e il mio cuore...”
    “Ma lo farai, purtroppo. Hai preso la tua decisione senza pensare a noi. Alla moglie alla quale hai giurato devozione eterna e a tua figlia, che non perdi occasione per dire che è la perla più rara che possiedi.” Sorrise amaramente, poi aggiunse: “Lo vedo e lo so, che partirai comunque.”
    “Devo farlo. Ho dato la mia parola, prima ancora che mettessi piede qui sulla Luna. Prima che ci incontrassimo, prima di ogni altro giuramento, per quanto questo fosse importante ai miei occhi.”
    Mia moglie mi guardò, superando le mie motivazioni con un cenno della mano. “Quindi non c'è nulla che potrei dire o fare per farti desistere. E, per la verità, non lo desidero neppure...”
    Le sue parole riuscirono a farmi provare un dolore fisico che da tanto, tantissimo tempo non saggiavo. Furono uguali alla lama che mi trapassò il petto, uccidendomi. Mi aveva massacrato con leggerezza, quasi non ne avesse l'intenzione. Al contrario, sapevo che ponderava i suoi movimenti con grazia e accortezza. Ma qui terminava quello che conoscevo di lei. Era come se vedessi quella donna per la prima volta, in tutta la sua bellezza eterea e crudele.
    “Credevo mi amassi...” Accusai, scandendo le parole lentamente.
    “Una volta, ma è tanto che non è più così. Da quando ho riconosciuto la vera natura del tuo amore.”
    Gettai uno sguardo a Naija, immobile dietro la madre. Da lì a poco sarebbe stata una donna e non più una ragazza. Mi accorgevo solo ora come si fosse eretto, poco alla volta, un muro invisibile tra me e loro. Anche lei sarebbe rimasta qui, mi avrebbe abbandonato.
    “Non capisco cosa intendi. La mia famiglia siete voi, vi ho sempre protetto e dato il meglio che potevo.”
    “Esatto. Siamo qualcosa che tu valuti, che pesi in ricchezza e vantaggi. Ci ami come ami gli oggetti che possiedi. Allo stesso modo. Siamo dei trofei che sfoggi durante i ricevimenti e le occasioni ufficiali.”
    “Menti!” Sibilai, sentendo aumentare la furia. Come osava parlarmi a questo modo? Aveva lasciato da parte i modi dimessi con cui si era fatta amare per sfoderare un rancore scioccante. Accusarmi con ingratitudine e arroganza, senza considerare le attenzioni affettuose con cui la avevo trattata in ogni momento?
    “Thomas, no, non mento. E te ne renderai conto quando lascerai, da solo, questa casa, per seguire le tue ambizioni spropositate. Ci abbandonerai allo stesso modo in cui abbandonasti la tua precedente famiglia, perché non esiste un posto per noi, nella tua vita.”
    Non risposi perché rimasi senza parole. Irrigidii i muscoli del collo e delle spalle per non afflosciarmi davanti alle sue offese, troppo veritiere per non essere micidiali.
    “Temo che ti pentirai velocemente dell'arroganza che stai mostrando...” Rilanciai con rancore.
    “Non mi pentirò mai di non averti seguito nel compimento del vostro atto indegno di tradimento nei confronti dell'Impero!” Il silenzio scese pesante nel giardino. Non avevo più nulla da dire, la rabbia e la disperazione mi serravano la gola, ma al contempo mi impedivano di compiere un atto sconsiderato.
    “Addio, padre!” Il breve intervento di mia figlia fu come l'ultima mandata a chiave data ad una porta che sarebbe rimasta sprangata per l'eternità. Lasciai pochi minuti dopo l'abitazione che avevo considerato casa per un discreto numero di secoli, senza mai sentirla mia, sempre proiettato come ero nel futuro che si andava concretizzando.
    E ora, dopo mesi passati da quell'ultimo incontro, mi accorgevo quanto ancora mi feriva il senso di vuoto che aveva lasciato.
    Spostai con il dorso della mano ancora guantata la ciotola di zuppa che avevo ordinato nella locanda, in attesa del cacciatore di taglie. Avevo sperato che assomigliasse a quella che avevo assaporato, dopo molto tempo di esilio, nella mia amata città, ma non mi sarei potuto sbagliare di più. Era immangiabile, per i miei gusti.
    Alzai lo sguardo di scatto, avvertito dalla percezione di una cambiamento nell'ambiente che era pacifico e silenzioso. Irrigidii la mandibola trovandomi un uomo in piedi davanti al tavolo, a poca distanza da me, come se fosse sorto dal terreno stesso. Era molto raro che venissi sorpreso così nettamente, e la circostanza che fossi smarrito nei miei pensieri non era sufficiente per giustificare la facilità con cui quell'uomo di media corporatura, ma coperto da un armatura di tutto rispetto, si fosse potuto muovere sottotraccia.
    Feci un cenno verso una delle sedie vuote, indicando al nuovo arrivato di accomodarsi per prendere accordi, ma lui ignorò il mio invito. Con un gesto fluido estrasse la richiesta di contratto che avevo affisso alla bacheca da sotto il pettorale e lo posò sul tavolo, avvicinandola con due dita della mano.
    “Siete voi il committente di questa missione.” Non era una domanda.
    Staccai la schiena dallo schienale per recuperare a mia volta il trasmettitore, il piccolo oggetto di metallo con una piccola antenna estraibile e un led che si sarebbe illuminato all'avvicinarsi del bersaglio. “Le informazioni che deve sapere sono riportate sulla domanda, non è necessario altro. E' di estrema importanza che il soggetto mi venga consegnato vivo.”
    “Diciotto anni, essere umano, localizzato per l'ultima volta sul pianeta Terra.” Ero certo che avesse ammiccato, anche se il casco gli copriva interamente il volto, inclinando da un lato la testa. “Non ho bisogno di altro.”
    “E per la ricompensa...” Iniziai a dire, ma il Mandaloriano mi interruppe. “La cassa di metallo nh la consegnerete al momento dello scambio, quando vi affiderò la persona che state cercando.”
    Annuii impressionato e vagamente stordito. Se oltre all'estrema efficienza e prontezza era incisivo allo stesso modo nel rintracciare il soggetto su cui Mahkent voleva mettere le mani, presto il piano che notre patron stava creando avrebbe ottenuto un nuovo tassello.
    “Mi metterò io in contatto quando avrò recuperato con successo il soggetto.” Il trasmettitore era già al sicuro in una custodia celata del suo vestiario. “Questa è la via.” Fece un diverso cenno del capo, questa volta. Incredibile come riuscisse a comunicare anche in quel modo.
    Il mantello ondeggiò in maniera impercettibile quando uscì dal locale. Mi alzai dalla sedia e mi avviai verso l'uscita a mia volta. La strada era deserta, ma intravvidi due figure svoltare in un vicolo molto più avanti lungo la strada principale dell'abitato. La prima parte della mia missione era conclusa.
  5. .
    :Thot:
    Il Campione non era certo se fosse soddisfatto o meno di quella risposta, ma si rese conto che era l'unica che poteva pretendere in un momento simile. Ciò nonostante, ancor prima che potesse aprir bocca per rispondere, un dolore sordo gli sconvolse la testa, il petto, il cuore. Ebbe come la sensazione che un ordigno fosse esploso dentro di lui, disseminando chiodi e detriti. Un urlo fu trattenuto tra i denti, ma non poté fare a meno di poggiarsi su un ginocchio. Artigliò l’erba rada del giardino e vi si aggrappò come se fosse l’unica cosa stabile dentro e fuori di lui. Quello che stava provando non era il suo sgomento... no, e il terrore che lui potesse metterlo da parte ancora tornò forte e caparbio.
    Horus vide Toth quasi accasciarsi a terra, l'espressione del suo viso così contorta e sofferente da renderlo irriconoscibile. Si precipitò su di lui per cercare di sostenerlo, circondandogli le spalle con le braccia. Ignorò il tonfo che fece il suo cuore, concentrandosi come d'abitudine sulle esigenze di lui. Un sospetto orrendo la sconvolse ancora di più: “Cosa ti succede? Non hai ancora recuperato dalle ferite della missione, devi riposarti, ora!” Non nominò il vero timore, ovvero che fosse l'altro Toth a condizionarlo.
    Fu un istinto balordo, ma non riuscì a reprimerlo: il Campione si riscosse dal tocco di Horus, quasi come se fosse stato morso da un serpente. Non ne capiva il motivo, cominciava a non distinguere le sue reazioni da quelle della persona che viveva dentro di lui. Il sudore scendeva copioso dalla fronte, lungo il collo e la spina dorsale. “Lui... lui... non riesce a controllarsi...” biascicò, mordendosi di nuovo il labbro e aggrappandosi alla panca lì vicino. Non poteva rivelarle che avrebbe potuto prendere il suo posto in ogni momento, che non aveva alcun potere di replica, che non sarebbe riuscito a impedirglielo...
    “Lui... l'altra presenza dentro di te... è ancora in grado di importi la sua volontà, di farti stare male?” Tirò indietro le mani che si erano strette a lui, in un modo troppo appassionato. Toth si era scrollato dal suo tentativo di aiutarlo come se ne fosse disgustato. Lei si augurò che, nella concitazione del momento, il suo atteggiamento fosse passato inosservato. Avrebbe dovuto controllarsi meglio e di più, ma ora non voleva distrarsi da un problema che poteva rappresentare un grave ostacolo. Aveva dato per certo che il suo Campione, una volta tornato, avesse risolto del tutto la minaccia di poter essere di nuovo sostituito dall'altro uomo, ma così non sembrava affatto!
    “Lo sta facendo... anche se non vorrebbe...” confessò a denti stretti. Si sedette sulla panca, infilò le mani tra le gambe e si rannicchiò in cerca di protezione da quel dolore. Respirò a fondo, tentando di connettersi con l’altro e capire cosa fosse meglio fare. [COLOR=red]“Lui ti ama...”
    “No, non è così... mi ha raccontato di aver conosciuto una persona identica a me, nell'universo dal quale proviene, e di averla amata senza avere avuto modo di dimostrarglielo. Sta solo vedendo lei, in me, e nulla di più.” Fece un piccolo sorriso di compassione per l'altro Thot, considerando l'argomento risolto. Poi rivolse lo sguardo al Campione, corrugando la fronte, e tirò fuori dalla manica un piccolo fazzoletto. “Ma tu non stai bene, e io sono preoccupata per la tua salute!”
    Il Campione sentì il fazzoletto tamponare la sua pelle madida, ma anziché provare sollievo, le fitte diventarono sempre più forti, al punto che gli occhi iniziarono a lacrimare e il corpo a tremare. E poi non riuscì a non perdersi, si sentì affogare e prese ad annaspare per restare a galla... Il terrore si impadronì di lui, quando la consapevolezza che l'altro era riaffiorato divenne reale.
    Thot non era riuscito a reprimere le sue emozioni, a tenere le redini di una volontà che pareva essere divenuta bersaglio di soli colpi inferti a tradimento. Perché nessuno capiva? Perché i suoi sentimenti dovevano essere calpestati a quel modo? Ci aveva provato... a starsene da parte... Ma la disperazione era stata più forte, le parole di Horus lo avevano dilaniato e aveva bramato quel tocco per sé, per la sua carne, per il suo cuore. Circondò la mano di lei con la propria, vi si appoggiò per riprendersi ciò di cui aveva bisogno, respirò a fondo e poi fece qualcosa per cui sarebbe stato condannato a vita: baciò il palmo caldo di Horus, attraverso il fazzoletto prima e direttamente sulla pelle dopo. Una, due, tre volte. E gli parve di ritornare a respirare... Solo allora la guardò negli occhi.
    Horus non si soffermò troppo sul suo gesto premuroso: la aveva appena respinta in malo modo, poteva farlo anche in questo caso. Ma decise di non pensare troppo e di agire d'impulso, certa che così facendo avrebbe messo da parte le sue emozioni per lasciare spazio al senso del dovere, ai riflessi addestrati in anni e anni di lavoro per essere un supporto sicuro e affidabile per lui. Non pensò al suo cuore neppure quando Toth le prese la mano e gliela baciò. Si trattava di un ringraziamento, probabilmente il primo passo per ritornare appieno ai ruoli che avrebbero sempre dovuto interpretare. Sospirò felice, abbandonando per un secondo le paure che la tormentavano da un tempo infinito. Poi, lui alzò la testa, e Horus si sentì mancare, come se le ossa si fossero trasformate in alghe flosce. Non riuscì neppure a sfilare la mano dalla presa, né a reagire alla carezza che le sfiorò la guancia. Toth si era trasformato in una persona diversa, un gemello di sé stesso, che si distingueva dal suo Campione solo per le emozioni che trasparivano dagli occhi. Vi leggeva tristezza, supplica, tenerezza, strazio e ardore.
    Era disprezzo ciò che Thot vide nello sguardo di Horus? Si era accorta del cambiamento e quel leggero sorriso che lo aveva spedito in paradiso si era spento, affossato in una espressione sgomenta. Non era il suo Campione ad averle stretto la mano, che vi si era appoggiato come se ne avesse bisogno fisico... e questo l'aveva delusa. “Non dare per scontato ciò che provo. Il mio amore non è un gioco, né un riflesso. È reale, tanto quello che tu provi per il tuo Campione, non calpestarlo così...” Il respiro era affannoso e non sapeva bene che cosa sarebbe accaduto. Percepiva chiaramente un altro tipo di disprezzo adesso, proveniva dal suo alter ego... ed era indirizzato verso il suo Compagno Alato oltre che verso il suo invasore. Nulla stava andando secondo i piani...
    “Come hai fatto ad essere di nuovo qui?” Soffiò lei, racimolando il respiro per pronunciare quelle poche parole. La testa rischiava di aprirsi per lo sconvolgimento e il trauma che stava provando. Il fatto che la mano fosse ancora nella stretta dell'intruso non era un segno che deponeva sulla sua buona fede e sulla sua determinazione nel mantenere l'accordo appena raggiunto con il Campione, ma la forza era stata risucchiata in un buco nero di angoscia. Lottò per non scivolare a terra, un’ulteriore prova della sua inadeguatezza nel mantenere la disciplina e l'impassibilità che ci si sarebbe aspettate da un buon soldato.
    Thot, dal suo canto, non la lasciò andare, un po' per egoismo, un po' perché non ne aveva la forza. Non sapeva cosa risponderle, non aveva programmato nulla, ma adesso temeva il ritorno del Campione, come l'avrebbe trattata? L’avrebbe punita per questa sua debolezza momentanea? Doveva lasciarla andare e fare in modo che lei mantenesse quella insulsa promessa di prigionia e sofferenza autoimposta? Ci aveva già provato a convincerla che non era la strada secondo lui migliore, ma lo spirito di sacrificio di Horus rasentava l'autolesionismo. Sarebbe stato perdente.
    “Sono stato richiamato... dalle tue conclusioni su ciò che provo... Non so bene come funziona tutto questo, ho tentato di non emergere, ma tu... lui... siete delle macchine senza sentimenti... e volevo mettere in chiaro almeno i miei...” Thot sospirò, non aveva più ossigeno e il Campione scavava per scalzarlo e poter inveire contro entrambi. Si trovava tra l'incudine e il martello... ma forse doveva lasciare che tutto ciò accadesse e lasciarsi andare all'oblio. Ma se lo meritava davvero?
    “Quindi sei tu che hai il controllo della transizione? Anche se trascinato dai tuoi sentimenti, puoi aver ragione della forza del legittimo possessore di questo corpo?” Horus abbassò lo sguardo e girò la testa intorno, quasi si aspettasse che il mondo si fosse invertito nel frattempo. “Le nostre vite dipendono dalle tue decisioni, o peggio, dall'impeto dei tuoi sentimenti? Credi di poterci giudicare e di influire sulle nostre azioni, senza alcun riguardo per il nostro volere...” Si passò la lingua sulle labbra secche, avvertendo un sapore salato. Alla fine, come ulteriore umiliazione, non aveva trattenuto le lacrime. “Ho scelto la mia strada conoscendo quello che avrei affrontato, non ho bisogno di pietà, ma neanche di essere accusata senza motivo. Se solo sapessi cosa causeranno le tue parole...”
    Thot la lasciò andare. Udire quelle sillabe laceranti, vedere la sua sofferenza condensata in lacrime amare e tenerle la mano contemporaneamente non era possibile, lo stava uccidendo. Si appoggiò allo schienale della panca e fissò il cielo, neppure la forza della luna riusciva a dargli sollievo. Il suo dolore non era solo fisico... abbassò le palpebre e le strinse forte. “Mi sono risvegliato qui, non per mia volontà. Quante volte devo ripeterlo?” mormorò senza energia, la voce un filo sottile. “Ho tentato di avere cura del tuo volere, dei tuoi sentimenti per lui... ci ho provato... adesso dammi una tregua...” Avrebbe dovuto trovare la forza per continuare a combattere, ma adesso non ne aveva neppure un briciolo.
    “Cosa vuoi che faccia?” A quel punto, non trovava altra via d'uscita. Nessuno ragionamento, nessuna minaccia, neanche la paura o la considerazione che diceva avere per lei potevano nulla per convincerlo a desistere. La vittoria che Horus aveva ottenuto scacciandolo, restituendo la libertà al suo Campione, si era vanificata solo perché non lo aveva rispettato a sufficienza, nei suoi giudizi. E quindi, come aveva appena riconosciuto, sia lei sia il legittimo erede di Marte non sarebbero mai stati liberi di proseguire la loro vita. Era un tiranno. Gentile, accorato, attento, coraggioso, magnanimo, giudizioso, ma pur sempre il carceriere delle loro anime. “Ho cercato di non pensare più a te, di agire secondo i miei valori, ma tu... continui a rimanere qui, a spiarci, a sparigliare le nostre intenzioni...”
    “Se potessi uccidermi, senza farti soffrire - perché con me verrebbe anche il tuo Campione - lo farei in questo preciso istante” sibilò, conficcandosi le unghie nelle ginocchia, trapassando il lino e incidendo la carne. Si trovavano a un punto morto, da un lato avrebbe voluto mollare tutto, Horus compresa. Non era sua la responsabilità di quanto stava accadendo! Dall'altra, il suo amore per lei lo costringeva a doverla sapere felice. Eppure, anche se lui avesse capito come farsi da parte, con il Campione NON sarebbe stata felice! Nonostante tutto ciò, lui era considerato l'intruso, il nemico, il terzo incomodo. Questa cosa riusciva a farlo impazzire dalla rabbia, ringraziò che il potere lunare non avesse effetto sulle ferite dell'anima... almeno non avrebbe avuto la forza di reagire e di commettere l'irreparabile.
    Il Campione, dentro di lui, si era fatto improvvisamente silenzioso: temeva che Thot potesse mettere in pratica il suo desiderio di porre fine alle loro vite e a quel punto, nessuno avrebbe vinto.
    Le dolevano le ginocchia, immobile come si trovava già da un po', chinata accanto a lui. Non riusciva però a muoversi, a raccogliere la volontà per attivare i muscoli, i tendini. Era davvero uno sforzo superiore a quello che poteva sopportare, perché non si trattava solo di quello, ma di spostare anche il greve peso della situazione, del dilemma orribile che li stava coinvolgendo tutti e tre. Il suo Campione non sarebbe mai tornato davvero alla sua vita, sempre in cattività per colpa di una decisione fatale e imperscrutabile e lei, nonostante avesse fatto tutto per cercare una redenzione, si sentiva ogni giorno di più lontana da un traguardo dove la sua esistenza sarebbe stata irreprensibile. Erano i sentimenti che la condannavano. Quelli di sua madre, che aveva pagato a caro prezzo la sua idea di integrità, quelli suoi, che avevano ignorato i precetti sacri, quelli dell'intruso, che combatteva anche quando sarebbe stato meglio arrendersi.
    “La morte sarebbe davvero l'unico rimedio, ma non...” Esalò un lungo respiro, tra le parole sussurrate quasi solo a se stessa. “Niente di meno della Fidah, o la morte da sola non avrebbe nessun significato...” Rimase a guardare il vuoto, ai suoi piedi, sconvolta.
    Fidah. Quella parola aveva avuto il potere di generare una valanga di emozioni contrastanti. Thot era confuso, dal tono e dalla espressione di Horus non sembrava nulla di buono, anzi, tutto il contrario. Il Campione invece era ammutolito, mentre tentava di nascondere al suo invasore i ricordi e i pensieri che minacciavano di venire a galla. Ma fu Thot a indagare, scavare, costringerlo a venire allo scoperto perché a lui i sotterfugi non piacevano affatto. Tuttavia, rischiò di pentirsi amaramente di questo atto di forza. Le unghie che erano conficcate nelle ginocchia andarono più a fondo e trattenne a stento un ringhio all’interno della gabbia toracica.
    Fidah. Somma Redenzione. Un suicidio rituale che i Compagni Alati compivano quando – per qualsiasi ragione – venivano meno al loro giuramento di fedeltà. Era un modo per espiare i propri sbagli, lavando via col sangue l’onta di aver offeso o tradito il proprio Campione.
    Nessuno osava fiatare, ma Thot non aveva alcuna intenzione di starsene zitto, non quando una simile ipotesi era uscita dalle labbra della donna che amava. Cosa voleva dire? Ciò nonostante, non lo avrebbe domandato a lei… ma al bastardo che seguitava a trincerarsi dietro il muro del silenzio.
    “Ora, tu mi spieghi a che cosa allude Horus. Perché ha parlato di questo rituale? Perché dovrebbe interessarle in questo istante? Non è della sua morte che si stava parlando, ma della mia.” Thot ringhiava nella sua testa, ma aveva quasi la sensazione di avere pronunciato ogni singola sillaba tanto fu intensa. E poi, attese, anche se non per molto, il Campione non poteva tirarsi indietro da quel confronto, lo avrebbe costretto anche con le maniere forti se fosse stato necessario.
    “Horus pensa che tu ti sia incaponito a causa sua, che tu voglia restare a ogni costo… o che non ne possa fare a meno… a causa dei sentimenti che provi per lei…”
    “E allora? Non è una sua responsabilità, cosa c’entra la Fidah?”
    “Se la conosco bene, crede che levando l’ostacolo si risolverebbe il problema. Venendo meno lei, tu mi lasceresti alla mia vita…” Il suo cuore si frantumò in mille pezzi, mentre portava le ginocchia al petto e vi appoggiava la testa sopra. Doveva in qualche modo tenerli insieme quei dannati cocci… doveva…
    “Che terribile sciocchezza… Se solo avessi voce in capitolo e tu non fossi il coglione che sei allora farei in modo di scomparire nel nulla, ci proverei almeno… Ma tu non sei in grado di renderla felice, solo che non se ne rende conto. Pensa che essere un Compagno Alato sia la massima aspirazione… ma non lo è anche amare? Condividere la vita con una persona che ti ricambia? Davvero è convinta che io potrei lasciarle fare una cosa simile…?” Il Campione rimase silenzioso per qualche istante e questo lo insospettì un po’.
    “Amare il proprio Campione è proibito, è un sentimento impuro, che non può e non deve essere vissuto. D’altronde, un Compagno Alato non deve avere altre ambizioni se non quelle di contribuire alla gloria del proprio Campione.” Aveva parlato con tono strano, quasi meccanico.
    “Cosa cazzo vorresti dire? Che per quel sentimento farebbe bene a togliersi di mezzo? Vedi, ho ragione a definirti coglione, anzi pure stronzo. Avete vissuto centinaia di anni insieme e questo è tutto ciò che hai da dire di fronte a una tragedia annunciata? Mi fai schifo.” Thot lo aggredì, sperando di fargli male nel profondo, doveva ferirlo per capire se poteva esserci un minimo di sensibilità in un cuore che pareva fatto di cenere. Amava le sue sorelle, aveva percepito quell’amore fin dentro le ossa. Amava essere un marziano e un MoonKnight. Amava servire la sua Patria e proteggere il suo popolo. Perché non capiva ciò che Horus provava per lui, anzi addirittura lo condannava oltre ad aver represso una scintilla che poteva diventare fiamma ardente.
    “Non possiamo cambiare tradizioni millenarie. Quelle ci hanno retto e portati fin qui su un tappeto di onorevoli vittorie… Ma tu non puoi capire!” Eccolo che veniva fuori dal suo guscio, era l’orgoglio uno dei suoi punti deboli.
    “Sono fiero di non capire una barbarie simile. Sai, sono stato un mercenario per anni, ero convinto di aver trasformato il mio cuore in pietra, che il sangue versato avrebbe per sempre imbrattato la mia anima. Eppure, mi sbagliavo. Ho servito l’Impero Lunare con devozione, votandomi senza remore a ogni sacrificio necessario… ma mai… mai avrei permesso a un’altra persona di togliersi la vita per una colpa che non è una colpa. Mai.” Thot avrebbe voluto prenderlo a cazzotti in questo preciso istante, ma la sensazione che non avrebbero potuto raggiungere una visione comune iniziò a farsi strada come un uragano dentro di lui.
    “Ciò che tu non consideri una colpa, per noi lo è. Non puoi capire il nostro mondo, per questa ragione Horus non ti amerà mai. Lei è talmente devota alle tradizioni a cui ha giurato fedeltà che preferirebbe morire piuttosto che continuare a vivere nell’onta di un amore non permesso…” Un magone improvviso chiuse la gola di Thot e questa volta fu ben lieto di non dover rispondere con le corde vocali a quella terribile verità. Il Campione aveva ragione su tutta la linea, ma questo non avrebbe aggiustato le cose, anzi, le avrebbe solo peggiorate.
    “Allora perché hai accettato la sua promessa di smettere di amarti?” chiese in un flebile pensiero, timoroso di conoscere la risposta.
    “Perché volevo darle una chance... ma il suo sorriso in risposta alla tua carezza, convinta che fosse la mia; il suo tocco premuroso quando mi hai piegato in due dal dolore; adesso che so vedo tutto sotto un’altra prospettiva. Non sono convinto che riuscirà a mantenerla quella promessa…”
    “E quindi? Meglio che muoia così tu potrai trovarti un altro uccellino da ingabbiare e rendere schiavo?” Thot sibilò tra i denti, senza rendersi conto di aver detto quelle cose terribili a fior di labbra. Il suo era stato un mormorio sommesso, ma richiamò l’attenzione di Horus. Si maledisse mentalmente e cercò di stare calmo. “Non lo permetterò mai. Sappilo. Semmai dovesse accadere una cosa simile, tu finiresti lo stesso nell’oblio, perché ne sarai stato il primo responsabile…”
    “Dovresti chiederlo a lei. In fondo, la scelta è la sua.”
    “Dovrei sopprimerti in questo preciso istante.”
    “Il suo odio ti ucciderebbe…” La frustrazione rischiava di spezzare Thot. Non vedeva via di uscita da quel pantano in cui si era infilato. Si strofinò il viso e cercò di respirare più profondamente, rischiava l’apnea.
    “Stai parlando con lui?” La voce fragile di Horus lo costrinse a voltarsi verso di lei. Incrociò il suo sguardo di ossidiana liquida, il suo dolore lo avrebbe ucciso prima del suo odio o della sua morte. Thot annuì piano, mentire non aveva senso. “E cosa ti sta dicendo…?”
    “Mi ha spiegato cos’è la Fidah…”
    Horus annuì decisa. ”La soluzione migliore, quella più onorevole” Man mano che parlava acquistava più sicurezza. ”La cerimonia avverrà davanti a dei testimoni scelti che avranno il compito di certificare che la Redenzione si è compiuta rispettando le regole millenarie, e in questo modo il Campione sarà libero...” scoccò un'occhiata intensa a Toth “... di poter partecipare alla competizione per legarsi ad un nuovo Compagno Alato.”
    Thot sbatté le palpebre per schiarire la mente. Aveva la sensazione di aver ricevuto una serie di pugni in viso, nello stomaco, sull'anima. “Saresti davvero disposta a farti abbattere con un colpo al cuore dal tuo Campione? La persona con cui hai vissuto per centinaia di anni, che avrebbe dovuto proteggerti come se fossi un tesoro prezioso e non un mero animale da compagnia? Come potrei permettere una cosa simile?” Come aveva fatto a vivere in un mondo simile per così tanto tempo? Così lontano da ciò che era e da ciò in cui credeva? Thot non riusciva a capacitarsi che una tale crudeltà potesse essere data addirittura per scontata. Aveva la nausea.
    L'espressione di Horus esprimeva appieno contrarietà, le labbra chiuse e schiacciate tra loro. Si alzò in piedi, guardando Thot dall'alto, e il tono con cui rispose non lasciava spazio ad altre repliche. “Sì, sono disposta a farlo e no, tu non dovrai ostacolarmi più!”
    Thot avrebbe voluto alzarsi e urlarle contro, prenderla per le braccia e scuoterla fino a quando non avesse ritrovato la ragione, ma un flash di un possibile futuro gli fece capire che a nulla sarebbe servito. Una mentalità così radicata e forte non ne sarebbe stata neppure scalfita. Al contrario, avrebbe creato un mostro peggiore di quello, l’avrebbe costretta a scelte ancora più definitive. E lui non voleva nulla di tutto ciò. Dal saperla felice, la priorità si era spostata sul saperla viva in qualche angolino dell’universo e per far sì che ciò accadesse avrebbe dovuto fare, ancora una volta, un passo indietro… Conosceva le intenzioni del Campione, l’avrebbe tenuta sotto stretta osservazione e l’avrebbe punita al primo passo falso… ma a Thot non restava che confidare in Horus e nella sua capacità di reprimere sentimenti nati su un ideale che poco aveva a che fare con la realtà. Non c’era spazio per scelte alternative, non c’era spazio per vivere il suo amore e la sua vita che, a detta di tutti, era nulla più che un errore del destino…
    “Ti amo, Horus, ti amo con ogni fibra del mio essere. Per questo ti lascio andare… Tenterò con tutte le mie forze di non venire più a galla, ma tu promettimi che farai di tutto per restare in vita. Smettere di amare è difficilissimo, chi ama davvero lo sa, ma tu provaci… per la tua incolumità e per non rendere i nostri sacrifici vani…” Thot aveva parlato guardandola negli occhi, alzando il volto su di lei con sguardo fiero. Si stava affidando al Fato… senza sapere che quest’ultimo aveva ben altri piani per lui.
  6. .
    :Horus:
    Horus attese con impazienza e apprensione crescente il ritorno dei due Marziani dalla missione che avevano proseguito in autonomia. Avrebbe voluto dire ben altro a Thot, quando comunicò la sua decisione davanti a tutti, con sorpresa per tutti. Era inusuale cambiare arbitrariamente i piani di una missione. Anche se nuovi fatti avessero reso indispensabile un adattamento del piano iniziale, quantomeno esistevano delle linee guida da rispettare e lui le aveva ignorate volutamente.
    Horus aveva il dubbio che questo potesse essere collegato alla tensione che c'era tra loro due, alla rigida freddezza con cui il suo Campione la aveva trattata da quando era tornato. Dubbio che diventò certezza quando Deimos, il Compagno Alato di Ares, la informò del loro ritorno, e del fatto che si trovavano presso la Sede del Consiglio per fare rapporto sulla conclusione e il risultato dell'operazione.
    Dopo un veloce viaggio astrale raggiunse la Luna e le stanze che a Thot erano riservate. Lo individuò all'istante nel piccolo spazio erboso davanti alla sua camera. Planò pesantemente vicino a lui. Era arrabbiata per essere stata lasciata indietro. Non passò alla forma umana perché preferì comunicare telepaticamente con lui. "Dovevamo ritrovarci su Marte, come sempre! Cosa è cambiato?"
    Il Campione era seduto su una panca nel piccolo giardino esterno al suo alloggio lunare. Si rifugiava lì quando aveva bisogno di rigenerarsi, riflettere o entrambe le cose. Udì l'arrivo di Horus in lontananza, percepì la sua rabbia come se ce l'avesse sulla pelle, ma la cosa non lo turbò, in realtà, se lo aspettava. Troppe era le cose che avevano lasciato in sospeso.
    Le rispose solo quando planò a poca distanza da lui, sul trespolo sistemato proprio per lei nel giardinetto. "Dopo la missione siamo venuti qui a fare rapporto e vi sono rimasto per sfruttare meglio l'energia lunare, avevo bisogno di rigenerarmi." Alzò appena lo sguardo dagli artigli che stava lucidando.
    Horus lo scrutò con insistenza, l'occhio dorato che brillava, il becco abbassato, in un muto rimprovero. “Non lo metto in dubbio, ma anche se è successo ben poche volte che tu non avessi bisogno della mia presenza durante una missione, non era questo il nostro accordo. Oppure...” Anche se telepaticamente, Horus non riuscì a evitare che la preoccupazione per le condizioni del Campione, una volta tornato dalla prigionia che gli era stata imposta, trapelasse. Preferì quindi non terminare la frase.
    "Oppure cosa?" Il Campione la fissò con sguardo gelido, fermandosi per qualche attimo dal suo compito, che stava eseguendo con maniacale precisione. L’unico modo che aveva per incanalare le sensazioni negative che lo stavano attraversando in quell’istante.
    Un piccolo schiocco, il becco di Horus che si chiudeva seccamente. Era nervosa. Non avrebbe indietreggiato, ma neppure voleva cadere nella trappola che lui usava spesso, quella di accendere la miccia della rabbia per arrivare allo velocemente allo scontro aperto e avventato. Dopo qualche secondo, rispose con tono conciliante. “Desidero solo delle spiegazioni, per capire cosa è successo.”
    Il Campione si morse il labbro inferiore, talmente forte da sentire il sapore del sangue sulla lingua. "Volevo spazio e respiro. Da quando sono tornato mi sento soffocare. E la tua presenza non ha aiutato." Aveva cercato di far finta che tutto andasse per il meglio, che fosse possibile ritornare alla normalità, alla sua vita di prima, come se nulla fosse accaduto... beh, in quella missione, aveva avuto la prova dell'esatto contrario.
    Horus scosse il capo come per liberarsi della rabbia che lui le stava riversando addosso. Si sentiva ferita dalla sua ostilità, e percepiva una sottintesa, neanche troppo nascosta accusa nei suoi confronti. “Se vuoi tempo e modo per recuperare le tue energie, oltre che la serenità per riprendere i tuoi compiti e il ruolo che ti spetta, possiamo parlarne. Ma evitarmi è solo una perdita di tempo...”
    "Su questo siamo d'accordo. Rimandare ancora non tornerebbe utile a nessuno. Dunque, perché mi hai mentito sulle tue origini?" Il Campione non mosse un solo muscolo del viso, ma i suoi occhi fiammeggiarono, pronti a una battaglia che attendeva da tempo.
    “Ho mentito per un buon motivo, ed è stato tantissimo tempo fa. Ho mentito per poter accedere all'Accademia, perché ero certa che avrei potuto dimostrare il mio valore se ne avessi avuto la possibilità. Con te, invece, sono stata sincera e irreprensibile da quando siamo diventati compagni. Non ti ho mai raccontato bugie.” Horus fu grata del fatto che telepaticamente la sua voce non avrebbe potuto tremare o spezzarsi.
    Il Campione si mosse sul posto dove era seduto, stare immobile diventava sempre più difficile. "In realtà, non avendomi parlato di questo tuo sotterfugio, di fatto non lo sei stata. Hai mentito all'Accademia, ma hai continuato a mentire anche a me. Hai basato un giuramento di fedeltà su una enorme menzogna..." La comunicazione telepatica non gli bastava più, perciò sibilò quelle parole con le corde vocali, serrando forte un pezzo della sua armatura fino a sbiancare le nocche.
    Lei rimase paralizzata, quasi si fosse fatta di sale. Avvertiva ogni più piccolo movimento all'intorno, anche quello di piccoli animali da predare che stavano tranquillamente attraversando il giardino, ignari di lei. Cosa si aspettava, se non quello che stava succedendo? E il disprezzo di lui, quanto era prevedibile? Non si stupì quando la risposta partì senza che lo avesse veramente deciso, in fondo era stata nella sua mente da sempre.
    Da sempre.
    “All'epoca non ritenevo così grave il fatto di mentire su un aspetto irrilevante come il luogo in cui avevo visto la luce. Ero una figlia di Koronis, in ogni fibra del mio essere. Mia madre diventò un Compagno Alato a sua volta, prima di venir cacciata, quindi ogni altra cosa era secondaria rispetto al desiderio di onorare il mio pianeta e il Campione che avrei affiancato.” Mosse di scatto la testa, piccolo segno di nervosismo. “Ma comprendo la tua delusione. Dopo aver ricevuto l'addestramento, capii lo sbaglio, anche se era troppo tardi per rimediare, così se tu mi avessi chiesto notizie in proposito, probabilmente avrei confessato subito. Ora rimane a te la decisione sul da farsi. Se vorrai denunciarmi, accetterò la punizione, senza dartene alcuna colpa.”
    "Puoi trasformarti, per favore? Voglio poterti guardare nei tuoi occhi umani. È molto raro che te lo chieda, ma lo ritengo necessario adesso." Il Campione rifletteva alacremente, non aveva pensato alle conseguenze in realtà, così come non aveva pensato che avrebbe avuto quella resa incondizionata da parte di Horus. "Accetteresti dunque di perdere il tuo ruolo di Compagno Alato, dopo tutti i sacrifici fatti, se io decidessi di denunciarti?" Aveva bisogno di capire, aveva bisogno di ritrovare un dialogo che aveva perso molto prima che l’altro arrivasse a sconvolgere ogni cosa.
    Horus rimase immobile alla richiesta. Se avesse avuto le labbra, se le sarebbe morse ferocemente. Rimanere nella sua forma alata la avrebbe protetta, in qualche modo, le avrebbe evitato di dover nascondere i suoi sentimenti. Fu proprio per quello, alla fine, che decise di trasformarsi in donna. Era un suo dovere affrontare senza scappatoie quanto stava per accadere. Una volta passata alla forma umana, scese a terra con un balzo leggero. Guardò senza incertezza o ritardo il Campione, anche se in cuor suo tremava. Le sue parole non avevano inflessione, erano piatte e non contenevano emozioni. “Non lo sai già, Thot? Non mi conosci a sufficienza da sapere quanto le regole siano importanti per me? Ti ho confessato di aver mentito, e di aver vissuto nella contrizione per secoli. Forse...” Alzò la testa, verso il cielo notturno. “... forse, la mia anima sarebbe libera, una volta che non porterò più il peso dei miei segreti...”
    Il Campione la guardò come se fosse la prima volta, forse perché anche i suoi occhi erano così diversi da un anno prima... ma anche da dieci anni prima... "Credevo di conoscerti, ma poi, ho dimenticato. Forse, a un certo punto, ci siamo allontanati talmente tanto che ho cominciato a dare tutto per scontato..." Come poteva condannarla dopo quelle parole? "Non ti denuncerò. Andrei a distruggere un equilibrio che vibra da millenni tra Marziani e Koronosiani." Non voleva fare del male neppure a lei, ma questo non lo disse, non era importante in questo momento. Un sussulto al centro del petto gli ricordò di non essere solo e digrignò i denti per sopprimere quella sensazione di impotenza che strisciava e lo avvelenava dall'interno. L’altro non era molto d'accordo sulle sue parole, ma non aveva mai dubito di questo.
    Horus tentò di deglutire, senza riuscire a farlo. La sua bocca era arida, così come sentiva il suo cuore. Avrebbe quasi preferito che lui la accusasse pubblicamente, per una serie di motivi che era troppo turbata per analizzare. Pensò che l'altro Thot le aveva già anticipato quale sarebbe stata la decisione del Campione, e che lui conosceva davvero i suoi pensieri. Annuì con un cenno impercettibile. Respinse le lacrime che premevano agli angoli degli occhi. “Non desidero essere causa di tensioni con nessuno. Perciò rimarrò al mio posto, e lo farò secondo i tuoi desideri, aspettando che l'avversione per il mio tradimento possa un giorno attenuarsi.”
    Il Campione distolse lo sguardo e guardò anche lui la volta celeste. Forse rimanere sarebbe stata una punizione peggiore che essere cacciata via, ma lui aveva il dovere di pensare al bene del suo popolo prima di ogni cosa. Poi tornò a fissarla. "Per tornare a fidarmi di te, devo capire cosa è successo. In tutti questi anni... perché siamo cambiati? La menzogna l'ho saputa solo poco tempo fa, ma prima... dell'arrivo dell'altro, già eravamo distanti: una perfetta macchina da guerra, ma grazie solo all'abitudine. Non c'era più complicità... Perché?" Un'altra puntura al petto. Si premette il pugno contro il torace, per zittirlo. Non volevo le risposte da lui ma da Horus.
    Horus fece una smorfia amara agli interrogativi del Campione. “Siete entrambi uguali sotto questo aspetto, tu e colui che ha preso il tuo posto per tanto tempo. Sia te sia lui mi obbligate a confessare... e io invece vorrei strapparmi ogni fibra che causa questo stato.” Incrociò le braccia davanti al seno come fossero una protezione invisibile. “Il vincolo solenne che ci doveva legare per aumentare la tua gloria si è trasformato, senza che lo volessi, in un coinvolgimento di natura proibita. Un sentimento che non voglio neanche pronunciare, tanto la vergogna e l'avversione che provo per me stessa. Sono stata incauta, ingenua e superficiale. Io ti ho allontanato per evitare la tentazione. È colpa mia se siamo diventati quasi due estranei ma... i mesi in cui tu sembravi meno distaccato e insensibile, ho capito che per noi c'era ancora la speranza di ricostruire qualcosa che fosse... autentico.”
    "Non paragonarmi a lui! Non potremmo essere più diversi... anche in questo aspetto. Me l'ha detto sai? Che in tutto questo tempo hai continuato a provare qualcosa di innaturale e dissacrante. Ma non gli ho creduto... Mi hai vissuto come una tentazione? Per questo hai trasformato ciò che eravamo allontanandomi?" Non riusciva a capacitarsi di una cosa simile. Le sue parole erano uscite fuori strette tra i denti. Ricordava bene quando, anche se solo per poco, aveva rischiato di ricambiare quel sentimento agli albori. Una comunione del tutto fuori luogo e senza speranza. Da lì, sì, da lì tutto aveva cominciato a cambiare. "L'unico modo per costruire qualcosa di autentico è smettere di provare ciò che provi. In maniera definitiva. Con l'altro eri diversa, ma perché lui lo era!" La puntura al petto si trasformò in un dolore costante che lo fece boccheggiare. Se non fosse stato seduto, sarebbe caduto in ginocchio. L'altro non voleva che il Campione la ferisse, si ribellava, ma lui si stava opponendo. Era la sua vita!
    Ad Horus quasi spuntò un sorriso amaro sul viso, davanti al ragionamento di Thot. Una volta, avrebbe trovato estremamente lineare e accettabile il fatto di passare sopra ad ogni tipo di emozione per affidarsi solo alla razionalità, all'onore e al dovere. Alla pretesa di comandare i moti dell'anima solo con la volontà granitica derivante dall'addestramento inflessibile che era stato impartito ai marziani e ai koronosiani fin dalla più tenera età. E non solo ragionevole, ma addirittura apprezzabile. Lei ammirava il suo Campione proprio per il suo animo puro e incorruttibile. Però adesso scoprì con molta sorpresa che invece, l'insensibilità spietata stonava in qualche modo con i suoi pensieri. Come se gli ultimi mesi la avessero cambiata. Strinse le labbra per nascondere la smorfia involontaria. “Non chiedo altro che di ricostruire nuovamente il nostro rapporto.”
    Il Campione la fissò severo, sentendo una gocciolina di sudore freddo scorrere giù lungo la tempia. Aveva notato un certo irrigidimento da parte di Horus che non era riuscito a decifrare, mentre il Thot dentro di lui pareva voler intervenire e stava trattenendosi dal farlo. Era qualcosa che non lo riguardava ed era bene che così restasse. "Voglio sentirtelo dire. Perché in caso continuassi su questa strada torneremmo di nuovo punto e a capo." Si alzò dalla panca e si mise proprio di fronte a lei, sapeva che la sua era una pressione che rasentava la tortura, tuttavia, scoperto il problema bisognava attivarsi per risolverlo. Lui rivoleva indietro un Compagno Alato al cento per cento, per far sì che l’equilibrio fosse ristabilito. Era persino disposto a soprassedere sulle sue bugie, il valore di Horus e il suo contrito pentimento avrebbero di certo aiutato, ma su quanto era emerso... sui sentimenti... no, questo era inammissibile.
    Horus alzò gli occhi su di lui. Lasciò cadere le braccia lungo i fianchi, stringendo i pugni di nascosto. In fondo alla sua mente, una piccola voce si chiedeva il motivo della tristezza che la stava assalendo. Sorrise a quella e a tutto il resto, decidendo di ignorarlo come faceva sempre, rivolgendosi alla saldezza delle sue convinzioni e del suo ruolo. “Non voglio mentirti più. Mi stai chiedendo qualcosa che mi richiederà una forza immensa. Perché è molto tempo che la combatto senza riuscire a vincerla. Ma anelo troppo di tornare a essere degna del tuo rispetto, a potermi considerare un Compagno Alato senza macchia, quindi...” Il suo sguardo si perse nel vuoto, oltre la spalla del suo Campione. “... giuro che schiaccerò ogni sentimento impuro, dovessi morire nel tentativo di farlo.”


    Edited by Illiana - 5/5/2021, 12:28
  7. .
    :Persephone:
    Il tempo per compiere il passo successivo era arrivato. Una nuova reliquia sarebbe finita nelle mie mani per aumentare il controllo su questa dimensione e portare a termine i miei piani. Con i Monoliti in mio potere, accuratamente nascosti da occhi indiscreti e cuori avidi, mi sentivo molto più sicura riguardo il mio successo.
    Il pianeta Plutone di questa dimensione, che avevo eletto a mio rifugio, era molto diverso dalla mia dimora originaria: qui, occultato nel sottosuolo, esisteva una regione idilliaca, con immensi prati fioriti e un'abbondanza di acqua, profumi, farfalle e suoni melodiosi. Le anime che vi soggiornavano erano felici. Lo aveva costruito Hades per la sua amata sposa, e ora lo sfruttavo io con l'appagamento che derivava dalla rivincita e dalla vendetta che mi ero presa su di lui... sul mio sgradito consorte.
    Lo avevo scelto per tanti motivi, appunto, ma il più importante era la necessità vitale di non far sospettare a nessuno che non fossi io la vera Guerriera e Signora degli Inferi, la patetica Persephone che intravvedevo spesso attraverso gli invalicabili spiragli degli specchi e delle superfici riflettenti. Avvertivo l'odio e la disapprovazione per le mie azioni che le stavano consumando l'anima. Il suo sguardo, con mia somma letizia, era colmo di una brama di vita che di riflesso riaccendeva in me la passione, il desiderio di portare a termine il lavoro per cui non risparmiavo energie. Volevo solo poter vivere la vita che desideravo, come la sognavo. Il mio cuore urlava in perpetuo struggimento.
    Avevo percorso una strada oscura e feroce non avendo altra scelta; il destino si era imposto su di me, ma una volta assaggiato il potere, questo era diventato un elisir stordente. Da quella sensazione inebriante, potente e coinvolgente era passato moltissimo tempo, e avevo sacrificato parti enormi della mia vita per continuare ad accrescerlo. Avevo sfruttato ogni possibilità a mio vantaggio senza farmi ostacolare da stupidi scrupoli o dilemmi morali, ed ero orgogliosa di quanto avevo ottenuto, anche se non ero sempre riuscita ad ottenere quello che desideravo. Una cosa mi mancava, ed era la possibilità di essere... felice.
    Inizialmente fu un'esigenza facile da mettere da parte, ma a poco a poco si fece sempre più importante, difficile da ignorare. Salvare il mondo nel quale ero nata, su cui avevo acquisito un controllo pressoché inattaccabile con la morte dell'Imperatore, non era sufficiente, non più. Ero ambiziosa, certo. Era per questo che miravo a realizzare con ogni mezzo la mia fortuna, compreso tutto ciò che in altri momenti della mia vita avevo solo sognato o sfiorato. Attendevo che il momento arrivasse, e come Domina del Tempo, solo io sapevo quanto questo aspetto fosse importante da rispettare.
    Il complesso disegno per il recupero delle reliquie era preciso e organizzato con la cura e l'astuzia che avevo imparato a sfruttare durante i miei anni da Alfiere, al fianco di figure oscure come e più di me. Ogni manufatto doveva essere recuperato in un momento ben preciso, ovvero quando gli ostacoli nell'ottenerlo erano scarsi. Il piano ambizioso doveva essere attuato senza destare sospetti tra le persone che ne avrebbero così rilevato la scomparsa solo in un secondo momento. Fino a che avessi potuto, la mia identità, ma soprattutto la mia presenza in questa dimensione, avrebbero dovuto rimanere segrete.
    Avevo stabilito di impossessarmi dello Yumi Bow, in mano al Deviante scelto dalla Dea Nyx come suo paladino, quando il loro potere sul pianeta che controllavano non era ancora saldo e completo. Sarei tornata indietro nel tempo, all'inizio del loro Impero: i controlli sul manufatto non sarebbero stati troppo stringenti. In quel modo, difficilmente mi avrebbero scoperta. In caso contrario li avrei messi in allarme, avrebbero cominciato a cercarmi, a mettermi i bastoni tra le ruote, a intaccare il mio operato e a precludermi la possibilità di vincere prima che altre parti del mio lavoro fossero perfezionate e impeccabili.
    Aprii il portale del Tempo tracciando nell'aria il simbolo necessario, e manovrai la dimensione astrale per condurmi esattamente nel luogo e nel momento prescelto. Viaggiai con la consueta facilità, varcando l'oscurità come avrei attraversato una stanza per raggiungere la finestra. Ero quasi giunta a destinazione. La luminosità stava diventando più intensa ma, con questa, anche una nuova percezione. Non sarei stata da sola. Strinsi le dita intorno al bastone, una reazione contrariata davanti alla certezza che chi avrei trovato non avrebbe dovuto, per nessuna ragione al mondo, essere lì.
    Riconoscevo la loro aura come loro sarebbero stati capaci di riconoscere la mia. Erano appartenenti ad un culto che ero certa fosse scomparso ormai per sempre, ma così non era. L'impronta energetica inconfondibile di due Jedi vibrava tangibile, e questo era un fatto preoccupante. Anche se di loro ne fossero rimasti un numero sparuto, di certo non avrebbero dovuto trovarsi in questa dimensione.
    L'ira e il disappunto mi riempirono la mente, ma non ero diventata l'Alfiere per un puro caso. Il tempo di fare il passo successivo e già il mio piano era variato, si era adattato alle condizioni avverse e impreviste. Non dovevo solo impossessarmi della reliquia, ma anche trovare il modo per proteggere la mia identità e le mie intenzioni.
    La luce che illuminava la stanza quasi mi accecò, ma strinsi gli occhi più che altro nel vedere quei due sconosciuti, in abiti eleganti, che stavano per mettere le mani sull'arco leggendario che doveva essere mio. Avevano già sollevato il coperchio della teca che lo custodiva senza che scattasse alcun allarme. Lo avevano disattivato: conoscevo di cosa erano capaci quelli che manipolavano la Forza bene quasi quanto me. Gli Yedi erano stati annientati nel mio mondo perché rappresentavano un elemento di disarmonia per il potere costituito. Ricordavo bene il ruolo essenziale avuto nel loro sterminio, quale sollievo provai in seguito. La loro esistenza aveva minacciato massicciamente le nostre azioni e ancora adesso, pensai costernata, dovevo preoccuparmi che due di loro non rovinassero la nuova ascesa della mia fazione. Come avessero fatto a raggiungere questa dimensione era un mistero che non potevo risolvere al momento, ma ancora più grave era il modo in cui erano riusciti a eludere il mio controllo e attraversare i portali per giungere nel passato di questo universo.
    Non riconoscevo i loro volti, sembravano solo degli esseri umani non diversi da tanti altri. Lo stupore sui loro visi era palese, anche se quello dell'uomo scomparve più velocemente, sostituito da un'espressione grave e risoluta.
    “E' una donna...?!” Disse la ragazza, ancora ferma con la mano a mezz'aria, a pochi centimetri dall'artefatto.
    “Non lo toccare!” Sibilai furiosa; feci alcuni passi in avanti verso la teca. A loro onore, dovevo ammettere che il mio incedere intimidatorio non li aveva fatti muovere di un centimetro. Ero furiosa, e pronta ad incenerirli al più piccolo accenno di resistenza. Nessuno, da molto tempo, aveva osato opporsi ai miei ordini, e la mia tolleranza era scarsa, se non inesistente. Guardai la ragazza dall'alto in basso: ero molto più alta di lei, ma nonostante quasi dovesse rovesciare la testa indietro per fissarmi, non mostrava la minima traccia di incertezza o timore. Le avrei fatto ingoiare la sua arroganza a breve!
    Venni distratta malauguratamente da una nuova informazione: un'energia molto diversa dalle nostre e appartenente, questa sì, al mondo che ora abitavo, si stava avvicinando dal corridoio alle mie spalle, sbarrato da un portone. Era, anzi erano, entità speciali, potenti, considerevoli. Questi esseri non erano umani, e anche loro... avevano viaggiato nel tempo. La mia furia aumentò ancora di più, mi distrasse, mi colse impreparata. Il piano perfetto che avevo architettato stava crollando miseramente, e la rabbia creava con l'incredulità un mix volubile e destabilizzante.
    Quando i due nuovi personaggi entrarono nella stanza, li attaccai prima a parole e poi con i fatti, seppellendoli sotto un ammasso di macerie. Non riuscii a controllarmi, riconoscendo la Guerriera di Marte... Ares! Proprio lei, quella che più di ogni altra avrei voluto vedere morta!!
    Dovevo riuscire a controllarmi: mentre mi scontravo con i due Eterni, gli Jedi erano riusciti ad impossessarsi della reliquia che era mia! Repressi un urlo di frustrazione. Se avessi voluto, li avrei potuti annientare tutti quanti, ma permaneva tuttavia il problema di dover rimanere ancora nell'ombra, di non far capire ai miei nemici quali fossero le mie reali intenzioni. Inoltre, troppo caos avrebbe attirato qui anche quel maledetto capo dei Devianti, e in quel caso avrei dovuto gestire un altro problema, perché se lui avesse visto me o questi altri, sarebbe stato messo sull'avviso troppo presto. La segretezza, il maggior vantaggio su cui potevo fare affidamento, doveva essere preservata. Il gioco che stavo conducendo era audace e geniale, ma anche estremamente delicato e facile ad essere compromesso. E contrattempi come questi lo stavano mettendo pericolosamente a rischio. Un meccanismo sopraffino che un misero granello di sabbia poteva inceppare.
    “Persephone, non siamo nemici, e dobbiamo impedire che la reliquia degli ISU venga rubata da questi ladri, non combattere tra di noi!”
    Trattenni il nuovo attacco che stavo scagliando verso di lei. Mi morsi la lingua per ricacciare indietro l'ostilità e l'impulso distruttivo che avrei voluto sfogare a mio piacimento, percependo il sapore del sangue nella bocca. Le sue parole, per quanto avessi odiato ogni singola sillaba pronunciata dalla sua voce insopportabile, avevano della logica. Non potevo attaccare una mia compagna, per quanto si trattasse solo di un rapporto che mantenevo per pura facciata. Avrei dovuto allearmi con loro e forse, se avessi mosso bene le mie pedine, sarei riuscita comunque nel mio piano: prendere uno dei manufatti sacri, salvare la mia copertura agli occhi di tutti e tenere all'oscuro dell'accaduto anche Nyx e la sua schiera di servitori.
    Feci una smorfia infastidita, mentre con un cenno fingevo di concordare con il ragionamento di Ares. Aveva tra le braccia il suo compagno, e non pareva in buone condizioni, ma sarebbe sopravvissuto; mi girai di nuovo verso i miei veri nemici con una freddezza nello sguardo che fingevo totalmente. Se avessi lasciato il mio furore libero di sfogarsi, avrei raso al suolo la villa in cui ci trovavamo, lasciando dietro di me una scia di cadaveri che si sarebbero trasformati in altri prigionieri nel mio Regno degli Inferi. Ma non potevo.
    Alzai il bastone sul quale la Garnet Sphere riluceva splendidamente, con il suo contenuto prezioso. Non avevo voglia di perdere ancora tempo in quello scenario che avrebbe dovuto vedermi facilmente vittoriosa. Li avrei colpiti per ucciderli, senza pensare nemmeno per un secondo di riservare loro un trattamento più clemente, anche solo per estorcergli delle informazioni. Avrei preferito rimandarli nella dimensione da cui provenivamo tutti, ma questo, purtroppo, non era in mio potere.
    ”Vi pentirete di aver violato le leggi dell'Universo! Io punirò il vostro affronto una volta per sempre!”
    Non erano stupidi come pensavo. Un secondo prima che la mia potenza li annientasse, li vidi accasciarsi senza vita a terra. Digrignai i denti, mentre mi avvicinavo prontamente ai corpi immoti. L'uomo era finito sulla ragazza e lo spostai di malo modo, cercando nelle mani di lei la reliquia che... era sparita! Sgranai gli occhi esterrefatta, mentre non riuscivo a trattenere un sibilo furioso come quello di un gatto impazzito. L'aura degli Jedi era svanita, i miei nemici erano riusciti a sfuggirmi per un nonnulla e in qualche modo, che neanche io riuscivo a capire, si erano portati via anche il mio prezioso oggetto!
    Sentii la voce di Ares come se provenisse dal fondo di un pozzo profondo.
    “Chi erano quelle persone? Le abbiamo seguite senza mai riuscire ad anticiparli o capire per tempo le loro intenzioni ed ora, sono scomparsi...”
    Mi alzai lentamente, gli occhi spalancati e fissi nel vuoto. Avevo voglia di vomitare, tanto la rabbia si stava agitando nel mio corpo. Tornai verso di loro. Sul viso della donna lo stupore faceva il pari con la delusione. Che comunque, non era nulla confronto alla mia. Mi guardava confusa e totalmente ignara del pericolo che ancora gravava sulla sua testa. Presi un respiro profondo, cercando di togliere ogni traccia di furia omicida dalla mia espressione.
    “Erano dei viaggiatori irregolari, come voi! Ho subito avvertito la violazione commessa e sono accorsa per rimettere a posto lo strappo che avete creato nella trama dell'universo! Come avete fatto a muovervi nel tempo senza la mia autorizzazione? ”
    La Guerriera alzò le spalle contrita. “Non lo sappiamo nemmeno noi. E' successo e basta...”
    Mi morsi un labbro per reprimere una reazione violenta. Avevo troppo su cui riflettere, e molto da recuperare, ora che uno dei manufatti fondamentali era finito chissà dove. La spedizione non era andata secondo le previsioni, e non solo non avevo preso lo Yumi Bow, ma avevo anche scoperto di non essere la sola, insieme con i miei alleati, ad aver trovato il modo per attraversare la barriera che divideva i mondi. E inoltre, dovevo anche risolvere l'enigma dei viaggi nel tempo senza il mio controllo. Ares non mi sarebbe stata di nessun aiuto, tanto meno il Generale. Lui sembrava prossimo allo svenimento e si aggrappava con cocciutaggine alla lucidità che gli stava sfuggendo via a causa delle ferite che gli avevo causato con il mio attacco.
    Mi immobilizzai, trattenendo il fiato: se volevo salvare qualcosa da questo gigantesco ostacolo dovevo farmi forza per rimanere nella parte che dovevo recitare almeno agli occhi dei due Eterni, anche se la loro vista mi irritava oltremodo.
    Sorrisi rigida e severa, costringendo i muscoli del viso a muoversi in un modo che non era abituale.
    “Ad ogni modo, non potete rimanere qui. Ogni secondo che passa, l'anomalia che si è creata comporterà per me un lavoro minuzioso e stancante per ripristinare l'equilibrio.”
    Non feci parola della reliquia, non dovevano sapere che ero intervenuta per quella e non per altro. Però dovevamo andare via da lì, prima che qualche Deviante, o addirittura il loro comandante, si insospettisse e piombasse alle nostre spalle. Battei il bastone con un gesto secco sul pavimento liscio e l'altra mano scattò verso i due.
    “Vi avviso, questo grave evento non dovrà avvenire mai più, o non sarò di nuovo così comprensiva. Il governo del Tempo è un compito sacro e complesso ed è sotto la mia responsabilità!”
    Li rimandai indietro senza altro che quell'ammonimento. Appena le loro figure vennero inghiottite dal passaggio che avevo aperto, sputai fuori aria dai polmoni in modo brusco. Respirai a fondo diverse altre volte, per riflettere sulla situazione. I miei occhi si posavano come di consueto sulla sfera in cima all'asta, quando avevo bisogno di recuperare il controllo. Ancora una volta, le morbide volute violacee che si agitavano dentro mi restituirono la volontà e la determinazione per proseguire nel mio dovere. Riuscirono quasi a regalarmi un pallido sorriso.
    Non tutto era perduto. Anzi, si era appena fatto più interessante. Avrei dovuto agire con più attenzione, ma si trattava solo di piccoli, insignificanti ostacoli che avrei spazzato via quando fosse arrivato il momento opportuno.


    Edited by Illiana - 22/4/2021, 11:03
  8. .
    :Edward:
    La prima esplosione mi colse impreparato. Non avevo notato il momento esatto in cui quel gran bastardo aveva piazzato le bombe per ostacolarci. Avevo solo sentito nell'auricolare l'ordine preciso e perentorio di Altaïr: “Edward insegui Fischer, Jacob ed Evie mettiamo in sicurezza tutte queste persone, ora!”
    Il congegno saltò in aria in un'area a margine della piazza, relativamente lontana da dove mi trovavo io. Per questo non rallentai nemmeno di un briciolo la mia corsa dietro al nostro bersaglio, Fischer. Ironica e odiosa la circostanza che ci obbligava a difenderlo dalla minaccia di O'Brien invece di fargli scontare le sue azioni di qualche mese prima, al Livello 2. La sofferenza che avevamo patito era in molti di noi ancora parecchio vivida, per altri più che mai, e infatti ammiravo il nostro Mentore, che riusciva a mantenere la lucidità e l'imparzialità che richiedeva il Credo senza vacillare. Io personalmente, non ero mai stato così controllato e obiettivo; il rispetto dei nostri precetti in alcuni casi mi riusciva ancora difficile, anche se non impossibile.
    Non so come si sarebbe concluso l'inseguimento di quel maledetto. Lo avrei raggiunto prima di O'Brien? Mi sarei scontrato con lui, permettendo allo scienziato di svignarsela? Non lo seppi mai, perché una seconda esplosione, questa volta più vicina, sconvolse nuovamente la piazza. I miei compagni si stavano occupando di evacuare il maggior numero di civili innocenti, ma le vie di fuga erano poche e anguste, già bloccate da detriti, corpi, persone terrorizzate in fuga.
    Notai tutto questo in una frazione di secondo, prima di rifugiarmi, d'istinto, sotto un banco di frutta per non essere colpito da schegge impazzite e calcinacci. Il fumo per qualche secondo avvolse la zona, oscurando la vista dei miei bersagli. Imprecai impaziente e frustrato. Aguzzai la vista per individuare del movimento dove ipotizzavo potessero trovarsi sia il fuggitivo sia il mio avversario, ma non riuscivo a distinguere nulla. Poi, il mio sguardo si mise a fuoco sopra la mia testa, nella parte inferiore del banco che mi era servito da riparo. Lì, attaccato con un gancio calamitato, si trovava un nuova bomba.
    La osservai, pietrificato. Era una scatola di metallo senza giunture visibili, tutta di un pezzo. La studiai qualche secondo prima di prenderla in mano. Non ero un esperto di esplosivi, ma il mio lavoro di meccanico mi aveva portato a studiare la meccanica e la tecnologia. Avrei potuto fare qualcosa se fossi riuscito ad aprire il meccanismo, a trovare e disinnescare il detonatore in tempo.
    “Altaïr, abbiamo un terzo problema per le mani...” Il sibilo nelle orecchie causato dal boato di poco prima era fastidioso e sovrastava ogni altro suono. Non mi rendevo neanche conto di come avevo parlato, se sussurrando o urlando, ma non ci pensai al momento. Presi in mano con delicatezza la scatolina metallica, sganciandola dall'asse di legno a cui era ancorata, con ogni precauzione. L'unica cosa che notavo era una piccola spia rossa, che lampeggiava pigramente su un lato dell'ordigno.
    Attesi qualche secondo la risposta del Mentore. Mi aveva ordinato di buttarmi all'inseguimento, prima che iniziasse il finimondo che Fischer aveva causato, senza preoccuparsi degli innocenti che avrebbe potuto uccidere. Figlio di una madre indegna.
    Ero indeciso sul da farsi, situazione eccezionale per uno come me, che prima reagiva e poi pensava. Dovevo andare a cercare i miei compagni per lasciargli la patata bollente che avevo in mano e continuare l'inseguimento, sperando di riuscire a rintracciare i due, oppure occuparmi io direttamente di non fare esplodere una terza bomba?
    Fu il destino a decidere per me. La spia rossa cominciò a lampeggiare più velocemente, come se si trovasse prossima alla fine del conto alla rovescia. A quel punto, tentennare ulteriormente mi avrebbe solo assicurato di saltare in aria senza alcun dubbio.
    “Vaffanculo Fischer!” Tossii la mia benedizione a quel bastardo di un Deviante e mi mossi, uscendo fuori da sotto il bancone e dirigendomi senza esitare verso la via di fuga più vicina. Mi basai sulla mappa che avevamo memorizzato tutti quanti prima di partire per la missione. Tenevo la scatola metallica, così insignificante eppure così distruttiva, nella mano destra, facendo attenzione a proteggerla da eventuali urti. Come temevo, la folla impazzita si era ammassata nel tentativo di fuggire dall'inferno nella piazza. Mi feci avanti per qualche metro spintonando gente in preda al terrore, un occhio sempre sulla spia rossa e sulla sua velocità di lampeggiamento. Fortunatamente, quella non era ancora cambiata.
    Ero pazzo. Se fosse esplosa in quel momento, sarei stato proprio il colpevole della strage, e non potevo permetterlo. Alla ricerca di una soluzione, alzai gli occhi intorno, verso i palazzi e il varco tra questi, chiuso da una recinzione. Valutai velocemente l'altezza e gli appigli: la palizzata era molto alta e circondava un piccolo parco cittadino, con diverse uscite in zone... sgranai gli occhi e mi diressi fulmineo verso la zona verde. Scalare la recinzione con una mano sola volle dire prendere una bella rincorsa, spiccare un balzo facendo leva con i piedi nelle sbarre di ferro battuto e... prendersi un bel rischio. Tipo quello di perdere l'appiglio e farsi infilzare dalle estremità appuntite delle aste, o cadere malamente e fai scoppiare l'ordigno nell'urto.
    Mi lanciai dall'altra parte con uno slancio quasi disperato. Mi ero ricordato che il parco possedeva un laghetto nelle vicinanze dell'area giochi. Superai come un lampo le altalene e saltai una siepe bassa. A pochi passi davanti a me, notai il riflesso del sole nell'acqua. Appena in tempo. La spia aveva cominciato a lampeggiare in maniera furiosa. Non avrei fatto in tempo a raggiungere il laghetto, che ora che lo vedevo meglio era più che altro una pozzanghera gigante. Lanciai la bomba con tutta la forza che possedevo. Fece appena in tempo a sparire sotto la superficie che esplose. La sua energia distruttiva venne contenuta in maniera poco significativa dall'acqua. Fortunatamente il parco era deserto, forse chiuso ai passanti. C'ero solo io.
    L'onda d'urto mi investì con violenza. Mi sentii spingere in alto all'altezza del plesso solare e al contempo tirare indietro, come se qualcuno mi strattonasse per il cappuccio. Volai qualche metro senza riuscire a trovare un qualsiasi appiglio, poi sentii un colpo tremendo in mezzo alla schiena, e precipitai a terra rovinosamente.
    Ripresi i sensi qualche minuto dopo, riverso nell'erba, ai piedi dell'albero che aveva arrestato il mio volo. Mi rimisi in piedi a fatica, dolorante al fianco e bagnato fradicio. Il laghetto era molto meno esteso dato che l'acqua era schizzata via con l'esplosione, inondando per diversi metri tutto intorno.
    Feci ritorno alla piazza camminando e alternando la corsa quando il mio corpo me lo permetteva. Il caos che trovai era colossale: decine di corpi riversi o smembrati in mezzo alle rovine del mercato. Persone che urlavano e chiedevano aiuto, le sirene dei soccorsi che si udivano già in lontananza. Mi preoccupai prima di tutto di rintracciare i componenti della squadra, e li individuai nel lato ovest della piazza. Non stavano occupandosi dei feriti, ma erano concentrati su un piccolo pacchetto che Evie teneva in mano. Doveva essere qualcosa di molto importante, per averli distolti da tutto il resto. Soprattutto Altaïr aveva un'espressione preoccupata e questo non era mai sinonimo di buone notizie.
  9. .
    :Horus:
    La convalescenza fu veloce. Era la mente di Horus a dover guarire, non il corpo, e appena seppe come era stata liberata e del sacrificio che aveva scelto sua madre per restituirle la vita, il suo cuore si riempì di gratitudine per Senu e di vigore, preso dal coraggio che quest'ultima aveva dimostrato. Desiderava onorare e ringraziare la donna per quello. Nonostante la sua prigionia fosse più recente di quella di Horus, Senu non si era risparmiata nell'accudirla.
    Dopo il risveglio, infatti, aveva passato molto del suo tempo con lei. Grazie alla sua vicinanza aveva riacquistato poco alla volta l'abitudine alla forma animale. A differenza degli altri Koronosiani, la sua forma principale era quella umana, mentre quella di falco faceva parte della sua seconda natura, che non usava con spontaneità ma solo grazie a un intenso e continuo allenamento. Con i secoli il simulacro animale aveva quasi preso una consistenza normale. Anche in questo caso aveva dovuto cambiare le sue attitudini prima di partecipare alle selezioni per l'Accademia Alata. Era orgogliosa dei risultati ottenuti, anche se avevano comportato molti sotterfugi iniziali, per superare le prove feroci a cui le giovani aspiranti erano sottoposte dai selezionatori.
    Nel momento in cui fu pronta per diventare un Compagno Alato comunque, nulla la distingueva da un altro esemplare nato e cresciuto sul pianeta indigeno, se non l'estrema fierezza e competenza di cui si fregiava, per cui veniva additata ad esempio da tutti.
    Lei e Senu trascorrevano le giornate volando insieme, in luoghi abbastanza protetti dalla vista di marziani che si potevano insospettire. Il rischio era molto basso, anche perché i rapaci eleganti e possenti provenienti dal pianeta satellite, pur se non molto numerosi, non erano rari. Ma Senu non era ufficialmente tale, quindi la sua identità veniva protetta grazie all'aiuto di Ares.
    Purtroppo anche quel periodo sereno terminò, quando la madre le comunicò l'intenzione di tornare al fianco del suo Campione, che era rimasto sulla Terra per ricostruire la Confraternita dopo la quasi distruzione operata dai Devianti.
    L'ultima sera prima della separazione, Senu si sedette in un angolo appartato delle stanze che le erano state dedicate, in un'ala secondaria del palazzo. Fece cenno alla figlia di sedersi accanto a lei.
    “Prima di andarmene, voglio essere sicura che ti lascio in buone condizioni” La preoccupazione era squisitamente materna, anche se sottintendeva timori che esulavano dal loro rapporto.
    Horus sorrise con affetto. “Ho recuperato ogni mia capacità, lo hai visto anche tu. Sono di nuovo in grado di svolgere il mio ruolo al fianco di Thot”
    La madre annuì con soddisfazione. “E vedi in me una madre davvero orgogliosa. Però...” Lasciò la frase in sospeso, guardando la figlia con intenzione. “... sai cosa ho dovuto dire, per convincerli a fidarsi di me. Io ero una sconosciuta, agli occhi di Thot e delle Guerriere...”
    Horus deglutì a vuoto. Lo sapeva, eccome. E sapeva anche la madre le stava chiedendo il perdono per questo. “Non devi giustificarti. Il tuo gesto è stato... nobile!”
    Un sorriso velato illuminò il viso severo di Senu. “Come hai gestito l'accaduto con lui? Ti è stato molto vicino quando non eri ancora guarita, ha rischiato molto per riportarti indietro... sai, mi ero fatta un'idea molto più spiacevole su di lui... credevo che fosse una persona diversa, più insensibile e limitata. Ero preoccupata, perché ti vedevo così triste in passato...”
    Horus aggrottò la fronte, distogliendo il viso dalla vista della madre. “La verità è che... non ne abbiamo ancora parlato...” Non aveva confessato a nessuno della situazione orribile, e non aveva intenzione di farlo, come se sentisse una sorta di lealtà anche nei confronti dell'altro Thot.
    La donna più anziana allungò una mano per posarla sul suo mento, costringendola a girarsi e a guardarla negli occhi. “Horus, non puoi tacere una simile cosa. Conoscevamo entrambe il pericolo di sfidare la legge ma questo non ci ha fermate. Non ha ostacolato me nell'aiutarti né te, nel lottare per perseguire il tuo sogno” Tolse la mano per accarezzarle la guancia. “Affronterai anche questa prova. Niente ti ha mai spaventato a sufficienza da farti desistere. E poi, credo che l'uomo che ho conosciuto in questo frangente abbia il cuore abbastanza nobile e temerario da perdonare questo oltraggio. Lo so...” Alzò una mano per fermare Horus. “... conosco bene la mentalità marziana. La loro inflessibilità, il disprezzo per chi non si conforma. Però lui è diverso. Sei fortunata, figlia. Se fossi stata scelta da un Marziano come lui, avrei accettato subito il nostro legame, e non sarei stata esiliata” Posò le mani in grembo, in un gesto elegante e aggraziato. Horus annuì pensosa. La tranquillità e la forza di sua madre la convinsero al passo successivo.
    (...)
    Horus aveva il cuore in gola ma una forte determinazione nella mente. I giorni non potevano trascorrere in quella nebbia di incertezza in cui si era crogiolata lei per prima. Ora, come improvviso, sentiva il bisogno di mettere il dito in quella ferita che era diventata la sua vita. Solo lei sapeva quanto aveva combattuto perché tutto fosse perfetto, impeccabile, ineccepibile. E il suo unico pensiero era che se voleva tutto indietro, avrebbe dovuto affrontare quella persona. Lo trovò subito, perché a colpo sicuro era andata alla palestra dove si allenavano tutti i Medjay, ma dove soprattutto lui aveva preso a passare i giorni interi. Veniva a dormire nelle sue stanze, le stesse che divideva con lei, solo a notte fonda e le lasciava prima dell'alba, come un fuggitivo. Non era un dubbio che la stesse evitando, si trattava di una constatazione. Entrò nella sala immensa, occupata da numerosi attrezzi ginnici, con passo deciso. Come era prevedibile, lui era lì a faticare e sudare, con un'espressione tesa che Horus preferì non interpretare per non farsi influenzare e distogliere dai suoi stessi pensieri.
    “Dobbiamo parlare!”
    Thot aveva percepito il sopraggiungere di Horus ben prima che facesse la sua comparsa nella palestra, perciò aveva cominciato a sferrare colpi su colpi, esacerbando una violenza assoluta. Avrebbe dovuto cambiare posto in cui passare il tuo tempo a distruggere il proprio corpo con lo scopo di tenere lontani i pensieri. Si bloccò solo quando lei lo apostrofò con un "Dobbiamo parlare" che aveva il sapore di una terribile minaccia...
    La guardò negli occhi e la loro impenetrabilità gli fece muovere qualcosa nel petto. "Di cosa esattamente?" La sua risposta era stata altrettanto lapidaria, benché tentasse di prendere tempo... ancora.
    Lei sgranò gli occhi, confusa. Aveva visto in lui, nonostante i buoni propositi di poco prima, una resistenza passiva alla sua presenza che la rimandò con prepotenza agli anni precedenti. Agli anni in cui tra lei e il suo Campione si era costruito un rapporto arido, teso e quasi conflittuale, mentre in apparenza formavano una coppia affiatata, invidiabile, esemplare. Ora lo stesso muro invisibile la divideva da lui, l'altro uomo. Si morse la guancia, di nascosto. Era forse lei la causa di tutto questo? Il suo rigore inflessibile o, peggio, la macchia della sua origine?
    “Di te. Di lui. Di noi!” La voce salì, incrinandosi. Strinse i denti e riprese fiato. Aveva perso così velocemente il controllo di tutto! “In questi giorni io... ho riflettuto molto. La nostra posizione è insostenibile, a queste condizioni. Non intendo portare avanti ancora la menzogna che si è creata con il tuo arrivo!” Espirò in silenzio l'aria che aveva trattenuto.
    Thot percepì la crepa nella sua voce, il suo strazio nel dover vivere una situazione simile, una situazione in cui non si era né nemici, né complici, ma una sorta di velenosa via di mezzo. D'istinto, i lineamenti si ammorbidirono e l'espressione dell'uomo si fece stanca, non c'era bisogno di nascondere nulla, non adesso. Prese una tovaglia e si asciugò, prima di sedersi su una panca di legno poco distante. Solo allora alzò gli occhi su di lei: "Ti rifaccio la stessa di domanda di diversi giorni fa, che cosa credi sia meglio fare? Dire la verità al mondo?"
    “Forse avevi ragione...” Horus parlò lentamente, pronunciando ogni parola con ponderazione. Stava tentando di trovare una soluzione, più che altro un equilibrio su cui muoversi. Anche se era difficile. Il vento era un suo alleato, quando la sosteneva in volo. Ora, le remore, gli ostacoli e, purtroppo, anche i suoi sentimenti, sembravano strattonarla come folate violente che la spingevano oltre il bordo del precipizio. Preferì non sedersi, come aveva fatto lui. Aveva bisogno di rimanere in piedi, per trarne forza. “Se questo problema diventasse di pubblico dominio, non ne pagheremmo solo noi due le conseguenze. Ne sarebbero investite anche altre persone, e sarebbe iniquo”
    "Quali altre persone ne sarebbero investite?" Voleva sentirle dire ogni cosa ad alta voce, era necessario che arrivassero a un punto, era stato lei a chiederlo no? Si appoggiò con la schiena alla parete dietro di lui e alzò il viso verso Horus, che si ostinava a restare in piedi.
    “Come è possibile prevedere l'effetto di un simile evento? Tu non hai il diritto di essere il Conte di Marte! Tu non sei un Medjay! E soprattutto, tu non hai il diritto e la nobiltà necessaria per possedere il privilegio di avere al tuo fianco un Compagno Alato!” Lo guardò quasi con rabbia. Provava il desiderio irrazionale di colpirlo, per punirlo di tutto il male che stava facendo, anche se, come le aveva ripetuto infinite volte, non era mai stata una scelta a sua disposizione. Era stato sbalzato via dal suo mondo, perdendo ogni cosa. Scacciò la compassione che aveva cominciato a sentire nel cuore. Non la avrebbe aiutata. “Tutti ne sarebbero danneggiati. La famiglia reggente, l'esercito, l'intero sistema potrebbe vacillare. Anche quello che lega il popolo marziano al nostro. Sono in gioco fattori ben più rilevanti di quello che si può pensare...” Thot la guardava in modo che aumentò il disagio che provava. Non era quella la risposta che voleva sentire. Si aspettava sincerità, almeno in questo momento. Un brivido le corse giù per la schiena. Il tono divenne più morbido, diverso da quello tagliente con cui aveva iniziato a rispondergli: “Cosa succederà al nostro Thot se tutto questo verrà fuori? La sua vita verrà distrutta...”
    Il Thot presente iniziò ad annuire, lentamente, abbassando lo sguardo. Eccola la verità, la pura semplice, maledetta, verità. Si passò le mani sul viso, massaggiando le palpebre. "Sarei potuto esserlo sai? Ho sangue reale in corpo, un bastardo certo, ma il sangue di Crio scorre nelle mie vene, tanto quanto in quelle del tuo amato Campione. Sarei potuto essere un Medjay di diritto e chissà, forse avere anche un Compagno Alato... magari non sarei stato Conte, ma nulla di tutto ciò è stato mai sul piatto. Vivere l'abbandono, so cosa significa, costruirsi da solo perché tanto a nessuno importa chi sei, cosa fai, se vivi o muori. Quello che avevo nella mia vita me lo sono guadagnato con sacrificio, duro lavoro, facendomi strada in un mondo che non era mai stato dalla mia parte... e tu, forse, in questo di mondo, sei l'unica che può capire di cosa sto parlando. Non accusarmi di colpe non mie, non vanificare tutti i miei sacrifici, solo perché non esistono nel tuo mondo non significa che non pesino sulle mie spalle... non farlo, questo non è un tuo diritto..."
    Horus era stata investita dal dispiacere e dall'amarezza che sentiva nelle parole dell'altro Thot. Aveva trattenuto il fiato e resistito a quegli assalti, immobile e dritta come un fuso nonostante l'effetto che avvertiva in maniera quasi fisica, sulla pelle, come tagli. Per un attimo, era stata tentata di arrendersi, di abbracciare il suo punto di vista, di inginocchiarsi davanti a lui per condividere il peso della sua sofferenza. Poi, aveva cominciato a percepire qualcosa di bruciante e nitido nel petto. Qualcosa che divampò intenso e subitaneo: furore. Lo lasciò sfogarsi liberamente, anzi fu quasi sollevata nel farlo. “Non voglio toglierti i meriti o i diritti che ti sei conquistato in una vita diversa! Non ne ho nessun diritto, questo è certo!” Strinse i pugni, resistendo alla voglia di urlare l'indignazione provata. “Ma quelli attuali non sono i tuoi! Spettano ad un'altra persona!”
    Thot aveva sperato in un pizzico di empatia visto quanto lei stessa aveva sofferto per raggiungere i suoi obiettivi e realizzare il suo sogno. Tuttavia, la reazione con cui gli rispose fu la reale risposta... "E tu rivuoi quella persona di nuovo al tuo fianco. Vuoi che quella persona rivendichi in ogni modo i suoi diritti, dico bene?" Alzò lo sguardo in quello di lei, conoscendo perfettamente la risposta, ma sfidandola ancora una volta a dirlo con la sua viva voce. Perché lui sapeva, sapeva cosa aveva nel cuore il famigerato Campione.
    Horus scosse la testa lentamente, quasi incredula di dover confermare una verità tanto ovvia. “Io voglio solo che la legittimità dei nostri ruoli venga ripristinata” Si portò le mani al petto, rompendo l'immobilità a cui si era aggrappata fino a quel momento. “Non si tratta di una vendetta contro di te. Non ti biasimo di nulla, e non intendo negare il mio debito nei tuoi confronti. Per questo provo un dolore sincero, ma la realtà rimane la stessa, anche se a te può sembrare ingrata. Il vero Thot ha ogni diritto di tornare in possesso della sua vita. Come puoi negarlo? Come ti senti a commettere un tale atto odioso?”


    Edited by The Bla¢k Wit¢h¸ - 5/3/2021, 20:36
  10. .
    :Aphrodite:
    La Luna era cambiata molto e molto velocemente. Aveva perso quell'aura di perfezione e serenità immutabile che aveva permeato ogni più piccola cosa per millenni. Da quando il Palazzo Reale non era più la residenza degli Imperatori e della Corte, le Sale si erano animate di un'attività incessante, caotica e colorata insieme. La Sala del Trono era stata modificata e ora ospitava gli scranni per i Senatori della Repubblica, una struttura ad emiciclo realizzata in un metallo splendente, che non faceva perdere di luminosità né di eleganza all'intero ambiente. Per fortuna, gli artigiani che lo avevano ideato non avevano badato solo alla praticità e alla celebrazione del potere, ma anche agli aspetti più squisitamente estetici. Vedevo in questo il gusto di Selene, che ora era esclusivamente una Guerriera, come me e le altre nostre compagne, ma in maniera ufficiosa consigliava e supportava il Cancelliere Supremo e il fratello Helios, il rappresentante lunare.
    Ero arrivata sulla Luna appena in tempo per partecipare alla seduta ordinaria del Senato. Si respirava ancora un'aria di novità e di trepidazione in queste prime convocazioni, un'agitazione contenuta proprio per l'Ordine del giorno. Endymion, dal suo seggio centrale, parlò con voce ferma e altisonante. Quel ruolo di potere gli donava, conferendogli un riflesso di autorità e magnificenza ineguagliabili.
    “Il Senato, nel sedicesimo giorno di Kelona del primo anno della Repubblica, si riunisce per rendere pubblica la decisione presa dopo attente valutazioni. In seguito a recenti e concomitanti episodi di natura sconosciuta, si è stabilito di costituire un gruppo di indagine a cui affidare il compito di raccogliere informazioni. Il generale dei MoonKnight e le Sailor di Marte, Venere e Cerere partiranno domani stesso alla volta di Prospero, dove sono stati rilevati i fenomeni più significativi”
    Io, Ares, Cerere e Thot. Forse più propenso all'azione che non all'analisi e alla ricerca, avevo fatto presente, ma mi era stato risposto che Athena e Partenope sarebbero state più utili nei laboratori, pronte a ricevere e analizzare i dati che avremo ottenuto.
    Questo era avvenuto il giorno prima. Attraversavo i corridoi dell'edificio riservato alle Sailor alla ricerca della mia pupilla, Cerere. Avevo controllato nella sua stanza, senza trovarne traccia. Pareva che non fosse neanche stata lì per riposare durante la notte. Mancavano pochi minuti al decollo del nostro velivolo, una Corvetta CR90 che avrebbe viaggiato abbastanza veloce attraverso il sistema solare per lasciarci sul pianeta desertico del Sistema di Sirocace.
    A differenza delle sale istituzionali, la nostra residenza era silenziosa e disabitata. Noi Sailor stavamo qui solo quando avevamo degli incarichi imminenti da adempiere, perché in tutti gli altri momenti, avevamo scelto di vivere con le nostre famiglie. E ora queste erano quasi tutte sulla Terra. A questo pensiero, la tensione e lo struggimento per la lontananza da Altaïr era una reazione consueta, che avrei placato immediatamente al mio ritorno accanto a lui.
    Trovai Cerere nella stanza di addestramento. Sorrisi al pensiero che in pratica era solo lei a utilizzarla e non tanto per mantenersi in forma, noi Sailor quasi non ne avevamo bisogno, quanto per sfogare l'energia repressa che accumulava sempre a dismisura, un po' a causa del suo carattere troppo intransigente nei confronti del mondo e di se stessa.
    Nonostante la foga con cui stava accanendosi sugli attrezzi, non aveva affatto l'aria scarmigliata né rovinata. Un piccolo moto di orgoglio si agitò nel mio petto: era una degna figlia di Venere. Tutto questo però non mi distrasse da un'altra constatazione, molto più drammatica ed evidente. Cerere soffriva. Non traspariva dal suo viso, né dai suoi movimenti, ma dal suo spirito.
    “La navicella partirà tra poco, e non hai ancora indossato la tua armatura, Guerriera...” La rimproverai bonariamente.
    Cerere mi guardò perplessa, strappata bruscamente dalla voragine dei suoi pensieri. “Sarò pronta in pochi secondi, ho tutto sotto controllo. Ma ti ringrazio per la premura, Aphrodite”
    Mi avvicinai a lei. Le accarezzai una guancia, un gesto di consolazione quasi materno. “Non devi ringraziarmi. Ti conosco e... nessun altro può capire la tua situazione come me, lo sai?”
    Mi fermai, ansiosa, in attesa della sua reazione. Avrebbe respinto ogni tentativo di empatia e compassione, oppure lo avrebbe accettato? In ogni caso, mi sentivo in dovere di darle il mio aiuto, regalarle la mia esperienza. Cerere non lasciava trasparire i suoi sentimenti come ogni altro venusiano, ma li viveva e li subiva allo stesso identico modo. Soprattutto da quando aveva manifestato l'imprinting con quell'uomo... con uno dei traditori. Provavo un'immensa pena per lei, ma anche un'altrettanta determinazione a sostenerla nelle sue scelte.
    Cerere annuì, quasi sorprendendomi. “Non ne ho parlato ancora con nessuno. Ora che anche Vesta è lontana, mi sento sola” Dal suo tono, sembrava parlare tra sé e sé. “Lei tornerà e io spero che sarà più serena. Che questo periodo serva per farla guarire, perché possa vivere meglio la sua natura. Ne soffro, mi dispiace non sapere dove sia ma lo accetto se è per il suo bene. Davvero, ne sono convinta”
    Mi guardò, e a quel punto capii che davvero si era lasciata andare a una confessione più che altro privata, mentre ora voleva parlare con me, da me voleva delle risposte o delle rassicurazioni.
    “Quello che non accetto è altro. L'imprinting è un mistero enorme. Io... non mi ero illusa che fosse una favola sdolcinata e perfetta. Non sono una sciocca ingenua e penso di avere gli occhi bene aperti sulla realtà. Però sto vivendo in una contraddizione assurda. Dimmi come è possibile che sia così!”
    “Non ti devi sentire obbligata a fare qualcosa che non desideri. I Templari hanno tradito gli Eterni, e ora sono nemici della Repubblica, ma ciò che riguarda i nostri sentimenti, il sacro legame che unisce due esseri non può sottostare a questioni politiche. Se anche la nostra lealtà ci impone di combatterli, non puoi obbligarti a rinunciare a lui per...”
    “Ma non è questo!” Mi interruppe, e sembrò quasi arrabbiata con me; trattenni il respiro, perché solo a quel punto cominciai a sospettare il vero dilemma che la torturava “Non so come fare! Mi sento spinta e tirata in due direzioni opposte e non riesco a gestirle! Una parte di me vorrebbe stare con lui, con il mio unico amore, mentre l'altra... il solo suo pensiero mi suscita disprezzo e rabbia! Non voglio più vederlo, né stargli vicino. Non ha tradito un semplice patto, ha tradito noi, l'amore che ci univa! E ora... sento di amarlo e di odiarlo contemporaneamente...”
    Lacrime e rabbia. Delusione e disperazione. Amore e odio. Un insieme pericoloso e micidiale nel cuore di un venusiano. Sentii la sua sofferenza come fosse la mia, per la profonda empatia che possedevamo. La strinsi a me con fermezza, vincendo il suo tentativo automatico di rifiutare un aiuto compassionevole.
    “Ti rimarrò vicina in tutto quello che potrò fare. Piccola mia, la prova che hai davanti è grande, immensa. Solo un cuore temerario può superarla. Non so dirti come però. Mi dispiace, ma non lo so. Posso insegnarti a superare il dolore dell'essere separati dal nostro compagno, a quello so che è possibile resistere” Sorvolai su come ero davvero riuscita a superare il periodo in cui il mio sposo era mancato al mio cuore. “Non piegarti alla disperazione ma combatti, mantieni il controllo arrendendoti al tuo cuore” Erano parole che non avevano alcun senso razionale, ma parlavano all'irrazionale pulsione dei nostri sentimenti.
    La baciai sui capelli, poi le passai le mani sulle spalle. Il tempo ormai stringeva. Cercai i suoi occhi lucidi e persi, li vidi poco a poco riacquistare la consueta risolutezza. “Dobbiamo andare, Cerere. Sei una Sailor, e ci aspetta una missione estremamente importante!”
  11. .
    :Oliver:
    I rapporti che giungevano da ogni centro operativo mondiale erano posati sulla scrivania, in una posizione millimetricamente misurata. Avrei voluto strapparli e gettarli nelle fiamme dell'imponente caminetto che scaldava l'ambiente, per l'ira che mi aveva invaso ancora di più dopo averli scorsi con pratica efficienza: non erano assolutamente positivi. Li ricevevo giornalmente, e avevo l'impressione di dover far fronte alle lamentele di bambini sperduti invece che ottenere resoconti quanto più possibile oggettivi dei maggiori esperti nei loro campi di competenza. Esperti che dovevano sputare sangue ed energie su un solo, chiaro obiettivo: recuperare il terreno e il tempo perso con la distruzione della sede centrale dell'Abstergo.
    Non avevo dormito giorni interi per coordinare ogni singola attività, per verificare che tutto procedesse secondo i miei ordini, per scegliere le strutture in cui avrei nuovamente ricollocato i laboratori e gli impianti di ricerca. Quanto accaduto mi aveva insegnato che erano stati commessi numerosi errori, tra cui quello nel ritenere che le cavie avrebbero creato meno problemi se trattate con riguardo. Quelle che eravamo riusciti a catturare ora venivano tenute sotto stretto controllo, senza alcuna libertà, e i test erano cominciati immediatamente, senza dedicare tempo inutile nella selezione delle cavie. Le perdite rappresentavano quasi la totalità dei soggetti, e questo non faceva altro che aumentare la frustrazione e la rabbia con cui seguivo i tentativi. Eravamo ad un passo dal successo con due di loro, ma il rischio che il progetto venisse rivelato troppo presto al mondo, quando ancora i risultati erano incerti e i processi non sicuri e affidabili, aveva portato alla catastrofe finale.
    Le ferite che avevo riportato nel crollo dell'edificio, mentre affrontavo mio fratello, non erano ancora guarite. Nascondevo le fasciature indossando con irreprensibilità la consueta divisa nera. Potevo ricorrere alle cure dei medici e recuperare la forma fisica nel giro di poche ore, ma non volevo. Sopportavo il dolore perché costituisse un memento per la missione che più di ogni altra dovevo realizzare: ritrovare Liam. Il dolore e l'ossessione erano diventate l'unica pulsione che mi muoveva.
    Avevo allontanato da me ogni assistente e collaboratore. Desideravo solo poter ragionare, studiare, decidere in assoluta solitudine; per motivi di sicurezza e di efficacia non mi muovevo che raramente dalla mia abitazione, situata in un immenso parco appena fuori dal cuore caotico di Berlino. Mantenevo i collegamenti e predisponevo le attività tramite riunioni e incontri virtuali.
    Ma il fatto che fossi nella mia casa non voleva dire che riuscissi a vivere in maniera più tangibile gli affetti familiari. Passavo giorni interi nel mio studio, al lavoro. Nyx non varcava quasi mai la soglia di legno scuro, e per quanto mi mancasse e fossi prossimo ad una crisi di astinenza per il bisogno che avevo di lei, la evitavo, consapevole di aver fallito ai suoi occhi. Moira, invece... sentivo che era lei ad essersi allontanata, quasi avesse imboccato una strada diversa da quella che avevamo deciso per nostra figlia. Non mi rammaricavo di averle nascosto la comparsa del segno delle Guerriere, ma in qualche modo era come se lo avesse intuito. Avrei recuperato la distanza tra di noi una volta che l'emergenza fosse passata, non potevo pensare ad una soluzione migliore con le risorse che avevo a disposizione.
    Dovevo ricominciare tutto dall'inizio, senza perdere il controllo su quello che ancora era rimasto in piedi. La tensione mi toglieva l'appetito, ma non la voglia di perseverare a ogni costo.
    L'interfono sulla scrivania si accese. Erano gli uomini di guardia al cancello di entrata: si era presentato un visitatore non registrato che insisteva per incontrarmi. Jordan Mahkent.
    La sorpresa mi bloccò per un secondo, poi autorizzai il passaggio e l'accesso al mio ufficio. Quel nome era presente ripetutamente nei rapporti che ricevevo dalle aree esterne al cuore centrare dell'Impero, quello che una volta veniva chiamata Germania. Mi risultava che fosse molto attivo a sud, nell'area mediterranea. La sua attività aveva cominciato a trovarsi sotto la nostra lente ispettiva solo da qualche mese. Si segnalavano importanti operazioni finanziarie, ingenti somme raccolte da questa figura a titolo di investimenti, soldi provenienti soprattutto da specifiche famiglie influenti che occupavano i massimi ruoli amministrativi del nostro Sistema. Eppure, neanche a severe indagini erano mai risultate altro che attività economiche più che cristalline. Mahkent era sulla lista dei soggetti più sorvegliati dall'Intelligence, senza peraltro aver mai fatto nulla di sospetto. Si limitava a investire e aumentare notevolmente la ricchezza sua e di coloro che lo sovvenzionavano.
    Il bussare discreto mi distolse dalle mie riflessioni. L'uomo che entrò su mio invito aveva un'aria molto distinta, elegante, quasi snob. Il suo sguardo era acuto e calcolatore, e il sorriso di circostanza si fermò subito dove era appena comparso. Mi ero aspettato di trovarmi davanti ad un astuto uomo d'affari; in realtà nel contegno e nell'espressione del viso individuavo una freddezza crudele che comprendevo senza esitazioni. Era come guardarsi in uno specchio.
    Notai il rapido sguardo con cui esaminò la stanza – il mio studio, arredato con mobili in legno scuro e poltrone di pelle rossa, con una libreria posta al piano superiore a cui si accedeva tramite una scala.
    "Signor Mahkent... di solito non concedo udienza a chiunque si presenti, ma ho voluto fare un'eccezione in questo caso. E' qualche tempo che seguo con interesse i suoi passi..."
    Misi subito in chiaro il contesto. Non amavo i sotterfugi, e non era secondario l'aspetto strategico di tenere sulla corda i possibili avversari: che sapesse che era sorvegliato, che le sue mosse non erano segrete o nascoste.
    "Le sue parole mi onorano. Essere qui è per me già un grande traguardo, ma spero che continuerà a concedermi il suo tempo e la sua attenzione, devo parlarle di una questione piuttosto... urgente" Gli feci cenno di accomodarsi sulle poltrone vicino alla vetrata che dava sul giardino – impeccabile, come pretendevo.
    "Sono stato informato che si occupa di finanza e investimenti immobiliari. La sua fortuna è quasi comparsa all'improvviso, e queste vicende catturano immancabilmente la nostra attenzione. Ma chiunque, nell'Impero, deve essere consapevole che certe movimenti richiedono autorizzazioni. E' questo che è venuto a perorare?"
    Sorrisi lievemente senza alcuna empatia, e il mio visitatore appoggiò con cura estrema il cappotto che si era tolto appena entrato. Poi si sedette con la stessa attenzione e misura, accavallando le gambe. Il sorriso enigmatico che gli era spuntato sul volto mi diede una strana sensazione allo stomaco. Un allarme piccolo ma non ignorabile si allertò in un angolo della mia mente.
    "In realtà, sono venuto per farle una proposta. Scoprirà che sono una persona molto audace, ma non un tipo che gioca a carte coperte. Metterò tutto sul tavolo e spetterà a lei la decisione finale..." Incrociò le dita in grembo e attese la mia replica.
    Lo studiai come si studia un insetto sopra a un vetrino, senza ottenere però risultati soddisfacenti. Aveva anche assicurato di agire in maniera limpida, ma il mio istinto mi imponeva la massima cautela. “La ascolto!” Articolai categorico, alzando il mento con fare seccato.
    "Non sono qui in veste di imprenditore o filantropo, sono qui in rappresentanza di un Grande Ordine, che da secoli si è estinto su questo pianeta, ma che sono certo che lei ha già sentito nominare. Parlo dell'Ordine Templare, Mr. Winkler..." Non usò il mio titolo di Führer di proposito, e lo ricevetti come un insulto. Entrambi sapevamo che si trattava di questo. "Sono venuto per avvisarla che i Templari stanno per tornare, qui, sulla Terra e che la nostra intenzione sarà quella di gestire il potere e l'ordine... di fatto, soppiantando l'Impero Deviante”
    All'insulto si erano aggiunte le minacce. Il mio sdegno era al limite di guardia; non si trattava di semplici provocazioni o atteggiamenti irrispettosi. Mano a mano che parlava, la mia espressione si era incupita, quasi a volerlo mettere sull'avviso, ma inutilmente.
    "E lei è quindi in veste di loro rappresentante? Conosco i miei avversari, signor Mahkent, e so che i Templari erano agli ordini degli Imperatori Lunari. Ora che siete rimasti senza padrone, credete di poter attaccare noi, per motivi che mi sfuggono, se vi lascio il beneficio della ragionevolezza” Strinsi a pugno le mani, entrambe poggiate sugli ampi braccioli della poltrona, come un segnale in bella vista che stava superando un confine che non gli avrei permesso di varcare senza conseguenze. "Continui su questa strada e ben presto chiamerà la sua audacia con un altro nome!"
    Mahkent scosse piano la testa. "I Templari al servizio degli Imperatori Lunari sono sempre stati uno specchietto per le allodole. Dietro... ci sono sempre stato io, c'è sempre stato il grande progetto di riportarli allo splendore di un tempo. Abbiamo creato sezioni d'élite e basi militari in tutto il sistema. Siamo pronti a vincere ogni tipo di guerra, Mr. Winkler, ma non sono venuto qui per un casus belli. Presto darò l'ordine e per l'allora spero che avremo raggiunto un accordo, che di certo terrà conto delle sue esigenze”
    Tamburellai le dita della mano destra sulla superficie liscia. I tendini dolevano per la forza con cui le avevo strette fino a poco prima, ma quello stesso dolore mi permetteva di rimanere radicato al momento e di non cadere in reazioni avventate. Per il resto, il mio corpo, perfettamente seduto sulla poltrona, la schiena aderente allo schienale senza essere stravaccato, era immobile. "Lei non è qui per un accordo, signor Mahkent, non mi insulti. Le sue minacce non hanno presa, e mi sottovaluta, se pensa di ridurmi all'inazione con mere parole. I Devianti, io e la dea Nyx non temiamo la vostra potenza militare, per quanto pensiate di essere pericolosi" Feci una piccola pausa per riflettere e per rendere le parole successive più incisive. "Cosa vi porta a credere di poter uscire vivo da qui? E cosa succederà al vostro progetto se verrà privato della guida?"
    "Ho lasciato ordini ben precisi, la prego di non sottovalutarmi a sua volta. Se sono venuto qui, come dicevo prima, è per giocare a carte scoperte. Le dirò dunque i termini dell'accordo che potrebbe vederci se non alleati, quanto meno non nemici. Starà a lei la scelta finale. Voi ci lascerete il comando e la gestione del pianeta Terra..." Alzò la mano per fermare una mia eventuale replica, e la mia ostilità si dispiegò in tutta la sua potenza. "In cambio di un'alleanza militare. Una volta tornati su Saturno - il vostro vero pianeta di origine - sarete lì sovrani e potrete appoggiarvi alle nostre numerose basi militari sparse nelle vicinanze. Secondo, vi daremo un seggio di rappresentanza nel nuovo sistema repubblicano che a breve vedrà la sua nascita: avrete una voce potente a livelli che fino a ora non avete mai neppure immaginato. Terzo, potrete continuare ad abitare la Terra, purché riconosciate la nostra egemonia e rispettiate le nostre regole, ma fino a quando lo vorrete qui avrete luoghi di riferimento e persone di spicco nei ranghi di potere”
    Quasi risi con scherno a quella proposta insensata e umiliante. "Non si aspetterà seriamente che ceda il passo a lei, accontentandomi delle sue promesse?" Portai avanti bruscamente le spalle, per aumentare e sottolineare il tono di minaccia con cui sottintendevo cose molto peggiori. "La Terra è nostra, così come Saturno. Tra noi e gli Eterni vigeva un tacito patto di non belligeranza, e lo sa perché? Perché per quanto loro apparentemente fossero più forti e avessero eserciti, il vostro e quelli di altri pianeti, più consistenti e poderosi, noi possediamo risorse più temibili" Sorrisi in maniera sinistra, quasi ad anticipare la battaglia. "Volete davvero sfidarci? Questo pianeta non è per voi, e pregate che il mio obiettivo immediato non diventi quello di cancellare anche la traccia più insignificante di quello che vi ho permesso di creare finora!"
  12. .
    :Horus:
    L'oscurità era fitta e densa ma calda e quasi rassicurante. Fluttuavo senza avvertire dolore o paura, e nulla mi turbava. Ero in un luogo perduto nello spazio, o senza collocazione alcuna, ma questo pensiero non mi spaventava, niente riusciva a incrinare la pace assoluta e senza confini che era il mio rifugio. Non sognavo, non desideravo nulla, perchè non avevo bisogni né domande. Non ricordavo la mia vita passata, e non ero neanche sicura di averne mai avuta una. Ero senza nome, senza volto, senza legami. Sapevo solo che tutto questo era una benedizione.
    Improvvisamente però, un piccolo puntino luminoso brillò sopra il mio petto. Lo osservai senza curiosità nè aspettativa, ma quando poi esplose come un piccolo sole feroce, mi trascinò via dal mio paradiso, in un luogo ben diverso. Il dolore e la paura fecero la loro comparsa, e per quanto anche lì non ricevessi alcuna sensazione fisica, un panico ben noto mi travolse. Ero di nuovo prigioniera, persa nel vuoto oscuro, senza tempo né perdono. La mia voce si perdeva se urlavo, e lo facevo fino a sentir bruciare la gola. Le mie mani stringevano l'aria, la artigliavano inutilmente. Il senso di perdita mi rendeva concitata e smaniante, e mi agitavo anche se sapevo quanto fosse inutile disperarmi. Avevo già passato secoli, o almeno era questa la mia percezione, in uno stato simile di tortura, prima di riposare la mia coscienza nell'oblio dal quale ero appena stata strappata.
    Del tutto inaspettate, udii delle voci in lontananza. Voci di donne, e una voce maschile. Parlavano tra di loro e sembravano seriamente preoccupate. Mi calmai per poter decifrare le loro parole e rimasi in attesa, senza osare alcuna speranza. Forse erano più vicine di quanto pensassi. Forse avrei trovato un modo per sfuggire all'incubo in cui ero imprigionata, se fossi riuscita a farmi aiutare da loro. L'immobilità mi permise di notare alcune cose che con l'agitazione mi erano sfuggite: cominciai ad avvertire il mio corpo, la morbidezza di una coperta sulle gambe, il calore di un tocco sul viso. Con fatica, aprii gli occhi e una luce soffusa, diversa da quella che aveva dato inizio alla sofferenza, mi rassicurò.
    Le voci erano cessate. Il mio viso era bagnato di lacrime che avevo pianto senza accorgermene, convinta come ero di essere stata privata del corpo e dei suoi sensi. Incredibilmente, ero libera dal mio castigo, e non sapevo come fosse successo. Strofinai gli occhi per liberarli dal velo delle lacrime e intravvidi una mano che mi porgeva un bicchiere. L'acqua placò il bruciore e l'arsura nella mia gola.
    C'erano fiori freschi accanto al letto, percepii il profumo delicato. Combattei contro le lacrime di gioia e commozione che mi assalirono al pensiero che tornavo a vivere in quel momento, dopo chissà quanto tempo trascorso come reclusa. La mia manò tremò perdendo la presa sul bicchiere e qualcuno lo afferrò al volo. Alzai lo sguardo e riconobbi immediatamente il viso che più mi era familiare. Era lui che mi aveva assistito e curata mentre mi smarrivo nel vuoto, non avevo dubbi. Il suo viso così bello era segnato da rughe di stanchezza e apprensione, ma un particolare che non riuscii a individuare mi mise in allarme. Era una nota stonata in una canzone conosciuta a memoria. Qualcosa tornò alla memoria, con fatica. Alcuni frammenti di un discorso avuto prima della prigionia. Una rivelazione che mi aveva fatta precipitare in una confusione quasi peggiore di quella che avevo affrontato subito dopo. Dietro a quelle iridi scure, non c'era il mio Campione.
    "Dov'è lui?" Non avevo altro pensiero e preoccupazione che per Thot, per la sua sorte.
    Il mio interlocutore si morse il labbro, indeciso forse nel rispondermi, ma alla fine lo fece e sembrò costargli tutto il fiato che aveva in corpo. Si sedette su una sedia lì vicino. "E' qui. Da qualche parte"
    Fu una notizia inattesa e per questo l'emozione quasi mi travolse. Mi misi in ginocchio sul letto, incurante della debolezza che faceva tremare i muscoli e sorrisi timidamente. Le parole uscirono senza controllo, con la stessa gioia con cui da bambina raccontavo le mie prime esperienze di volo.
    "Ho sentito la sua presenza quando ero in preda al terrore, dentro alla prigione. Mi sono aggrappata a quella, a lui. E' stato un miracolo che mi ha dato la forza di resistere. Dopo, il terrore non è stato più così orribile... Ho sentito i suoi sentimenti, la sua preoccupazione. Io..."
    Il cuore mi batteva fortissimo, e pareva volersi liberare dalla gabbia del torace.
    "Vuoi parlare con lui?" La sua voce era strozzata, cupa. Lo notai appena, tanto il rombo del sangue nelle orecchie mi distraeva e mi esaltava. Premetti forte la mano sul petto, per controllare il tumulto nell'anima. Qualcosa cominciò a premere ai margini della mia coscienza, come un vetro appannato che poco alla volta torna a riflettere e mostrare la realtà che avevo dimenticato. Io ero libera, ma non il mio Thot, e ora avrei dovuto preoccuparmi di lui.
    "Cosa significa... sei tu che puoi comandare il vostro alternarsi? Perché è successo questo?"
    Si mosse nervoso sulla sedia, restio nuovamente a confidarsi ma alla fine, come prima, si fece forza per rispondere alle mie domande, alla mia urgenza di sapere. "Più o meno. Posso lasciare che prenda il sopravvento, decidendo se restare a guardare o... no" Deglutì a forza e represse un brivido stringendo le braccia intorno al corpo. Era strano che avesse freddo, dato che nella stanza era acceso il fuoco nel caminetto. Cercai di non distrarmi, per non perdermi una sola parola. Quante domande mi balenavano nella mente...
    "Non so perché è successo. So solo che un giorno mi sono risvegliato qui, in una vita che non era la mia... ma riconoscendo ogni singolo volto, anche se non erano gli stessi che io avevo conosciuto nel mio mondo..."
    "Nel tuo mondo..." Tentennai e mi fermai, in cerca delle parole giuste "Chi eri? Cosa era diverso? Hai detto che i volti ti erano noti, quindi eri comunque un Campione? E io... c'ero?"
    A fatica, lui si alzò e mi mise le mani sulle spalle. Sotto le sue dita, sentii le mie ossa sporgere sotto la pelle sottile. Chissà cosa avrei visto, quale sconosciuta mi sarei trovata davanti, se mi fossi guardata allo specchio. Ignorai l'angoscia che proveniva da un egoismo che non mi apparteneva. Thot mi spinse con gentilezza ad appoggiarmi ai cuscini e mi tirò sopra le gambe la coperta. Pareva un tradimento chiamarlo con il nome del mio Campione, ma non avrei saputo quale altro nome usare.
    "Se vuoi così tante risposte, mettiti comoda e al caldo..." Poi si sedette, di nuovo con le braccia strette al corpo per scacciare il freddo o qualcosa che al momento non capivo e non mi interessava accertare.
    "Ero figlio illegittimo di Crio, sono stato abbandonato e sono cresciuto da solo, facendo di tutto per sopravvivere. Sono diventato un mercenario, abile nel combattimento e nell'uso delle armi... non ho avuto molta scelta. Un giorno, però, ho salvato la vita alla Princ... alla Lady Pandia del mio Mondo, sacrificando la mia. Sono morto e mi sarebbe andata bene anche così, ma l'imperatrice Selene ha avuto pietà di me, mi ha fatto rinascere grazie al potere della Luna e sono diventato ben Generale dei MoonKnights... come vedi... percorso diverso ma stessa destinazione. Tuttavia, non ero Conte, sono venuto a sapere delle mie origini, perciò guardavo da lontano Ares e mi struggevo per l'affetto di Iuventas, che ho avuto l'onore di addestrare anche nel mio mondo, insieme a tutte le giovani Guerriere. E tu... cioè... io non sono mai stato un Campione per ovvie ragioni di status. Tu c'eri, eccome se c'eri, ed eri compagno alato di mia sorella... Iuventas..."
    Ero colpita dal suo racconto. Si era sforzato di riassumermi in poche frasi quella che per lui era una vita intera. Il suo atteggiamento mi ispirava compassione nei suoi confronti e una forte ammirazione per l'incrollabile forza che aveva dimostrato. La stessa con cui io avevo perseguito i miei sogni e superato ogni ostacolo, anche a costo di dover nascondere e temere per i segreti che avevo custodito.
    "Sei una persona d'onore, quindi... il tuo comportamento è stato retto come la tua anima, ma... questo non toglie che... hai usurpato un ruolo che non ti appartiene, ora. Non hai nessun diritto di essere un Campione perché non è a te che ho legato il mio destino" Presi fiato per allentare la tensione che stava cominciando a salire, insieme al dolore. Il grumo oscuro della memoria stava materializzandosi poco a poco. "Se penso a quanto tempo hai finto di essere chi non eri... ora capisco il perché di alcuni episodi, che al momento mi parvero incomprensibili. E ora ricordo anche che me lo avevi confessato prima di venir presa da Etere..." I pezzi che si erano nascosti fino a poco prima andarono a posto nella mia mente annichilita "E con i ricordi, torna anche il tormento di quello che siamo..." Alzai lo sguardo spaventato su di lui "Niente è cambiato per noi, le imposizioni e le regole ci vincolano sempre e... quel che è peggio, è che i nostri sentimenti sono diventati chiari, così come il peccato che stiamo commettendo!"
    Thot scosse la testa lentamente, il pallore del viso sempre più accentuato. "Non l'ho fatto di proposito, non ho scelto io di usurpare il ruolo del tuo Campione. E' successo e basta. Di contro, se ancora non capivo io cosa fosse accaduto, come avrei potuto dirtelo... o dirlo a tutti gli altri... il minuto dopo?" Trasse un respiro profondo a spezzare quelli corti e secchi con cui aveva risposto. "Adesso che sai chi sono, adesso che non devi temere un giudizio di nessun tipo da parte mia perché... perché non sono nessuno per te... puoi dirlo ad alta voce senza alcuna conseguenza: tu ami il tuo Campione? Lo hai sempre amato?"
    Avrei desiderato lasciarmi alle spalle almeno questo disonore, ma capii che non era possibile. Sgomenta e sconcertata, portai le mani nei capelli e, senza accorgermene, piantai le unghie nella pelle sottostante. La mia voce si alzò e rischiò di spezzarsi per la vergogna e il disappunto. "Continui ad insistere per farmi ammettere i sentimenti che provo, quando io per prima li sto respingendo! Sono proibiti! E anche lui..." Feci una pausa infinitesimale, una richiesta silenziosa di conferma. "... ha dovuto soffocarli, per risparmiarmi ogni punizione... perché vuoi violare il nostro rapporto? Cosa rappresenta per te?"
    "Perché io credo che quando si ama davvero, non esistono regole, tradizioni, limiti. Si dovrebbe lottare per quel sentimento, a maggior ragione se si ha il potere di andarvi contro. Pensi davvero che un Conte di Marte non abbia potuto evitarti una punizione? Oppure, rimescolare le carte di tradizioni tribali per valere il suo amore? Prova a pensarci..."
    Scossi la testa con rabbia. Non volevo sentire quei discorsi, erano pensieri troppo lontani da quello che ritenevo giusto e ammissibile.
    "Non lo avrebbe fatto, lo so e anche per questo lo..." Mi morsi con forza la lingua, spaventata da quello che stavo per confessare. Gli avrei dato finalmente la soddisfazione di sentire ciò che voleva sapere, ma non osavo pensare che anche il mio Campione era in ascolto, e non avrebbe reagito favorevolmente.
    "Ha evitato di proposito di creare delle situazioni che ci mettessero in pericolo, ben sapendo che io per prima non lo avrei permesso. Il nostro rapporto era distante perché era l'unico modo per salvarci, ora lo comprendo. Non lo avrei perdonato se avesse infranto le tradizioni per puro egoismo" Lo fulminai con lo sguardo, detestandolo per l'insulto che stava arrecando a entrambi. "Non osare mai più insinuare un simile sospetto. Con che diritto lo fai?"
    Lui scosse a sua volta la testa, ma lentamente, come chi constatava una situazione che non approvava.
    "Nessun diritto, se non quello che potrei avere per il semplice fatto che tengo a te... penso che tu sia speciale, che meriti di essere amata senza sotterfugi... per me amare non equivale a essere egoisti, ma vedo che la prima ad essere costretta dalle catene della tradizione sei proprio tu... o almeno è ciò che ti racconti per giustificare tante cose..."
    "La tradizione non è da disprezzare solo perché non siamo felici. La cultura e la società si basano sulle regole. IO ho consacrato la mia vita e le mie azioni a quello che per te è troppo difficile da accettare" Lo rimproverai come se parlassi con uno sprovveduto. Erano mesi che viveva in un universo regolato da principi e imposizioni diverse, e ancora si rifiutava di adeguarsi, sottolineando solo i lati negativi.
    L'amore per lui era importante, ma agiva con onore, perciò anche la dignità rappresentava un valore importante nel suo animo. Era per questo che non capivo perché continuasse a tornare sulla questione, ignorando il mio disagio e anzi, aspettandosi che mi confidassi con lui.
    Però da quello che aveva raccontato, indovinai chi vedeva in me, e all'improvviso una stanchezza enorme mi piombò addosso. Quella spossatezza che ti raggiunge fin nelle ossa quando ti viene a mancare un pezzo importante per andare avanti nelle difficoltà. Avrei resistito, comunque. Avevo altri sostegni a cui affidarmi, pur non comprendendo bene cosa mi fosse stato sottratto.
    Feci una smorfia amara. "Quello che pensi di provare per me non è che un ricordo di quello che provavi per un'altra persona. Per quella Horus che conoscevi nel tuo universo" Era tutto così logico che mi stupivo di non esserci arrivata prima. Cosa avevo creduto? Che si fosse interessato a me, alla copia severa e distaccata di una persona più solare e piacente che aveva perduto in un modo insopportabile? Una donna che rappresentava per lui molto di più, un desiderio neanche nato e già svanito. Il rimpianto che si trasformava e si faceva illusione nel cuore generoso e limpido di un essere umano. Una storia tragica, che mi rendeva triste per lui. Non per me, no.
  13. .
    :Oliver:
    Il livello principale della struttura era ridotto a un inferno di fumo e fiamme. Quando la Guerriera si era arresa all'incubo che le avevo instillato nella mente e i suoi compagni erano diventati solo delle ombre terrificanti che la minacciavano e da cui difendersi, avevo stabilito che la mia presenza lì non era più necessaria.
    Le guardie che avevo scelto per questa missione, addestrate e implacabili, avevano l'ordine di sterminare quanti più prigionieri riuscissero, prima di ritirarsi. O di soccombere nel compimento del loro dovere; quello non lo avevo precisato, ma non era una disposizione necessaria, dato la granitica obbedienza che pretendevo dai miei fidi.
    Ero molto contrariato e deluso. Quella parte del mio progetto stava finendo in un pugno di macerie e in una mole considerevole di dati raccolti, anche se incompleti e incoerenti. Ricominciare dal punto in cui ci eravamo interrotti sarebbe stato possibile, anche se oneroso.
    Volevo assistere agli ultimi istanti di vita delle mie fatiche, per questo motivo usai il Potere dell'Ombra per arrivare velocemente nella sala sorveglianza, che non era ancora stata invasa dal fumo e dall'aria rovente. Gli schermi funzionavano solo in parte, le telecamere erano state danneggiate dal fuoco e dai crolli che cominciavano a verificarsi. I pochi che ancora trasmettevano riportavano immagini di desolazione e di corpi immobili, con la divisa chiara o quella blu. Poco si muoveva, e quel poco era costituito dal gruppo dei prigionieri che avevo affrontato poco prima. Erano quindi riusciti a porre fine al combattimento e a dirigersi verso i varchi che avevano aperto quelle maledette Eterne. Ispirai l'aria con forza attraverso le labbra socchiuse e la mandibola serrata. Era un errore strategico, farli uscire vivi? Forse si erano impossessati di informazioni che avrebbero usato per combattere la nostra supremazia! Dovevo tornare e finire il lavoro con loro, anche se sarebbe stato più difficoltoso avere ragione delle loro difese. Ora non sarebbe stato più così agevole sorprenderli, ma non li temevo. La mia furia sarebbe stata una preziosa alleata, la scaltrezza e la risolutezza la lama che avrebbe trafitto e ucciso tutti loro.
    Mentre organizzavo mentalmente l'attacco, l'occhio venne attirato da un movimento brusco in un altro monitor, in una diversa area del piano. Era un prigioniero, con la divisa sporca di polvere, solitario. Si era diviso dal gruppo superstite? Non sembrava in buone condizioni di salute, e non erano solo gli strappi sui vestiti che lo denunciavano. Si appoggiava al muro, respirava con disagio. Un rumore, probabilmente, lo allarmò, facendogli voltare la testa verso l'obiettivo. Avevo captato quel movimento nel monitor, e mi ero ritrovato a fissare i tratti di un viso che mai avrei pensato di poter rivedere.
    Dimenticai, lasciandoli al loro destino, i fuggitivi. Questo particolare prigioniero aveva la priorità su tutto. Feci diversi spostamenti prima di trovare l'esatta posizione inquadrata. Le sale e gli ambienti comuni erano invivibili, con temperature insopportabili e il rombo rabbioso del fuoco che copriva ogni altro suono. Alla fine, raggiunsi il luogo. Il prigioniero era di nuovo girato verso la parete, come per estraniarsi dalla realtà. Le spalle erano incurvate verso la mandibola, le braccia appoggiate al muro su cui numerose crepe facevano supporre la prossimità del crollo.
    Rimasi immobile per qualche secondo, cercando di decifrare l'identità attraverso indizi come la postura, il modo di respirare, la curva della schiena. L'incredulità rischiava di sbaragliare il mio notevole autocontrollo, che non mi avrebbe più protetto dall'illusione che stava crescendo in me. Decisi che non potevo permettere alla speranza di manipolare le mie azioni. La speranza era nociva.
    Squadrai le spalle in un gesto automatico, sollevai il mento ed esclamai, perentorio: "Prigioniero, voltati! E' un ordine!"
    L'individuo non si mosse, ma notai chiaramente aumentare la tensione dei muscoli. Lentamente, molto lentamente, staccò una mano dal muro e si voltò verso di me, raddrizzando la schiena. Difficile descrivere quello che passò sul suo viso, deformato dalla sofferenza. Non era ferito: i suoi vestiti, pur laceri, non erano sporchi di sangue.
    "Il fürher in persona. Quale onore!" Il tono sarcastico che aveva usato era inciso a fuoco nella mia memoria; una parte di questa, per la precisione. In questo universo, molto spesso le discussioni con lui erano sfociate in scontri brutali, accuse e minacce. Quel tono era la sua arma preferita per attaccare e ferire. Ma il Liam che avevo perso, che tanto aveva significato per me, che era un vuoto nella mia anima che non avrei mai richiuso, non faceva parte di quei ricordi. Era nei miei. In quelli della persona che aveva lottato e salvato la propria donna, che aveva rivoluzionato l'intero universo per poterla salvare, ma non era riuscito a fare lo stesso per l'amato fratello.
    Tornai a concentrare la mia attenzione sull'uomo davanti a me. Dovevo capire cosa era successo a mia insaputa per motivare qui la sua presenza.
    "Da quando sei qui dentro? E perché non sono stato avvisato di questo? Credevo fossi morto molti anni fa..." La voce glaciale non tradiva la minima incertezza o emozione.
    "Mi dispiace rovinarti l'umore con questa sgradita sorpresa. Sono vivo e sono stato sotto il tuo naso per più di un anno, evidentemente sono stato bravo a mimetizzarmi..." Ancora il suo sarcasmo, ma con una punta di acido compiacimento. Analizzai le sue parole, il messaggio sottinteso. Si gloriava di avermi beffato, di averlo fatto per un tempo così lungo. Aveva subito tutti i disagi dei trattamenti e delle imposizioni a cui i prigionieri dovevano sottostare senza fiatare, cercando solo di nascondersi ai miei occhi. Custodiva una motivazione che non conoscevo, anche se la sua rabbia parlava e raccontava più di quanto avrebbe potuto fare lui con le parole ma... non mi importava.
    Non gli toglievo gli occhi di dosso, ancora incredulo di averlo ritrovato.
    Respirai a fondo. Il silenzio, anzi meglio, lo studio reciproco durava già da qualche minuto. Il ruggito delle fiamme, sempre più forte, mi obbligò a urlare: “Perché?” Una parola secca, che conteneva mille domande.
    Liam rise rabbioso: "Mi chiedi davvero perché? Mi avete catturato come un topo di fogna, ma non potevo darti la soddisfazione di usarmi come cavia per il tuo schifoso laboratorio..."
    A quelle frasi reagii d'istinto, mostrando per la prima volta le mie vere emozioni. Non stavo ribellandomi alle sue accuse: non tolleravo le menzogne, e volevo solo che capisse quanto la verità era diversa da quella che vedeva lui. "NON ti avrei mai usato come cavia, mai! Non saresti rimasto più di un'ora confinato qui, come uno dei tanti, se avessi saputo di te! Sei mio fratello!" Poi, un dubbio mi attraversò la mente. Aggrottai le sopracciglia minaccioso. "Non mi dire che tutto questo è opera tua!"
    Feci un passo verso di lui, quasi non me ne accorsi, ma registrai, con un dolore quasi fisico, quanto lui ne fece uno corrispondente all'indietro, addossandosi al muro pericolante.
    "Cosa intendi con tutto questo? Il casino al livello 2? La sparizione della Staffa? Il collasso della prigione? Mmm, per un buon 50% direi di sì... ma noto con piacere che hai altri nemici fuori di qui!" Quasi mancò che sorridesse, per la gioia maligna che provava nel rivendicare tali azioni.
    "Hai rubato tu la Staffa? Come sei riuscito ad infiltrarti nel livello di massima sicurezza dell'intera struttura?"
    "Non proprio. Mi sono servito di uno degli Assassini che avete confinato in quel livello maledetto... ma non credo che i dettagli abbiamo più importanza a questo punto. La realtà dei fatti è che hai ricevuto un colpo basso e non riesco a non rallegrarmi di questo..."
    Strinsi i pugni, affidandomi ancora una volta alla mia forza di volontà. La sfoggio del suo disprezzo, unito alla frustrazione per i danni che aveva causato, mi portò ad un soffio dal colpirlo. Lo avrei annientato per fargli sparire il ghigno soddisfatto ma una voce, quella della ragione, mi redarguì e mi fermò in tempo. Forse era lui stesso che tentava di provocarmi, per scatenare la mia furia omicida. La persona che conosceva lui si sarebbe già lasciata manipolare, ma non io, che ero stato temprato da una forgia ben più potente, nel mio passato. Eppure, non riuscii a controllarmi del tutto. Nel mio tono si distingueva nettamente l'ira che si era scatenata.
    "Sei pazzo! Accecato dalla tua follia! Quegli elementi erano gli unici ad aver superato dei test selettivi e complessi, ed ora dovremo ricominciare quasi da capo, ricreare i laboratori, trovare nuove cavie, addestrare nuovi scienziati! Pero non hai che scalfito la nostra potenza, e i risultati del tuo dannarti non saranno mai niente di più!" Ero incredulo per le conclusioni a cui ero giunto, e non nascosi, a quel punto, tutto il mio disprezzo. "E tutto questo... solo per vendicarti di me, perché ho ucciso quella... sgualdrina che non era minimamente degna della nostra considerazione..."
    Avevo colpito nella parte più suscettibile di Liam, lo sapevo perché lo conoscevo. La sua espressione si trasformò all'istante, diventando una maschera di rabbia repressa a fatica. "Sono felice di vederti finalmente alterato. Significa che al di là di ciò che dici, sono andato ben oltre una leggera tacca nella vostra presunta onnipotenza. Sarà molto difficile trovare altri innocenti utili a replicare i risultati ottenuti. I tuoi tirapiedi dovranno ricominciare daccapo sì e sarò lieto di continuare a mettervi il bastone tra le ruote... proprio perché voglio vederti in ginocchio. Lei era la sola cosa che mi rimaneva dopo aver perso... te... la mia famiglia... e tu me l'hai portata via. Non te lo perdonerò mai!"
    Rimasi immobile a studiarlo. Rinchiusi in un angolo lontano la mia rabbia. Lo avrei perso se avessi seguito il fuoco delle mie emozioni. Freddamente ragionai su quale era la cosa più importante per me, in quel momento.
    "Quello che è successo in passato..." Stranamente, quasi incespicai sull'ultima parola, quasi mi rifiutassi di riconoscere ciò che implicava. "...non ci riguarda più. Siamo fratelli, e nessuno doveva mettersi in mezzo. Ma sono disposto a dimenticare. L'ho già fatto. Devi tornare con me, e stare al mio fianco..." Avevo deciso di scoprire le carte. Non era una richiesta, solo una constatazione. Liam era mio fratello, ne avevo sofferto troppo l'assenza e tutto questo dolore doveva finire.
    "Ho trascorso decine di anni nell'ombra, nella solitudine e nel dolore di una perdita troppo grande, in un giorno solo hai distrutto tutto ciò che avevo... e tu... adesso... mi dici che 'non ci riguarda più'? Che TU sei disposto a dimenticare? E se IO non ne avessi alcuna intenzione?"
    Inclinai la testa, scrutandolo dal basso in alto. La sua rabbia stava crescendo, ma ammansirlo con bugie o scuse non era una soluzione opportuna. Non le meritava. Si meritava la verità, piuttosto.
    "E' stata una tua scelta quella di nasconderti e di farmi credere che fossi morto. E' stata una tua scelta rinnegare la tua natura, il grande vantaggio che avevi ricevuto per diritto di nascita. E' stata una tua scelta di tradirmi, e di pensare che avevi diritto a qualcosa che era mio. Io ho solo reagito di conseguenza. Ma questo ti dico: non voglio che il passato si metta tra noi, ora. Verrai con me e prenderai il posto che ti spetta, che io esigo per te!"
    Mi avvicinai ancora a lui e lo vidi accasciarsi al suolo. Negli occhi, lo stesso dolore e la medesima rabbia che c'era quando gli avevo detto addio, nella cella del carcere nazista, poco prima dell'esecuzione. Potevano passare anni, decenni, potevo distruggere e mutare universi, ma quelle immagini non mi avrebbero abbandonato mai. Avevo fatto altri passi avanti e, mi resi conto con stupore, la mia intenzione era quella di aiutarlo a rialzarsi, di soccorrerlo e dargli l'aiuto che non avevo potuto fornirgli in quell'ultimo, tremendo incontro, ma lui si tirò su di scatto, incurvando il corpo per mettersi sulla difensiva. Il suo odio, così esplicitamente esibito, non mi toccava. Ero certo che, quando avessi avuto modo di spiegargli, lui avrebbe cambiato le sue idee, i suoi sentimenti.
    "Non posso... non posso accettare di essere un mostro. Non posso diventare come te... Non voglio stare al tuo fianco. Sei tutto ciò che non voglio essere”
    Sorrisi con indulgenza, ammorbidendo allo stesso modo il mio tono. Non riusciva a vedere con chiarezza, a ragionare con lucidità, era solo questo il problema.
    "Hai sempre pensato di essere un'idealista, Liam, ma non lo sei. Sei pragmatico, risoluto, spietato come me. O meglio, IO sono come te. Tu eri il mio mentore... E' per questo che non voglio rinunciare nuovamente al nostro rapporto!"
    Liam scosse la testa in maniera frenetica. Era disorientato. Cosa lo stava confondendo così tanto? Non era un semplice rifiuto delle mie argomentazioni, era una lotta che avveniva anche in altri luoghi, in campi di battaglia che non mi riguardavano. Stava combattendo contro se stesso. E contro la sua natura, era chiaro. I geni gli si stavano rivoltando contro, e il suo tentativo testardo di tenerli a bada lo avrebbe condotto infine alla follia. Ma io potevo curarlo, con un solo tocco. Ero uno dei Devianti più potenti, sarebbe bastato la mia intenzione di risvegliarlo, toccandolo, per risolvere i suoi problemi.
    "Sei solo un folle che ha rinnegato tutto ciò in cui credeva, ti sei macchiato del sangue dei tuoi stessi fratelli di credo... solo per il potere, per averne di più, per servire quell'essere che mira solo a condizionarci tutti... Davvero vorresti al tuo fianco un fratello che ti odia così tanto?"
    "Combatti contro qualcosa che ti appartiene. Ti racconti solo delle bugie a cui ti aggrappi per non ammettere la verità. Al mio fianco, non saresti controllato da niente e nessuno. Potresti essere come desideri, fare ciò che vuoi. Noi non siamo sottoposti alle regole, se non quelle che stabiliamo noi. Da chi fuggi?" Allungai la mano, deciso a mettere in atto il risveglio. "Come puoi credere che le barriere che erigi rimarranno in piedi, quando solo un mio tocco ti aprirebbe finalmente gli occhi?"
  14. .
    :Persephone:
    Il grande portale sul Vuoto era stato aperto.
    Etere aveva rispettato in pieno le mie aspettative. Era ironico che il Dio amante delle scommesse e dell'azzardo fosse così prevedibile. Lo avevo osservato in segreto molto attentamente, avevo sondato e sfruttato i ricordi della Persephone di questa dimensione e tutto combaciava in tal senso. Etere, il paladino degli Eterni, ormai troppo coinvolto e accecato dal suo odio per i suoi stessi prediletti, sarebbe ricorso a qualsiasi risorsa pur di nuocergli e di soddisfare i suoi capricci, come un bambino che distrugge in pochi secondi il castello di sabbia che aveva appena realizzato con cura e dedizione solo perché non era soddisfatto di un'inezia.
    Un Dio infantile, quindi, a capo di una razza che aveva avuto la sfortuna di essere coniugata a lui. il varco ribollì prima impercettibilmente, poi in maniera sempre più visibile, appena dietro il velo che lo delimitava: come illuminate da sprazzi di luce oscura, si indovinavano sagome, visi, occhi come pozzi neri e bocche spalancate in urla silenziose; erano le anime più tormentate del Regno degli Inferi, quelle più vendicative e crudeli. Erano sempre loro, le prime ad accorrere quando la chiamata presupponeva scopi malvagi. Rispondevano ad una sorta di segnale, un profumo di dolore per queste anime quasi irresistibile. Erano i miei sudditi, in questa dimensione o nell'altra non aveva importanza.
    Avrei potuto intervenire per fermarle, per impedire loro di violare i limiti e le regole che servivano a contenerle, ma non ero lì per questo motivo. Non intendevo ostacolare la follia di Etere, anche se quelle anime dannate, una volta libere nel mondo dei vivi, avrebbero acquistato molto potere e creato immensi danni, prima che le catturassi nuovamente e le riconducessi al luogo da cui provenivano. Strinsi le labbra con fare nervoso e impaziente, in attesa.
    A margine del portale, notai con stupore un movimento nello stesso punto in cui lo avevo scorto pochi minuti prima. Una figura maschile stava attraversando in senso contrario la porta che collegava il mondo reale al vuoto cosmico. Questa volta non era solo, ma accompagnato da una donna dai lunghi capelli neri, che si sorreggeva lievemente al braccio dell'uomo in armatura. Etere non li notò, troppo concentrato sull'evocazione o troppo assorbito dalla sua follia. Le ombre fameliche cominciavano a diventare più nitide, ad acquistare la forza necessaria per oltrepassare la barriera divisiva. La luce azzurrina del sole, così come appariva qui sulla Luna, le rese traslucide. Le prime già si erano staccate dalla tenebra oltre il portale, innalzandosi nel cielo limpido con uno stridio di vittoria.
    Nel liberarsi, sfiorarono la Guerriera che aveva supportato, volente o meno, Etere nel suo piano. Aveva sventato poco prima l'unica possibilità della Principessa di fermare Etere e ora, immobile a fianco del suo signore, parve rabbrividire fin nelle ossa, sfiorata dalle propaggini delle ombre, filamenti grigi che si muovevano al vento spettrale degli Inferi. Vidi solo io quando quella ragazzina si risvegliò, come liberandosi dalle catene invisibili del potere di Etere. Nessun altro notò il movimento perfetto con cui colpì il punto più vulnerabile dell'armatura che proteggeva il Dio. La protezione metallica si scompose all'istante in tanti pezzi e rovinò al suolo, lasciando indifeso il suo possessore. Un urlo tremendo, come di animale ferito si alzò immediatamente. Era un gemito irritato e disumano, che conteneva indignazione, orrore, tradimento. Etere era ridotto a mostrarsi nella sua forma effettiva, ovvero luce pura, intensa e accecante, ma vulnerabile e instabile. Assottigliai gli occhi per non rimanere accecata e perdere il vantaggio opportuno di una posizione nascosta per assistere alle battute finali del dramma che avevo curato e agevolato in più frangenti.
    L'urlo del Dio sembrò risvegliare e chiamare a raccolta i suoi nemici.
    Mentre le due figure appena uscite dal portale se ne allontanavano velocemente mettendosi al riparo, altre ne arrivarono. Riconobbi le Sailor di ogni pianeta e asteroide esistente. Accorsero per dare aiuto e sostegno a quella che aveva iniziato l'attacco, che aveva colpito a tradimento il suo padrone. Lampi violenti dei colori di ogni parte dello spettro cromatico colpirono in contemporanea la sorgente luminosa che era il Dio, impedendogli di rifugiarsi nuovamente nella protezione della corazza impenetrabile, ma anzi spingendolo, millimetro dopo millimetro, verso il Portale oscuro. Le forze attive da entrambe le parti quasi si eguagliavano, tanto che la scena sembrava immobile, come se il tempo si fosse fermato per mia mano, se non fosse stato per due particolari: la vibrazione luminosa dei poteri che schiacciavano il Dio e i segni scuri sul terreno, come strisce bruciate che l'essenza di Etere lasciava nel resistere all'impatto combinato dei colpi delle Sailor. Un caleidoscopio colorato che crebbe costantemente di intensità, uno sforzo formidabile a cui bastava davvero poco, un soffio lieve, per aver ragione della forza di Etere. I lampi blu di Mercurio, cremisi di Marte, dorati di Venere, paglierini di Urano, smeraldo di Giove, cerulei di Nettuno. Per un lungo momento, sembrarono avere la possibilità di prevalere, ma la loro forza non era inesauribile e la mancanza della loro leader era un fattore significativo. Dopo un attimo che parve infinito, la loro potenza d'attacco diminuì. Etere era quasi al limitare del velo tra i due mondi ma capì che il capriccio della fortuna stava di nuovo girando a suo favore, e avrebbe avuto ragione degli avversari nonostante la sua forma indebolita.
    Strinsi i pugni, contrariata. Avevo creduto che il mio ruolo sarebbe stato solo di convenienza, ma mi arresi all'evidenza. Non potevo rimanere nell'ombra come avrei desiderato, occorreva che usassi il mio potere, rischiando di rendermi visibile. Punta il dito verso la sagoma luminosa e la mia energia color onice si aggiunse quella delle altre. Un piccolo, piccolissimo contributo che fu fondamentale per vincere le ultime resistenze di Etere. La sua forma splendente venne risucchiata al centro dell'oscurità, per poi implodere e scomparire. Le due vastità, opposte e complementari entrarono in contatto e si fusero in un'unica entità. Etere era scomparso, era stato inglobato dallo spazio cosmico, la sua essenza non annullata ma unita e resa inscindibile.
    Non era finita. Dopo un secondo di stasi, l'unione del vuoto cosmico con un'energia così massiccia creò una deflagrazione immane, rilasciando un'energia imponente e terrificante. Io ero lì per questa, per intercettarla e preservarla. Un fulgore raggiante venne proiettato fuori dal portale, abbattendo per un raggio molto ampio qualsiasi forma di vita. Le Sailor caddero al suolo svenute, protette dalla morte grazie alla loro tempra superiore e all'armatura resistente. Persone inferiori come i miseri umani, se troppo vicini al punto di origine dell'esplosione non sarebbero sopravvissuti, ma non avrei sprecato il mio tempo per piangerli o crucciarmi.
    Ogni stilla della mia concentrazione era incanalata verso l'energia dirompente e il mio bastone, il ricettacolo della stessa. Non avrebbe potuto incamerarla tutta senza danneggiare irrimediabilmente la sua struttura e il prezioso tesoro che custodiva, ma anche solo la piccola frazione nel punto in cui mi trovavo sarebbe stata più che sufficiente. Strinsi le mani intorno al bastone, per reggerlo e contemporaneamente per resistere al ciclone che mi circondava; quando mi superò, attesi qualche secondo che la staffa terminasse di vibrare dopo il prelievo, una vibrazione molto prossima ad un corpo che trema nel resistere ad uno sforzo titanico. La Garnet Sphere inserita sulla sommità si agitò nelle profondità del suo cuore, come in preda ad un sogno angoscioso. L'anima racchiusa si mosse inquieta, ma per liberarla non era ancora giunto il momento...
    Quando l'eco del boato dell'esplosione cessò e il vento impetuoso che lo aveva accompagnato si affievolì, osservai il campo di battaglia, cosparso di corpi, quelli delle Sailor. Il portale si era richiuso, e a memoria dello scontro furioso appena terminato rimanevano solamente i solchi bruciati nel terreno. Mi mossi leggera in mezzo alle mie compagne incoscienti. Mi ero interrogata sovente prima di questo giorno se avessi dovuto approfittare della loro vulnerabilità per ucciderle e liberarmi dell'ostacolo che potevano rappresentare nei miei piani, ma infine avevo scartato quella possibilità allettante. Ero potente e risoluta, sarei comunque riuscita a contrastarle quando la mia missione avesse avuto successo, ma non ero stupidamente arrogante. L'universo era governato da un principio infinitamente più forte di me e avrei dovuto agire evitando ad ogni costo di violare troppo maldestramente l'equilibrio su cui tutto si basava. E l'uccisione delle Sailor, con il conseguente ritorno all'origine dei loro Crystal Seed, avrebbe inevitabilmente puntato un faro sulle mie azioni.
    Il bastone tra le mani stava diventando sempre più caldo, in reazione all'enorme potenza raccolta. Era giunto il momento della mossa successiva. Colpii il terreno una prima volta, liberando una parte dell'energia.
    ”Monolite del Tempo, io ti richiamo ai miei ordini!” L'immenso manufatto di colore eburneo, si materializzò davanti a me. Percossi la terra una seconda volta.
    ”Monolite dello Spazio, io ti richiamo ai miei ordini!” E poi un'ultima volta, la terza. Sorrisi vittoriosa. I tre Monoliti si ergevano maestosi e colossali, nero quello dello spazio e grigio quello della creazione. Con il mio potere, aumentato dell'energia rilasciata dal bastone, ero riuscita a prenderne il controllo.
    Accarezzai l'aria, percependo sotto le dita la sottile trama che separava questa dimensione dalla mia d'origine. I fili si stavano diradando, e già potevano essere sufficientemente radi in alcuni punti di questo mondo da consentirmi di procedere con la fase successiva. Il controllo dei Monoliti era l'ultimo pezzo che mancava prima che potessi procedere, ma ora potevo controllarli e usarli, come avevo progettato.
    ”Il futuro che ci farà tornare alla vita che c'è stata strappata è sempre più vicino... lo sento... avvicinarsi a grandi passi” Mormorai riflessiva e con il tono di chi fa una promessa. ”Non commetterò nessun errore, e quello che abbiamo passato sarà presto un brutto sogno e nulla più!”
    Apri il passaggio per allontanarmi velocemente da quel luogo. Nessuno mi aveva visto e nessuno avrebbe mai saputo della mia parte nella sconfitta di Etere.


    Edited by Illiana - 25/1/2021, 09:16
  15. .
    :Oliver:
    Schierai i miei uomini a guardia del gruppo di prigionieri che erano stati rastrellati con veloce efficienza nei punti più frequentati del livello principale dell'istituto. Non fu un lavoro complicato individuare e catturare i soggetti più impreparati e non addestrati, che cercavano solo di nascondersi e non pensavano certo a costituire una minaccia. Erano agnelli miti, che la lunga prigionia aveva solo fiaccato ancora di più nell'animo.
    Questi soldati rappresentavano i migliori esemplari di uomini che le nostre caserme e accademie potevano produrre. Veloci, forti, concentrati, infallibili. Le SchutzStaffel costituivano la punta di diamante dell'esercito deviante; svolgevano con estrema affidabilità compiti delicati e rischiosi ma possedevano qualcosa che non mi serviva, anzi poteva essere addirittura pericolosa. Una coscienza. Un pensiero che non era completamente assoggettato ai miei ordini. La loro lealtà andava conquistata e mantenuta costantemente, per evitare rischi di tradimento o defezione. Troppo spreco di risorse per un risultato non sempre ineccepibile come mi sarebbe servito.
    Per questo avevo creato e seguito da vicino il progetto Omega. Il sogno di possedere soldati letali e non senzienti era un progetto non originale, nel corso della storia molti altri uomini di potere avevano avuto il mio stesso intento. Ma solo io, a capo della razza eletta, lo avevo ottenuto. Il contrattempo relativo alla fuga di notizie era stato molto grave, ma avrebbe solo ritardato la raccolta dei frutti di anni di studi e sperimentazioni, nulla di più. Può una misera diga fermare la potenza di una massa enorme di acqua, la volontà e la superiorità della nostra razza? No.
    L'ultimo periodo stava diventando sempre più convulso e complesso, difficile da decifrare e da gestire. Molte difficoltà erano sorte in maniera imprevista e concomitante, e nonostante mi consultassi giornalmente con i miei consiglieri e tentassi di individuare possibili soluzioni con Nyx, parlandone durante il poco tempo che rimaneva per noi, non trovavamo il bandolo della matassa.
    Inizialmente, era comparso del simbolo delle Guerriere Planetarie su Moira. Un evento che aveva dell'inspiegabile, dato che tale incarico era spettato, da quando se ne aveva memoria, solo ad esseri appartenenti alla razza degli Eterni. Nyx non era stata in grado di trovare alcuna spiegazione logica e fu per questo che decidemmo di tenere all'oscuro nostra figlia.
    Qualche settimana dopo, la mia Dea era stata inaspettatamente contattata dall'ex Imperatrice, che richiedeva il formarsi di un'alleanza contro un nemico misterioso che fino a quel momento si era dedicato esclusivamente ai nostri antagonisti. Non ero d'accordo con Nyx sul volerli aiutare, anche se mi spiegò che lo avremmo comunque fatto in futuro; io ero convinto che anche potendo sfruttare la loro temporanea debolezza avrebbe potuto avvantaggiare la nostra posizione.
    Discutemmo animatamente e quasi litigammo. Cercai di farle ascoltare le mie ragioni, non ero più il servo timoroso che aveva salvato donandogli una nuova vita. Ci amavamo, e avevamo una figlia. Con lei, Nyx aveva esaudito il grande desiderio di essere madre a tutti gli effetti. Ero il suo compagno fedele e instancabile, ero consapevole di questo e del ruolo che rivestivo ai vertici del mondo che avevamo creato insieme.
    Per quanto tutta la venerazione fosse rivolta doverosamente a lei, come avevo sempre desiderato fosse, io rappresentavo la sua controparte più reale, tangibile, terrena. Ero il capo supremo dei Devianti, la loro guida pragmatica.
    Ma sulla scena era ricomparso Etere, il suo odiato e ingombrante fratello. In passato, quando aveva incrociato la nostra strada e lo avevamo sconfitto, sapevo che non era morto, e questo lasciava spazio alla probabilità che tornasse per vendicarsi.
    Quella mattina era in programma una riunione con i Gerarchi del Reich per definire le fasi di allerta operativa per il nostro potente esercito. Se Nyx voleva schierarsi in battaglia al fianco degli Eterni, sarebbe stato necessario prepararci ad accogliere la guerra anche sul nostro pianeta. Anche davanti ai miei più stretti collaboratori non rivelavo i miei veri pensieri, una questione che faceva bruciare un'ira profonda nel mio petto, perché ritenevo questo comportamento come un inqualificabile tradimento che avrei fatto alla mia Signora.
    Ero diretto alla sala riunioni quando si attivò il segnale di violazione confini all'Abstergo. Non impiegai che un secondo per reagire, mi attendevo una simile eventualità: ogni opzione era stata pianificata dalla nostra intelligence. L'allarme scattato indicava un attacco dall'esterno, e ipotizzai che i detenuti stessero ricevendo aiuto da altri Assassini ancora in libertà.
    Ero piuttosto stupito dal metodo che utilizzarono, perché dimostrava una pianificazione e un'organizzazione che non pensavo avessero le risorse e le capacità di raggiungere. Non gli sarebbe comunque servita, non avrebbero mai potuto fuggire, indenni, dall'edificio.
    Ero certo, con una convinzione che derivava dall'esperienza che avevo affinato durante i miei anni da Assassino, che avrei scoperto chi esattamente tra loro, tra i numerosi individui che avevamo cacciato per anni, seguendo criteri di ruolo e di eredità, fossero i veri soggetti interessanti.
    Ordinai quindi alle guardie d'élite di portare gli elementi mediocri in sala mensa e di creare una sorta di sentiero obbligato per quelli più astuti ed esperti, che erano sicuramente sfuggiti alla retata appena conclusa. Una volta aver disposto tutto, mi trasferii lì con i miei poteri: qualche decina di soggetti erano radunati e tenuti sotto tiro dai componenti delle SS. Attesi con pazienza, mente udivo rari colpi di arma da fuoco, urla e passi veloci e concitati. Il gruppo che entrò nella sala dopo qualche minuto era formato da pochi individui, troppo pochi, ma tra questi riconobbi subito uno dei due esemplari che avevano superato con successo quasi tutte le fasi di innesto del Gene Deviante. Improvvisamente, lo sviluppo dell'agente nel suo organismo si era inspiegabilmente interrotto, e vedevo nell'Assassino una lucidità e un controllo che non avrebbe più dovuto possedere. Ma non tutto era perduto. I Devianti sarebbero sempre usciti vittoriosi, io avrei ottenuto quello che cercavo.
    Aggrottai la fronte. C'erano delle donne che spiccavano non solamente per il fatto che non indossavano l'uniforme bianca dei prigionieri, ma per il loro aspetto. Erano evidenze che non erano rilevabili per la maggior parte delle persone, ma non per un Deviante di alto livello quale ero io. Erano Eterni, e senza alcun dubbio, erano Guerriere.
    ”Siete prevedibili, lo sapete?”
    La mia voce, tinta di sarcasmo, riecheggiò tra il soffitto e i pannelli della sala. Il silenzio sembrava più pesante perché avevo fatto cessare l'allarme appena erano entrati loro. Si erano fermati interdetti davanti allo spettacolo dei prigionieri, ma subito non avevano notato la mia presenza, il fatto che li stessi aspettando. Feci alcuni passi per aggirare i prigionieri, mentre squadravo con occhi di fuoco i rivoltosi. I soldati e gli ostaggi erano immobili come statue di pietra. Anche i nuovi arrivati non si mossero, per quanto notassi le loro espressioni rabbiose. Ero calmo: l'intero gioco era nelle mie mani, lo avrei avuto fino alla fine.
    ”Siete qui per salvare i vostri compagni. Ma c'è altro che vi aspetta”
    Misi una mano sulla spalla del prigioniero più vicino, che alzò gli occhi verso di me, stupito e terrorizzato. Le sfide troppo facili non mi esaltavano né mi soddisfacevano, ma eravamo solo all'inizio.
    ”Vi appropriate del privilegio di decidere delle vite degli altri, quando questa facoltà spetta solo agli dei”
    Abbassai la voce, fissando la mia vittima, un soggetto molto giovane e fragile. Mentre parlavo, ero entrato nella sua testa, avevo trovato la paura segreta e distruttiva che avrei usato. Il suo terrore cieco lo aveva già trasformato nel mio burattino. Continuai a parlare, mentre mettevo nelle mani del ragazzino un coltello militare dalla lama seghettata e affilata.
    ”Come ci si sente quando lo stesso gioco viene rivolto verso di voi? Quando per colpa delle vostre azioni molti dei vostri compagni moriranno?”
    Il prigioniero portò la lama alla gola e senza alcuna indecisione la tagliò in profondità. Sbuffai seccato udendo gemiti di paura dietro di me ed esclamazione di rabbia da alcuni assassini davanti a me.
    ”Se uscirete vivi di qua, Assassini, dovrete portarvi via anche la consapevolezza di aver causato la morte di quelli che hanno deciso di ascoltarvi”
    Appena terminai la frase mi smaterializzai, spostandomi alla velocità del pensiero verso la mia vittima successiva. La avevo scelta e studiata in mezzo a loro in precedenza. Era un'Eterna, potente e piena di vigore, ma la sua irruenza avrebbe giocato a mio favore, a differenza della sua compagna, troppo fredda, razionale ed equilibrata, dove il mio potere avrebbe impiegato più tempo per agire. Con la Guerriera dall'armatura rossa e dall'essenza infuocata e instabile, invece, potevo attaccare velocemente e ritirarmi prima che chiunque riuscisse a reagire. Comparii di fronte a lei, entrai dentro alla sua mente forzandola con spietatezza e decisione. Vidi le sue pupille dilatarsi per la sorpresa, ma agii velocemente e distrussi le barriere e gli ostacoli mentali che trovai sul mio percorso. La mente di un Eterno era prodigiosa, impressionante, complessa ma non immune a paure e conflitti che avrei sfruttato. Bastavano solo pochi secondi, e avrei portato a termine il mio attacco presto ma...... Udii un urlo maschile, e venni urtato pesantemente. Lo sconcerto fu tale che la spinta violenta mi fece sbilanciare e cadere a terra, prima che potessi riprendere il controllo e tornare ad attaccare.
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