Edward & Nike Origins

Earth Prime

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    Non avevamo incontrato ostacoli sul nostro cammino. La fuga era stata più semplice di quanto mi fossi aspettata, non avevano ancora scoperto che il loro prigioniero era fuggito e non avevano avuto motivo di dare l’allarme.
    Dopo un primo attimo di reticenza, Edward aveva accettato il mio aiuto per evadere da quell’inferno, ma io percepivo ancora un solido muro di diffidenza e non potevo biasimarlo per questo. Ero pur sempre un’alleata dei suoi più acerrimi nemici, ma non aveva potuto ignorare il fatto che avevo messo a repentaglio quella stessa alleanza e la mia stessa vita per tirarlo fuori.
    Correvamo a perdifiato e ben presto ci lasciammo alle spalle la villa fortificata del Gran Maestro. Avremmo potuto considerarci in salvo, sebbene dovevamo continuare a stare in allerta e rifuggire dalle ronde che le guardie spagnole ancora effettuavano in giro per la città. Il pericolo sarebbe stato imminente fino a che non avessimo lasciato l’isola.
    Edward continuava a muoversi, arrancando come un pazzo, con una furia cieca negli occhi che ancora non ero riuscita ad analizzare e a collocare. Da quando aveva interrogato quella guardia nel corridoio delle celle, sembrava fuori di sé, completamente ignaro delle ferite che marchiavano il suo corpo e lo indebolivano. Pareva volesse fregarsene del dolore e dello strazio che stava imponendo alle sue membra. Avevo provato a sostenerlo in alcuni tratti più difficoltosi, ma mi aveva respinta senza mezzi termini. Fino a che, trovato un arco di pietra riparato da occhi indiscreti, non si lasciò cadere di schianto in terra… mi avvicinai a lui esasperata.
    “Non puoi continuare così, devi riposarti…! dissi con una cocente preoccupazione nella voce.
    “No!” mi urlò contro, carico di tutta la collera del mondo. Mi afferrò per le spalle e con occhi spiritati, quasi da folle, mi rivelò il motivo di tutta la sua ansia… I Templari avevano scoperto il covo dei suoi amici Assassini e stavano andando a prenderli. Mi ricordavo di Adéwalé e Ah Tabai, sapevo quanto fosse legato al primo, era stato suo compagno di scorrerie e incursioni per anni, ma non avrei mai immaginato che tenesse così tanto ad Ah Tabai, colui che un tempo era stato suo prigioniero. Quanto era cambiato il Capitano Kenway? Quanto aveva preso a cuore la sua nuova missione di Assassino? Era molto diverso… lo ricordavo sfrontato, sicuro di sé, e terribilmente attaccato alle apparenze, agli oggetti materiali, al denaro… adesso si stava struggendo per degli amici? Per una causa che era diventata parte integrante del suo essere?! Mi stavo facendo troppe domande e la risposta era semplice e chiara come l’acqua cristallina dei suoi occhi blu. Lui era cresciuto… aveva deciso di fare qualcosa di veramente importante nella sua vita, dedicandosi al Credo e alla missione degli Assassini. Non mi importava un accidente che fossero miei nemici giurati, ma la sola consapevolezza di vederlo impegnato in qualcosa in cui credeva davvero, senza che ci fossero l’interesse e il guadagno a stimolarlo, mi riscaldò il cuore.
    Nonostante soffrissi nel vederlo tanto distrutto e fuori di sé, ero felice per lui e proprio per questo sacrosanto motivo, decisi che lo avrei aiutato fino in fondo in questa sua ennesima missione, sarei stata al suo fianco per tentare di salvare i suoi compagni, anche se, seguendo la ferrea logica, avrei dovuto fare tutto il contrario.
    Un’espressione serafica si dipinse sul mio viso e tentai di tranquillizzarlo solo con la forza del mio sguardo. Non lo temevo, sebbene mi stesse afferrando con ben poca grazia, quel suo scatto d’ira non poteva spaventarmi perché sapevo cosa stava provando, perché conoscevo i sentimenti che albergavano nel suo cuore e non lo avrei mai potuto condannare. Mi limitai a fargli capire che doveva tornare in sé.
    “Lasciami. Mi stai facendo male” dissi con voce più risoluta, ma la sua reazione superò ogni mia più fervida immaginazione. Mi avvicinò al suo volto senza chiedere, senza riguardo e mi baciò con irruenza, con furore, come se tutte le sue emozioni contrastanti fossero immerse nel contatto delle nostre labbra, fuse in un vincolo rabbioso. Restai allibita e non ebbi neppure il tempo di rendermi conto di cosa stesse succedendo, che lui si staccò continuando a squadrarmi con uno sguardo di fuoco, ansimando per il dolore e per la foga.
    “Dobbiamo muoverci!” disse senza troppi fronzoli, totalmente ignaro del terremoto che mi aveva causato dentro, mentre il mio cuore era impegnato a fare mille capriole ed io tentavo di ammansirlo con ogni stilla del mio raziocinio. “Calmati, Nike, non sta bene… è febbricitante e non è padrone delle sue azioni. Probabilmente, quando starà meglio, neppure si ricorderà di questo bacio rubato!”
    Ripresi le piene facoltà mentali e lo seguii, preoccupata che potesse crollare da un momento all’altro. Barcollava e rischiava di cedere ad ogni passo.
    Arrivati alla banchina del porto, incontrò un suo vecchio amico pirata e si accordò per avere un passaggio fino a Tulum. Era evidente quanto i due fossero legati da buoni rapporti e molta fiducia, visto come il Capitano della nave aveva acconsentito senza batter ciglio, di fronte alla ciurma, a tutta la storiella che Edward aveva improvvisato sul momento e che aveva ben poco di vero. Quando gli disse che ero sua moglie mi venne un colpo e non potei fare a meno di arrossire come una stupida fanciulla alla prima esperienza. Era l’unico modo per far salire anche me su una nave di pirati. Sapevo per esperienza personale che “il sesso debole” non era ben accetto “nel loro territorio”.
    Ci assegnarono la cabina del Capitano e senza starci troppo addosso ci scortarono fino a destinazione. A metà percorso, Edward si appoggiò a me e quando lo guardai mi resi conto che stava per svenire e che mi sarebbe crollato tra le braccia da un momento all’altro.
    “Presto, aiutatami!” urlai a un pirata che mi stava vicino. Non avrei potuto reggere la ragguardevole mole del Capitano Kenway, sarei crollata sotto il suo peso.
    L’uomo mi aiutò a sistemare Edward sul letto dell’alloggio e mi disse se avevo bisogno di qualcosa, allora io, prendendo una folle decisione quasi d’impulso, lo congedai, chiedendo di lasciarci soli. Mi sarei presa cura di lui… ma il pirata ovviamente non aveva capito cosa avevo in mente di fare e non l’avrebbe mai potuto immaginare.
    Liberai il corpo di Edward dalle armi che lo appesantivano ancora di più e la giacca ingombrante. Aprii il camicione, togliendolo subito dopo, e non potei che trasalire, rimirando di nuovo le ferite che attraversavano il suo petto e l’addome. Aveva lacerazioni e contusioni anche sulle spalle e sulla schiena. Avrei dovuto concentrarmi al massimo per fare un lavoro accettabile. L’arte della guarigione non era il mio forte, ma tutti noi Eterni possedevamo le basi di questa abilità e non avevo intenzione di tirarmi indietro.
    Mi assicurai che Edward stesse ancora dormendo. Il respiro era agitato, ma costante. Aveva perso i sensi poiché l’adrenalina nel suo corpo si era esaurita del tutto, dopo averlo sostenuto per l’intera fuga. Non era una sorpresa.
    Avevo intuito che le percosse più gravi erano sul dorso e sulle spalle, allora, con non poca fatica lo voltai a pancia in giù e imposi le mie mani su di lui, fino a che una luce verde chiaro si spanse, avvolgendo la sua pelle e immergendosi nella sua carne. Mano a mano che il tempo passava, le ferite si superficializzavano e poi scomparivano del tutto. Era faticoso per me, ma mi beavo della certezza che lui sarebbe stato meglio, che non avrebbe più provato dolore.
    Una volta finito, lo voltai supino e mi preoccupai di curare il suo torace e l’addome, dove spuntavano delle lacerazioni frastagliate e delle ustioni di media entità. Quei bastardi non volevano ucciderlo, ma farlo soffrire fino allo stremo! Una furia cieca mi avvolse al cospetto di tanta crudeltà, ma mi imposi di non farmi sopraffare, tali sentimenti non si potevano in alcun modo conciliare con la pratica curativa.
    Iniziai a curarlo, facendomi permeare dalla forza che trasmettevo attraverso quel bagliore smeraldo, sentivo che l’energia fluiva da me a lui e questo mi indeboliva, ma non avevo nessuna intenzione di smettere fino anche non avrei compiuto l’opera.
    Avevo le palpebre abbassate quando mi sentii afferrare per un polso e presa alla sprovvista, l’incanto si spezzò, osservai di riamando gli occhi tormentati e furiosi di Edward che mi rimirava attonito.
    “Che diavolo stai facendo?” Domanda molto interessante…
    Non avevo più intenzione di mentire né di trovare scuse infantili alle quali non avrebbe creduto neppure un bambino.
    “Stavo solo cercando di darti una mano” risposi semplicemente, il che era la pura verità.
    “Sei una strega?” continuò sulla scia delle domande scomode, mentre si alzava per mettersi seduto, appoggiato con la schiena ai soffici cuscini alle sue spalle. Quando non percepì alcun dolore, che evidentemente si aspettava di provare restò allibito. “Hai praticato un qualche tipo di sortilegio su di me? La mia schiena… è illesa…” mi guardava con gli occhi sgranati. Non sapeva cosa aspettarsi. Io utilizzai l’unica arma a mio favore: l’ironia.
    “Certo, mi manca solo la scopa e un bel neo peloso sul mento!” gli risposi rifacendomi alle illustrazioni classiche delle streghe sulla Terra.
    “Tu… tu… per questo sei rimasta uguale a quando ti ho conosciuto? Io ero solo un bambino, tu già una donna adulta e adesso sei identica ad allora… è assurdo!” Curiosa deduzione… sorrisi nella mia mente.
    “Ci sono tante cose che non sai, Edward. Cose che neppure puoi immaginare e che è difficile comprendere. In questo momento, ti chiedo solo di fidarti di me. Puoi farlo?” gli dissi con fare accorato e soprattutto piena di speranza. “Mi basta un tuo sì e potrei tornare a fidarmi di te. Dì di sì… per favore” pensavo in maniera spasmodica.
    “E perché dovrei fidarmi di te? Sei una Templare, dopotutto… i tuoi alleati mi hanno tenuto prigioniero per giorni e mi hanno torturato senza pietà. Senza contare che stanno andando a sgominare il covo dove si trovano i miei compagni più fidati… Un velo di diffidenza ancora permeava la sua voce, anche se la percepivo più vacillante rispetto a prima, come se si stesse rendendo conto che dubitare di fronte a così tanti dati di fatto, fosse quasi una follia. Decisi comunque di dargli qualche spiegazione, volevo davvero che capisse che ero sì, alleata dei Templari, ma non ero una di loro.
    “Non appartengo all’Ordine. Loro sono stati assoldati dalla mia famiglia per recuperare le antiche reliquie, che con il tempo sono andate perdute, e che gli Assassini stanno proteggendo come se fossero di loro proprietà… Svolgono solo un compito per mio conto! Ricordi cosa è successo l’ultima volta, quando ho pensato di poterlo fare da sola?” dissi soddisfatta di non aver dovuto propinare l’ennesima bugia, ma avevo potuto confessare una mezza verità. “Per quanto riguarda se puoi o meno fidarti di me e perché dovresti farlo, la risposta mi sembra più che evidente. Ti ho salvato la vita, ti ho aiutato a fuggire e ti ho curato, e non per ultimo, ti sto seguendo di mia spontanea volontà per aiutarti in questa missione suicida contro ‘i miei alleati’. Ti sembra poco?” conclusi rassegnata del fatto che sarebbe stato davvero difficile conquistarmi la sua fiducia.
    “E perché staresti facendo tutto questo per me? Stai rischiando molto…” disse ancora, ma con un tono diverso, come se stesse iniziando a capire. Ahimè, sarebbe potuto benissimo essere la mia immaginazione.
    “Sei proprio uno zuccone, Capitano Kenway… anche questo è evidente. Vai molto d’accordo con le armi, i bottini, e le donne di passaggio, ma non ci sai proprio fare con le donne come me! Fatti qualche altra domanda e prova a darti una risposta” dissi stampandomi un sorriso sardonico sul viso. “Adesso pensa a riposare un po’. Sei ancora debole e le cure devono finire di fare effetto. A breve starai molto meglio…” conclusi e mi alzai dalla piccola seggiola che era accanto al letto e feci per andare via. Avrei dormito sulla dormeuse in fondo alla stanza, sotto l’oblò.
    “Dove stai andando?” disse lui bloccandomi per un polso con la sua grande mano, avvertii una punta di allarme nella sua gola.
    “Riposerò un po’ su quella dormeuse, ma ti terrò d’occhio non preoccuparti…” affermai sorridendo con tenerezza, ma il mio cuore stava scoppiando.
    “Non se ne parla nemmeno. Questo letto è abbastanza ampio per entrambi e anche se non lo fosse, ancora meglio. Tu resti qui con me!” rispose sfrontato e con il suo magnifico sorriso stampato in volto. Non so cos’era cambiato in pochi attimi, forse ero io quella tonta adesso, ma proprio non lo capivo…
    “Non credo sia il caso, hai bisogno di riposo e non c’è abbastanza spazio…” tentai di ribellarmi, ma lui non era affatto d’accordo. Mi tirò con la forza e mi fece cadere esattamente addosso a lui, che nel frattempo era sceso un po’ e stava sdraiato per metà.
    Finii a contatto con il suo petto nudo, liscio come il marmo, ma scuro come legno di ciliegio, su cui potevo intravedere ancora le sottili venature delle ferite che non avevo fatto in tempo a guarire completamente. Non ero in una condizione ideale per rifiutare, e allora al diavolo il buon senso e le distanze. “Se insisti tanto, chi sono io per contraddirti?!” Lo pensai ma non ebbi il coraggio di dirlo ad alta voce, non era ancora venuto il momento di espormi tanto senza avere qualche certezza…
    Provai a sistemarmi, allontanandomi per assumere una posizione più “consona”, ma lui mi passò un braccio sulle spalle e mi accostò al suo torace. Poi parlò… con un timbro roco, strano, che non gli avevo mai sentito, neppure quella notte di molti anni prima, quando io avevo consumato il mio amore e lui mi aveva donato solo una piccolissima parte di sé.
    “Ancora non capisco molte cose Alice… e te ne chiederò conto, magari in un altro momento, ma di una sono certo: che adesso, posso fidarmi di te!”
    Non risposi nulla, mi limitai a sorridere come una stupida, sperando che lui non potesse scorgermi nella penombra del lume che illuminava fiocamente la stanza. Mi beai del suo profumo speziato e tentai di abbandonarmi all’incoscienza con un solo pensiero in testa: “Nike, Edward…. il mio nome è Nike!”


    Edited by The Bla¢k Wit¢h¸ - 13/7/2020, 20:04
     
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    Il mare era il mio elemento, l'acqua salmastra una metafora perfetta di una vita invidiabile. Sulle onde avevo trovato ricchezza, fama, rischio. Tutte cose altamente desiderabili. Come la libertà, la fratellanza e altri valori che avrei difeso fino alla morte. E per questo motivo, avrei contrastato qualsiasi cosa avesse minacciato di privarmene, con la ferocia con cui abbordavo le navi militari inglesi e spagnole. Io non avevo padroni, e le catene non mi spaventavano. Il mio cuore era nato libero, e le vicissitudini che avevo affrontato nella mia vita erano servite a confermarmelo.
    Ero sempre stato un individualista, la carriera da pirata rispondeva a questo mio bisogno alla perfezione. Poi però mi ero reso conto che ognuno di noi viveva e prosperava solo grazie ai propri alleati, compagni, fratelli. Che insieme gli obiettivi a cui puntare potevano essere più grandi, notevoli, significativi. Che grazie ad altri tipi di legami, anche la vita sarebbe diventata più interessante. Avrebbe acquistato valore, un valore tale che il pensiero di perderla faceva rabbrividire. Molti miei compagni avevano lasciato le scorrerie per sposarsi e vivere un'esistenza agiata e onorevole. Fino a qualche giorno fa, ero convinto che una simile possibilità non si sarebbe presentata a me.
    Le scorrerie piratesche si erano trasformate in una lotta ben diversa ed io ero soddisfatto di non dover sottostare ad un legame che mi avrebbe limitato. Poi, era ricomparsa lei. Una pagina molto breve della mia storia, ma tracciata con inchiostro più indelebile di altre. Cosa mi attirava di quella donna? La sua bellezza, la sua unicità? Il mistero che la avvolgeva? Poteva sembrare banale, ma era così. I lineamenti perfetti, il corpo armonioso, i capelli serici. Le sirene ammaliavano i marinai con il loro canto, lei stava ammaliando me con il suo carattere fiero, coraggioso, indipendente. Era come vedermi allo specchio.
    Fare l'amore con lei era eccitante e soddisfacente, affondare le mani nei suo capelli profumati e folti, le mie labbra che giocavano sulle sue mi faceva perdere la testa, e desiderare che non esistessero altro che quei momenti. Ero egoista e lo sapevo, perché approfittavo di questo piacere pur sapendo che sarebbe finito, e che il ricordo di quelle ore sarebbe stato difficile da cancellare.

    La mattina dopo colpi fragorosi alla porta ci svegliarono. Lei era ancora stretta a me e io a lei. Un sollievo irrazionale mi colse impreparato: almeno questa volta non era sparita, tradendomi.
    “Kenway, il Capitano Tatch vuole vederti, subito!”
    Strinsi a me il suo corpo. Le nostre pelli a contatto parevano formicolare. Ero così appagato di averla vicina a me. Tutto sembrava così normale, ogni cosa era al suo posto. La baciai, anche lei si era svegliata con il rumore che faceva il marinaio di fuori.
    I colpi alla porta si ripeterono. Alzai la voce per farmi udire da quel rompiscatole: “Dì al tuo capitano che arrivo!”
    Poi, mi girai di nuovo verso di lei, le labbra che si sfioravano: “Rimani chiusa qui nell'alloggio, fuori non è un posto sicuro per una donna, mi raccomando...”
    Mi vestii velocemente e uscii dal piccolo ambiente che per poche ore era diventato come un punto sospeso senza limiti di alcuni tipo. Trovai Tatch sul ponte di comando, intento a scrutare l'orizzonte con un cannocchiale di madreperla e oro.
    “Si sta preparando una tempesta dell'inferno, ma dovremmo riuscire ad aggirarla con la Queen's... di quello che troveremo sulla terraferma però, non ci scommetterei un soldo bucato...”
    Rise piano, brevemente. Disprezzava gli uomini che vivevano sulla terraferma, e non era dispiaciuto quando prevedeva qualche sciagura per loro. Il maltempo che si stava scatenando sul mare si sarebbe abbattuto nel giro di poco tempo sulla costa, con una violenza ancora maggiore. Mise via il cannocchiale e mi guardò fisso, in attesa di una mia reazione: voleva spiegazioni, e aveva tutto il diritto di chiedermele. Gli raccontai quello che potevo, ovvero che Alice mi aveva tirato fuori dalla prigione del governatore, a cui non stavo molto simpatico.
    “Beh, avrà fatto anche altro per te, sembri passartela molto meglio di ieri!
    Distolsi lo sguardo, con una smorfia sulla faccia “Già...” Volevo ignorare ancora la guarigione miracolosa che aveva fatto su di me? Non potevo.
    Barbanera mi ragguagliò su quello che aveva visto e sentito nei giorni in cui ero imprigionato. Il Governatore delle Bahamas aveva lasciato L'Havana diversi giorni prima, e si vociferava che stesse raccogliendo un piccolo esercito per assaltare una zona indigena che resisteva da anni alle mire coloniali della madre patria inglese. Ingoiai a fatica l'angoscia. Un esercito! Come avremmo mai potuto affrontarlo? Non era più possibile, con il ritardo che avevamo su di loro, affrontarli e distruggerli in alto mare, anche se Tatch avesse deciso di darmi una mano in una battaglia che non era la sua...
    Ritornai sottocoperta dopo aver preso dalla cambusa delle gallette secche e una ciotola di acqua dolce.
    Pensieri foschi appesantivano il respiro, il passo, perfino la luce che raggiungeva gli occhi. Mi affannavo a trovare una soluzione per salvare i miei compagni, ma l'unica speranza era di arrivare in tempo e di sparire nella folta foresta che Ah Tabai conosceva così bene.
    Ognuno aveva la propria responsabilità da assumersi e anche se provavo smarrimento per la mia, ero obbligato a farlo. Entrai nella cabina senza bussare. Alice si era vestita mentre ero assente ma fui felice di trovarla dove speravo, con un sollievo che quasi mi disturbò.
    Non se l'era svignata di soppiatto come aveva progettato di fare la volta scorsa, quando mi aveva tradito, violando e calpestando la mia ospitalità per un semplice oggetto. Appoggiai il cibo e l'acqua sul grosso tavolo di legno che occupava buona parte della cabina, ingombro di mappe e strumenti per la navigazione.
    Alice posò come se scottasse il volume che stava guardando. Il diario di bordo di Tatch, con tutte le informazioni sulle rotte, sugli attacchi ai bastimenti, sui bottini ottenuti. Mi sorrise, e quasi provai rimorso – rimorso! - per quello che dovevo stabilire ad ogni costo.
    Non potevo dimenticare che ero prima di tutto un assassino, e la mia lealtà andava ai miei compagni, al Credo, al mio ruolo nel conflitto.
    Era una faccenda non più aggirabile che avrei dovuto risolvere prima di arrivare in vista delle coste dello Yucatàn, per non rischiare che in qualche modo la situazione precipitasse e mi ritrovassi a doverla gestire secondo l'emergenza.
    Alice, miss Morgan, era alleata con i Templari. Non si era neanche tanto nascosta dietro delle scuse, aveva ammesso di avergli chiesto di lavorare per lei. Mi pareva piuttosto incredibile che persone assetate di potere come i nostri nemici avessero deciso di svolgere un compito come se fossero dei normali speculatori, ma era certo che in tutto questo ne avrebbero ottenuto qualcosa. Qualcosa che potevano sfruttare per aumentare la loro influenza, il loro controllo, il predominio che comunque con molta difficoltà stavamo contrastando. E se avessero trovato e distrutto il nostro covo a Tulum, il più grosso rimasto in questa parte del mondo, la Confraternita avrebbe subito una sconfitta da cui non si sarebbe rialzata se non dopo decenni di lavoro per ricostruire tutto. E, nel frattempo, le persone avrebbero sofferto. Migliaia di persone. Persone che neanche sapevano dell'esistenza del conflitto, ma beneficiavano della libertà che noi difendevamo con il nostro sangue.
    E in tutto questo, comunque, rimaneva il punto più spinoso. Miss Morgan aveva un interesse palese ad avvantaggiare il Governatore Torres e i suoi tirapiedi. Nonostante questo, aveva rischiato di far saltare l'alleanza per sottrarmi alle loro mani. Non che avrebbero mai ottenuto qualcosa da me, ma ora che ero libero avevo una piccolissima probabilità di sventare il loro attacco, di rivolgere verso di loro la stessa distruzione che volevano arrecare a noi.
    E questo perché? Non mi accontentavo di vaghe spiegazioni, anche perché nella zona grigia si potevano annidare tanti significati, ed io ero sospettoso di natura. Mi aveva salvato, e allora? Se fosse tutto un piano architettato per ottenere il punto esatto di locazione del covo, e io la stavo portando esattamente lì?
    E poi, non secondario, che cosa era esattamente lei? Quale stregoneria mi aveva messo addosso, per guarire ferite che avrebbero messo giorni a rimarginarsi? La pelle pizzicava ancora, in qualche punto, come se il suo sortilegio stesse ancora facendo effetto su di me.
    Strinsi i pugni. Per la prima volta, odiavo mettere alle strette, fare pressione su qualcuno perché mi rivelasse i suoi segreti. Sembrava un'azione quasi immorale, ma avevo delle responsabilità che non riguardavano solo me.
    E, con stupore, le parole che uscirono dalla mia bocca avevano altro scopo che non chiarire quale minaccia lei rappresentasse per la Confraternita.
    ”Alice... chi sei veramente?”
    Lei sgranò gli occhi, incredula. Pensava di avermi già convinto, di aver chiarito tutto, ma non era vero. Quello che stavo chiedendo era ben altro. Avevo bisogno nel profondo di sapere se mi potevo fidare di lei, e non solo per proteggere i mie fratelli.
    ”Non voglio girarci intorno. Ho visto troppe cose che non hanno nessun significato, e di cose strane in vita mia ne ho viste parecchie, fidati. Come facevi a sapere dove trovarmi? Che rapporti hai con i templari? Perché li comprometteresti per me, dopo che sei sparita per anni? L'ultima volta eri pronta a qualsiasi azione pur di riprenderti l'oggetto che appartiene alla tua famiglia, e ora inganni quelli che stanno facendo questo lavoro per te?”
    Maledicendomi silenziosamente, sfilai dal fodero sul petto una delle due pistole che tenevo sempre pronte all'uso. La soppesai in maniera automatica, controllando che ogni pezzo fosse in ordine. Poi la puntai verso il suo viso. Strinsi i denti, mentre le mie viscere sembravano essere diventate di piombo.
    ”Avevi detto che ti saresti fidato di me...”
    Era ferita, lo vedevo distintamente. L'avevo illusa con le mie debolezze, lo avevo detto in un momento in cui tutto mi pareva chiaro, in cui le questioni più pressanti sembravano piccole, ma alla luce del giorno, non ne ero così sicuro.
    ”Dici di essere innamorata di me, ma non mi basta. Quante persone tradiscono comunque, o sono obbligate nel farlo? Ho bisogno di una prova concreta che posso affidare quello che ho di più importante a chi non mi pianterà una lama in mezzo alle scapole se gli offro le spalle. Che non scapperà a riferire informazioni preziose e vitali a chi le userà per distruggerci. Non posso permetterlo, e anche se si tratta di te, rappresenti una grossa minaccia per gli Assassini. E le minacce... vanno eliminate...”
    La voce mi tradì nel pronunciare l'ultima frase, si spezzò. Al solo pensiero, mi sentivo male, vuoto, come se stessi rinunciando all'unica mia possibilità di essere felice.
    ”Mi vuoi uccidere?”
    ”Che altra scelta mi dai? Continui a tenerti i tuoi segreti, nascondendoli con parole vaghe e deludenti. I tuoi alleati stanno raccogliendo un esercito per attaccarci, lo sapevi?”
    Scosse la testa, interdetta. Non lo sapeva davvero. Cosa stavo facendo? Una voce nella mia testa urlava rabbiosa, ma strinsi ancora di più l'impugnatura dell'arma, mantenendo la mia posizione.
    ”Che cosa vuoi che ti dimostri?”
    ”I tuoi poteri miracolosi! Quelli con cui curi le persone con una luce verde! Chi sei veramente?”
    Alice abbassò le spalle. Dopo qualche istante, mi rispose con amarezza.
    ”Sono a capo di una... organizzazione, molto... potente. Dobbiamo recuperare gli oggetti che sono presenti nei luoghi che hanno costruito i miei predecessori. Dobbiamo anche sigillare quei luoghi, perché nessuna persona ne abbia più accesso”
    ”Quegli oggetti sono diventati trofei che assassini e templari si contendono con ferocia... molti uomini sono morti nel tentativo di recuperarli o di sottrarli ai loro nemici. Ma questo lo sai, vero?”
    Quello che era avvenuto anni prima sulla Jackdaw si rimetteva tra noi, come un fantasma. Alice chinò la testa, sembrava che queste morti le pesassero sulla coscienza in modo personale. Tornò a guardarmi negli occhi.
    ”Hai ancora dei dubbi, lo comprendo. Allora ti dirò questo: io conosco l'esatta ubicazione del nostro sito nello Yucatàn. Si trova ai margini della foresta tropicale a Tulum. Se avessi voluto intervenire nella guerra tra le vostre fazioni, avrei comunicato al Governatore la posizione esatta. Ma non l'ho fatto. Non sono venuta sulla... a l'Havana per aiutare loro! Ero lì perché mi avevano detto che ti volevano uccidere!”
    Mentre parlava, il braccio che reggeva la pistola si era abbassato di propria volontà. Era quello che non avevo sentito pronunciare, il sentimento accorato che trapelava, oppure le parole che formavano una nuova immagine della situazione, ciò che mi sconvolgeva? O quello che vidi subito dopo?
    ”Vuoi sapere cosa sono capace di fare, oltre che di risanare ferite in poco tempo e di mantenermi giovane oltre ogni logica?”
    Alzò la mano e la ciotola che avevo portato si mosse come sospinta da un vento invisibile verso di lei, appoggiandosi con precisione e senza versare una goccia sul suo palmo. Sgranai gli occhi, sentivo che mi stavano per uscire dalle orbite.
    ”Posso aiutarvi, voglio aiutare i tuoi compagni perché ho a cuore unicamente il tuo destino. Ma sono stanca di combattere contro la tua diffidenza caparbia. Se continuerai su questa strada me ne andrò, per sempre questa volta, e tu non potrai fermarmi!”
    Stava bluffando! Lo vedevo dai suoi occhi, dal lieve tremore delle sue labbra. Oppure no? Ed ero disposto a scommettere di perderla, anche se si trattava di una piccola probabilità? Posai la pistola sul tavolo, sopra le mappe.
    Ero confuso, esausto, preoccupato, euforico, speranzoso, stupito, incredulo ma sopra ogni altra cosa, ero... felice. Mi girava la testa, nel tentativo di fare ordine nella cacofonia di pensieri e direzioni e possibilità e domande che erano dentro di me.
    In quel momento, ero quanto di più lontano dal capitano Kenway potesse esistere. Ero incerto, emotivo, spaesato. Mi passai una mano fra i capelli, per guadagnare tempo. Chiusi gli occhi. Avevo la nausea, e non era il rollio della nave a procurarmela. Era la confusione.
    Infiniti scenari si aprivano di continuo davanti ai miei occhi: dalla distruzione del covo e di tutto ciò per cui avevo lottato, alla mia morte, alla nostra vittoria sui templari, ad una vita diversa, al raggiungimento di desideri che non avevo mai considerato. Non avevo previsto che Alice avrebbe avuto il potere di farmi cambiare idea su quello che avevo progettato per me stesso.
    Inoltre, i suoi poteri così innaturali, da dove provenivano? Avevano davvero importanza per me? Potevano aiutare me e i miei confratelli, se gliene avessi dato modo, solo questa era la risposta.
    Riaprii gli occhi sentendomi sfiorare la mano. Alice si era avvicinata silenziosamente. Leggevo nel suo sguardo la muta domanda che aveva già fatto più volte, quella che avrebbe potuto far cominciare o finire definitivamente qualcosa tra di noi: potevo fidarmi di lei?
    Presi un respiro profondo. Nei miei sentimenti, la risposta c'era già da tempo, nascosta sotto numerosi strati di testardaggine, orgoglio, diffidenza, dovere, arroganza.
    “No, non andartene. Resta con me...”


    Edited by Illiana - 29/7/2020, 08:33
     
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    Sollevai la mia mano e feci un breve movimento rotatorio. Sotto i miei occhi si dipanò la rete elettrica di un campo magnetico. Era di piccole dimensioni, ma invisibile ad occhio umano. Lo diressi verso la ciotola adagiata sulla scrivania e lo utilizzai per sollevarla e per portarla da me. Potei notare l’enorme stupore nello sguardo di Edward. Lui non conosceva il mio reale potere, non conosceva cosa ero in grado di fare, veramente. Spostare gli oggetti utilizzando i campi elettromagnetici era una cosa da nulla, ma era tutto ciò che potevo mostrargli, senza svelare la mia natura aliena. Quell’ennesima menzogna era come una spina piantata nel mio petto. Avrei voluto rivelargli tutta la verità, ma gli esseri umani non erano pronti per venire a conoscenza di vita extra terrestre. Mi avrebbe considerata un mostro, un essere immondo e non avrei mai potuto sopportare nulla del genere, non da parte sua.
    Allo stesso tempo, però, volevo che comprendesse che potevo fare qualcosa per aiutare lui e i suoi compagni, “volevo” farlo e l’unico modo per convincerlo, era mostrargli, a viso aperto, senza sotterfugi, una parte del mio potere.
    Ero delusa, quasi rassegnata dalla piega che gli eventi avevano preso. Quando mi aveva puntato una pistola addosso, avevo perso ogni speranza. In quel momento, come dei flashback non desiderati, i ricordi della notte appena trascorsa tra le sue braccia forti, beandomi dei suoi baci roventi e delle sue mani avide, mi avevano schiaffeggiato in pieno viso, ricordandomi che lui era pur sempre un pirata. Forse adesso si era dedicato ad una causa per lui “nobile” e si era votato a un Credo che non conoscevo, ma la sua anima diffidente e sospettosa era sempre dietro l’angolo, a distruggere quel minuscolo sentimento che riuscivamo a costruire con tanta fatica.
    Poi, avevo notato un cedimento, come se ciò che dicesse avesse delle discrepanze con i suoi pensieri e con le sue emozioni. Mi stava facendo davvero impazzire con i suoi alti e bassi, con il suo atteggiamento scostante e non ero più in grado di affrontarlo. Solo per questo avevo deciso di dargli un’ultima occasione, l’ennesima possibilità di credere in me, di fidarsi… dopo di ché avrei gettato la spugna. O almeno glie lo avrei fatto credere.
    “Posso aiutarvi, voglio aiutare i tuoi compagni perché ho a cuore unicamente il tuo destino. Ma sono stanca di combattere contro la tua diffidenza caparbia. Se continuerai su questa strada me ne andrò, per sempre questa volta, e tu non potrai fermarmi!”
    Ero una donna testarda di natura. Con quella mia frase “definitiva”, con l’ultimatum che gli avevo lanciato, avrei finalmente capito cosa lui voleva da me, cosa provava per me, e se la sua “causa” e i suoi “ideali” si sarebbero potuti piegare per potermi concedere un pizzico di fiducia. Avevo messo in discussione le mie relazioni e le mie alleanze per salvarlo, solo per poterlo rivedere vivo, ancora una volta tra le mie braccia, e lui doveva capirlo. DOVEVA!
    Non avrei mollato tanto facilmente, ma non ero neppure tanto stupida e autolesionista da incaponirmi e combattere contro i mulini a vento. Non avrei lasciato, però, nulla di intentato.
    Il dubbio si dipinse sul suo volto e lo stravolse, per poi essere attraversato da una cascata di emozioni che non riuscii a decifrare distintamente. Era combattuto, contrariato, dubbioso, ma anche sollevato, euforico, felice? Una scintilla di speranza si accese nel mio cuore, forse avevo davvero fatto breccia, forse… ce l’avevo fatta a perforare la sua naturale corazza di sospetto.
    Non attesi oltre… non volevo che quella piccolissima e fragile vittoria sfumasse via tra le mie dita, senza che potessi fare nulla per impedirlo. Mi avvicinai a lui e gli sfiorai una mano con delicatezza, anche se avrei voluto stringerla con tutte le forze per non lasciarlo più andare. “Ti prego Edward, fidati di me! Devi farlo!”
    “No, non andartene. Resta con me...” Le sue parole furono panacea per i miei sensi e per la mia anima.
    “Non ti avrei mai lasciato, stupido di un pirata!” pensai con una gioia immensa che mi invadeva fin nel profondo. Non era ancora il momento di rivelarglielo a voce alta.
    […]
    La nave era entrata nel porto quando degli enormi nuvoloni neri carichi di energia elettrostatica e di pioggia avevano ormai raggiunto le nostre teste. Percepivo l’arrivo di un temporale epocale e per la prima volta sperai che ritardasse ancora un po’. Di solito adoravo bearmi della carezza dell’acqua sulla pelle e traevo forza dalle scariche elettriche che si schiantavano sulla terra. In quel momento, però, desideravo che ci desse un po’ di tregua, per consentirci di raggiungere la nostra meta finale.
    Tatch era stato davvero gentile nel rifornirci di acqua e pochi viveri di cui avevamo bisogno durante il viaggio che avremmo dovuto affrontare per raggiungere il covo a Tulum, anche se ero certa che non avremmo avuto tempo per mangiare. Ci saremmo mossi a piedi e seguendo sentieri poco battuti. Il tempo a nostra disposizione era troppo breve.
    Non appena ci addentrammo nel fitto della foresta, una possente pioggia si abbatté su di noi e in pochi secondi eravamo fradici fin dentro le ossa. Pensavamo che la folta vegetazione ci avrebbe protetti, ma sembrava che l’intero cielo si fosse riversato sul nostro cammino.
    Arrancavamo come potevamo, ma sempre a passo spedito, nonostante la visibilità fosse pessima e il terreno si fosse trasformato in una fanghiglia scivolosa e insidiosa.
    Da quando eravamo partiti, Edward non aveva mai lasciato la mia mano. Procedevano l’uno di fianco all’altro, mantenendo la stessa andatura. Molto probabilmente lui si era adeguato alla mia, ma solo perché lui aveva le gambe più lunghe. Grazie al mio addestramento ero allenata e rapida come nessun’altra donna avrebbe potuto essere. Conoscevamo alla perfezione le scorciatoie e i sentieri secondari che ci avrebbero portato al covo il più in fretta possibile.
    All’improvviso sentii il terreno franare sotto i miei piedi e scivolai verso il basso, ma la mia discesa si bloccò di schianto: Edward mi aveva afferrata per il polso e non mi aveva lasciata cadere in un burrone improvvisato che si era formato a causa di un piccolo smottamento dovuto alla pioggia abbondante.
    Con una mano si stava reggendo a un ramo basso di un albero vicino a lui e con l’altra mi sosteneva.
    “Tieni duro, Alice. Ti tiro su. Prova a fare leva su qualcosa di solido sotto i tuoi piedi. Qualche roccia o radice scoperta” mi urlò per sovrastare il frastuono del temporale.
    Io mi aggrappai al suo braccio con entrambe le mani. La terra sotto di me era scivolosa e viscida e ogni volta che tentavo di fare forza sulle ginocchia, puntualmente perdevo il punto d’appoggio.
    “Qui frana tutto…” dissi con voce strozzata. Non avevo altra scelta. Dovevo usare di nuovo i miei poteri.
    Staccai una mano dalla presa ferrea di Edward e feci un gesto rotatorio per me ormai familiare.
    “Cosa stai facendo, Alice. Così rischi di cadere. Ti sto perdendo…” Il suo tono era disperato e quasi mi artigliò il braccio con le unghie per non farmi scivolare giù. Io, nel frattempo, avevo creato un campo magnetico che mi aiutò a sollevarmi e accompagnai il movimento ascendente di Edward che mi tirava nella sua direzione. Fu tutto naturale e fluido, ma quando gli fui vicina, mi attrasse a sé con forza e mi abbracciò. L’incanto del mio potere si spezzò e cademmo all’indietro. Io, con il volto sul suo petto, lui con il respiro impazzito sotto la mia guancia.
    “Lo hai fatto di nuovo, vero?” mi chiese con il sollievo nella voce. C’era stupore, ma non disprezzo.
    “Avevi decisamente bisogno di un aiutino!” dissi sorridendo nascosta dal suo giaccone. Lui mi strinse più forte.
    “Ho creduto di perderti, stavi scivolando giù…” disse con un tono flebile.
    “Non è successo! So che non mi avresti lasciata andare per nessun motivo. A costo di venirmi dietro…” risposi di getto. Temetti di aver detto troppo. Ne ero davvero sicura? Lo avrebbe fatto? Una vocina interiore mi rispose positivamente.
    “Adesso andiamo!” La sua voce, adesso più brusca mi riportò alla realtà. “Non abbiamo molto tempo. Stai bene?” aggiunse un po’ più dolce.
    “Sì, tutto ok! Meglio se ci muoviamo!”
    […]
    Dopo circa un paio d’ore iniziai a percepire l’essenza gioviana. Il nostro sito era vicinissimo e potevamo ormai considerare concluso il nostro viaggio.
    “Siamo arrivati” disse Edward, leggendomi nel pensiero. Una struttura in pietra era ben celata dalla vegetazione e lui si mosse con sicurezza in cerca dell’entrata. “A breve avremo visite. C’è sempre una sentinella di guardia. Stai attenta. Non sarà facile spiegare la tua presenza, ma ci proveremo.”
    Non ebbi il tempo di replicare che scorgemmo una figura minacciosa che si parava di fronte all’ingresso e ci puntava con una sciabola.
    “Chi siete!” chiese senza chiedere. Era un ragazzo, non adolescente, ma neppure tanto maturo.
    “Sono il capitano Edward Kenway. Ho un messaggio per il nostro mentore Ah Tabai. È molto urgente!” rispose Edward, con una punta di impazienza nella voce.
    “Parola d’ordine!” ribatté l’altro, una volta intuito che potesse trattarsi di un “fratello”.
    “Eagle” Non aveva esitato. Era evidente che per lui era naturale e che aveva fatto visita al covo molto spesso.
    “Lei chi è?” chiese la sentinella riferendosi a me.
    “È con me” rispose laconico Edward. Sentivo che stava innervosendosi sempre più. Non c’era più tempo! Se i Templari non erano già arrivati, sarebbero stati qui a brevissimo. “Senti, non ho tempo per queste ‘formalità’. Fammi passare, subito! Il Mentore deve sapere che stiamo per essere attaccati!” Non era neppure pensabile un rifiuto da parte della giovane guardia. Infatti, si mise da parte e ci lasciò campo libero per entrare nella struttura.
    Edward mi prese per mano e mi condusse dai suoi compagni.
    Avevo incontrato Ah Tabai, anche se non in circostanze molto felici. Avrei dovuto considerare lui e tutti gli altri dei nemici, ma in quel momento non me ne fregava nulla. Volevo solo che Edward riuscisse ad aiutare i suoi. Lo volevo con tutto il cuore.
    “Chi non muore si rivede…” disse il Mentore, quando mi vide al fianco di Edward. Era stupito, non poteva negarlo, ma non voleva renderlo palese. Era più invecchiato rispetto a quando lo avevo conosciuto, ma non aveva perso la sua possanza e la sua presenza di spirito. Era chiaro che tutti gli Assassini in quella stanza pendevano dalle sue labbra e che a un suo ordine avrebbero fatto di tutto. Per lui, per la Causa, per il Credo.
    “Ne è passato di tempo…” La mia voce era più sicura di quanto mi aspettassi.
    “Per me di sicuro, ma non si potrebbe dire lo stesso per te, Miss Morgan. Sei sempre bellissima!” rispose caustico e non era sua intenzione farmi un complimento, ma solo sottolineare che su di me “il tempo non aveva agito”. Era impossibile non notarlo.
    La situazione in cui mi trovavo non era delle migliori. Ero praticamente nella tana del lupo e mi ero consegnata di mia sponte con un unico scudo a proteggermi: Edward.
    “Mentore, ci sarà tempo per festeggiare la rimpatriata. Non abbiamo tempo. I Templari hanno scoperto questo posto e stanno venendo per distruggerci. Saranno già nei dintorni. Sono partiti molto prima di noi.” Edward era agitato per troppi motivi: l’attacco dei nemici, sì, ma non solo… la mia presenza lo metteva in allarme. Non sapeva come avrebbero reagito i suoi.
    “E come lo hai saputo? Tramite lei?” Di nuovo all’attacco.
    Adéwalé, colui che era stato il braccio destro del capitano Kenway, si avvicinò a noi e parlando verso il suo ex comandante si intromise con impeto:
    “Come stai? Abbiamo saputo che ti hanno fatto prigioniero” E mentre parlava lo guardava con apprensione come se volesse valutare le sue condizioni.
    “Diciamo che non mi hanno riservato un trattamento da ospite, ma me la sono cavata e solo grazie a lei…” disse indicandomi. “Mi hanno torturato per giorni, ma ovviamente non ho parlato. Poi, è arrivata lei e… mi ha tirato fuori da quel buco schifoso!” Sentivo nella sua voce un’emozione strana, quasi non credesse neppure lui a quello che stava dicendo. “Mentre fuggivamo ho scoperto che quei maledetti avevano trovato il covo e che erano partiti per raggiungerci. Così sono venuto prima che ho potuto. Non abbiamo molto tempo!” Era esasperato e l’urgenza colorava il suo dire.
    Un fischio prolungato proveniente dall’esterno, interruppe la conversazione.
    “Hanno dato l’allarme. Andate fuori, organizzate la difesa. Mandate due uomini in ricognizione e fatemi sapere in che situazione ci troviamo. Dobbiamo sapere quanto sono vicini!” aveva ordinato con fermezza il loro Mentore. “Voi restate qui!” si rivolse a noi, risoluto.
    Una volta rimasti da soli riprese la parola. “Ti fidi di lei? È una nostra nemica!” affermò un incredulo Ah Tabai. Il disprezzo era palese.
    “Mi ha salvato la vita, ha messo in pericolo la sua alleanza e la sua stessa persona per aiutarmi. E… non posso ignorarlo! Garantisco io per lei!” Non aveva fatto cenno ai miei poteri né alla “strana” relazione che ci legava. Quello che lui sapeva, dopo tante resistenze lo aveva convinto, grazie anche al sentimento “strano” che provava per me. Ma tutti gli altri non avrebbero fatto lo stesso. Per loro avrei potuto benissimo essere tutta una montatura per stanarli. E non li biasimavo per il loro scetticismo.
    “Ascoltami. Non c’è molto tempo per discutere di tutto questo. Un esercito sta per attaccarvi. Dovete tenervi pronti! Da parte mia ti posso solo dire che, a conferma delle parole di Edward, io non sono qui per danneggiarvi, tutt’altro! Posso aiutarvi!”
    Il Capitano mi guardò intensamente e sperava che le mie parole potessero far breccia nella sfiducia del suo Mentore.
    “Mi dispiace, ma non sarò così sprovveduto. Tu resterai nelle nostre celle, lontana da noi e dalla battaglia! Non ho il tempo né la possibilità di starti dietro per tenerti d’occhio. Abbiamo altro a cui pensare!” Era stato perentorio.
    ”Ascoltala… ha delle capacità fuori dal comune…”
    "Non voglio sentire ragioni. Non mi fido di lei!” Chiamò un suo uomo per farmi scortare nelle prigioni… Edward mi fissò con sguardo truce. Non poteva fare nulla per me e io non glie ne facevo una colpa.
    “Facciamo come dice, lo capisco!” gli dissi per tranquillizzarlo e fargli capire che non lo ritenevo responsabile. Ero stata io a decidere di rischiare, di mettermi in quella situazione molto più che rischiosa. In realtà, avevo un piano in mente e per il momento mi conveniva essere accondiscendente. Il mio Capitano mi sfiorò una mano, prima che l’altro Assassino mi prendesse per un braccio per condurmi in cella.
    […]
    L’ansia mi stava distruggendo e attesi una buona mezzora rinchiusa tra quelle quattro mura umide, prima che l’uomo che mi sorvegliava decidesse di andare all’esterno e combattere. Non ce la faceva più a restarsene lì impalato, senza far nulla. I suoi fratelli avevano bisogno di lui. Mi guardò minaccioso.
    “Non fare scherzi! O non vedrai la luce del nuovo giorno!” mi sputò contro, torvo.
    “Che cosa potrei mai fare rinchiusa qui dentro!?” risposi mostrando platealmente il luogo in cui mi trovavo.
    Una volta rimasta sola, appoggiai le mani sulla serratura in ferro delle grate e infusi il mio potere. Sciolsi letteralmente il metallo e la mia prigione si aprì. Mi mossi senza guardarmi indietro, ma il mio obiettivo non era la fuga, al contrario, dovevo andare a vedere come si stava svolgendo la battaglia. Avevo il cuore racchiuso in una morsa al pensiero che Edward stesse combattendo contro un esercito, in netta inferiorità numerica. Non avevano scampo. Nessuno sarebbe sopravvissuto. Dovevo andare da lui. Attraversai il corridoio di corsa e svoltato l’angolo andai a sbattere contro un muro di carne e ossa. Barcollai, presa alla sprovvista e una mano forte mi afferrò in tempo per non farmi cadere.
    “Che fai qui? Pensavo fossi fuori a combattere!” domandai incredula, di fronte ad Edward.
    “Stavo venendo a prenderti. Come hai fatto ad uscire?” Ma si pentì quasi subito, trovando nella sua mente una risposta. “Ancora i tuoi trucchetti? Allora è un vizio!?” Altre domande retoriche.
    Sorrisi per confermare la sua intuizione.
    “Sono ‘poteri’ non ‘trucchetti’” lo ammonii bonariamente. “Non potevo lasciarti là a combattere senza di me. Sono in troppi” risposi di getto.
    “Quindi non stavi fuggendo via da qui, da me…” disse sollevato.
    “La smetti di fare domande stupide?! Adesso andiamo; i tuoi compagni non avranno tante chance. Tu vai avanti, noi ci dividiamo, non posso mostrarmi apertamente in combattimento. Vi darò una mano, ma starò in disparte. Ok?” Avevo ben in mente una strategia, ma non potevo farlo sotto gli occhi di tutti, tanto meno dinnanzi a Edward. Non avrei messo su un semplice “spettacolino” questa volta.
    Edward era riluttante, lo percepivo, ma dopo un po’ di resistenza, riuscii a convincerlo. Non c’era tempo!
    Una volta all’esterno ci separammo. Una cascata di pioggia mi schiaffeggiò in pieno viso e colpì le mie spalle e la mia schiena. Tuoni e fulmini falciavano il cielo e i timpani. Il fragore del temporale era assordante.
    Mi mossi in fretta e potei scorgere il furore dello scontro che si stava dipanando sotto i miei occhi. Mi si mozzò il respiro. Non avrebbero retto a lungo. Gli Assassini stavano affrontando i Templari senza esclusione di colpi. I corpo e corpo erano brutali e feroci. Solo la prima linea dei nemici era giunta a destinazione e i Fratelli stavano reggendo bene, ma il resto dell’esercito stava raggiungendo il luogo della battaglia e a quel punto sarebbero stati spacciati.
    Mi spostai in una minuscola radura dietro una macchia di vegetazione, avevo bisogno di un contatto diretto e visivo con il cielo plumbeo e tetro. Sollevai entrambe le braccia e con tutta la concentrazione di cui ero capace, creai una profonda connessione con i campi elettrostatici che si erano generati dai fulmini che saettavano e iniziai a sentirli dentro.
    Io sono energia, io sono elettricità, io sono folgore. Sentii la punta delle dita sfrigolare e le iridi scomparire dalle orbite. Il bianco prevaleva e invadeva i miei occhi. Con tutta la forza di cui ero capace, convogliai l’immensa energia elettrica incamerata e la diressi sul piccolo esercito, che imperterrito marciava per raggiungere i propri alleati e i propri avversari, che già combattevano. Una tempesta di saette si abbatté sui Templari.
    Ad occhi profani sarebbe potuto sembrare un maledetto e terribile tempesta di fulmini, ma io sapevo che era il mio potere che stava falciando i miei stessi alleati, uomini che avevano ucciso barbaramente; che avevano fatto della missione che gli avevo affidato una diatriba di fazione e che aveva portato a una faida senza fine. Era tutta colpa mia…
    Non volevo pensare, non volevo analizzare adesso le mie colpe e le mie ragioni. Un’unica immagine mi si parò nella mente a testimonianza del motivo che mi spingeva a fare tutto ciò: Edward Kenway. In quel momento, volevo solo che lui continuasse ad esistere, volevo che restasse vivo per abbracciarmi e per stare al mio fianco, questa volta senza sotterfugi, né segreti.
    Scorsi in lontananza gli Assassini combattere con vigore e senza risparmiarsi. Stavano per avere la meglio sui nemici della prima linea. Il resto dei templari era decimato e solo qualcuno ne era venuto fuori ferito e ormai impossibilitato a lottare.
    Avevo svolto il mio compito. Abbassai le braccia, stremata… le iridi verde brillante tornarono a colorare i miei occhi. La tempesta continuava ad infuriare, ma ora indipendente dal mio controllo.
    Non riuscivo a individuare Edward tra gli ultimi combattimenti, ma sapevo che era nella mischia, non era il tipo da rimanere in disparte… Mi mossi in direzione degli scontri con la ferma intenzione di cercarlo, quando poco distante, sul mio cammino, incontrai il suo sguardo blu mare tinto di incredulità. La bocca leggermente aperta. Era immobile e mi fissava.
    “Oh no! Ha visto tutto!”


    Edited by The Bla¢k Wit¢h¸ - 2/8/2020, 16:03
     
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    Avevo corso senza tregua, trascurando i miei bisogni, ignorando ogni precauzione, teso fino all'ultimo per questa missione: evitare un attacco devastante verso i miei fratelli. Avevamo cercato di recuperare non giorni, e neanche ore, ma secondi, per portare la notizia il prima possibile. Ne avevamo sprecati a discutere su Alice: Ah Tabai non mi aveva creduto, era rimasto fermo sulle sue decisioni, ma non mi offendevo per questo. I suoi sospetti erano fondati, a lungo anche io la avevo pensata come lui.
    Alice era stata imprigionata, dove non avrebbe potuto intervenire né a nostro favore, né contro. Purtroppo avevamo bisogno di ogni più piccolo aiuto, per questo ero andato a liberarla, disobbedendo al mentore. Resistendo inoltre alla paura che potesse rimanere ferita.
    Mentre la lasciavo in un luogo sicuro, dove gli scontri non sarebbero arrivati, udii i fischi acuti della sentinella a guardia del Covo, un'antica costruzione indigena costruita a vari livelli quasi al limitare della foresta, un baluardo per proteggere l'accesso ad una gola, stretta e profonda, alla fine della quale, seminascosto dalla vegetazione, c'era un portone antico e misterioso.
    Non avevo tempo di raggiungere il piazzale dove stavano sopraggiungendo i Templari. Individuai un cumulo di frasche e mi lanciai, le braccia aperte per controllare la rapida caduta, il suolo che si avvicinava velocemente. I miei fratelli erano appostati dietro ad angoli e feritoie, per colpire a distanza gli aggressori, ma la pioggia spessa e battente impediva di mirare con efficacia e smorzava la potenza del colpo. Per fortuna, l'acqua rovinava anche gli inneschi delle armi da fuoco. L'unica arma utile erano le mie amate lame, quelle celate e quelle affilate di spade e coltelli.
    Colsi di sorpresa un Templare mezzo stordito dagli scrosci torrenziali a meno di un passo da dove ero acquattato. Raggiunsi il suo cuore perforando la schiena, passando sotto le costole.
    Nella mischia impari che infuriava nessuno si accorse di me, ma bramavo lo scontro più di qualsiasi tattica. Sguainai la sciabola e la spada corta e mi gettai nell'azione senza tanti riflessioni. Combattevo e contrattaccavo solo usando l'istinto, senza quasi fare attenzione a cosa colpivo. Carne, tendini, protezioni, acqua. Ma quanti erano? Gli Assassini, compresi me, Adéwalé e Ah Tabai non superavano la dozzina. Gli attaccanti molti di più, oltre il doppio. Avevamo il vantaggio di conoscere il posto e di essere addestrati, ma questo non sarebbe stato sufficiente. I nemici sbucavano in continuo. Erano troppi.
    Riuscii a individuare il comandante degli aggressori. Ai suoi piedi il corpo di uno dei nostri, una recluta inesperta. Avevo il fiatone, respiravo aria e acqua, sembrava di combattere non sulla terraferma ma in mezzo ad un mare agitato. Urlai il suo nome sopra il frastuono. Quando mi vide, strinse gli occhi a fessure, e fece una smorfia a metà fra la sorpresa e il disappunto.
    “Siete il diavolo che si dice siate, maledizione! Neanche le catene e le torture vi indeboliscono!”
    Rogers puntò la sua lama verso di me, poi si mosse velocemente per assalirmi. Mi spostai con altrettanta prontezza, anche se gli stivali affondavano nel terreno ormai diventato un ammasso fangoso, calpestato e rivoltato quasi fosse arato. Lo colpii con una stoccata contro tempo, badando di non mettere un piede in fallo e di controllare l'arrivo di altri uomini a dare manforte. Quasi lo avessi evocato, il babbeo fu così stupido da urlare nell'aggredirmi alle spalle. Mi girai serpentino, bloccando l'attacco con le lame incrociate della sciabola e della spada corta. La parata sbilanciò l'incapace, e misi fine alla sua esistenza inutile aprendogli la pancia con un fendente. Balzai indietro per evitare Rogers, che mi era quasi addosso. Non c'erano emozioni sul suo viso, solo una fermezza feroce. Era un ottimo avversario, mi mise in difficoltà in più occasioni. Stavamo combattendo in una condizione quasi impossibile, ma nessuno dei due era disposto ad arrendersi.
    Per schivare un attacco scivolai all'indietro, e il Templare riuscì a procurarmi un taglio abbastanza profondo alla coscia. Il mio urlo divenne un ringhio di rabbia. Mi sottrassi al colpo mortale successivo solo rotolando nel fango e aggrappandomi ad una radice per rimettermi velocemente in piedi. Avevo i polmoni che sembravano sotto una pressa, tanto la fatica di usarli.
    L'acqua che inzuppava tutto rallentava e appesantiva i movimenti. Lo sapevamo entrambi: solo io o lui avremmo rivisto il giorno dopo. O forse nessuno.
    Senza che alcun sibilo preannunciasse nulla, dalla strada di accesso arrivarono delle frecce. Due si conficcarono nel terreno davanti ai miei piedi, una mi passò davanti al petto, ondeggiando e vibrando a causa della pioggia che le aveva fatto cambiare traiettoria. Mi girai per un secondo verso la minaccia prima di buttarmi dietro un cespuglio. Un gruppo numeroso di soldati si stava disponendo sulla strada per impedirci la fuga ed avere un posizione strategica migliore. Rogers era trionfante.
    “Finalmente, la guarnigione del Re! Siete spacciati!”
    Cadde giù una nuova raffica di frecce e si alzarono lamenti e grida strozzate. Cercai di nascondermi in un punto in cui la vegetazione offriva un riparo. Una freccia strisciò lungo la copertura dell'avambraccio, deviandola dalla mia testa, mentre un'altra passò sopra la schiena. Imprecai, sputando acqua. Attraverso le foglie scure vedevo Rogers a pochi passi da me, immobile per evitare di essere colpito dai suoi subordinati.
    I fulmini accompagnavano il temporale e lo schianto secco dei tuoni era l'unica cosa che sovrastava il fragore della pioggia. Ero in una posizione inadeguata: non potevo uscire allo scoperto per evitare di essere bersagliato, ma se avessi atteso oltre, i soldati sarebbero piombati su di noi come un unico uomo. Eravamo condannati, a meno che non avessero perso il loro comandante, Rogers. Solo io ero alla sua portata, ma dovevo fare la scommessa più rischiosa di tutta la mia vita. Attaccarlo repentinamente e farlo fuori senza pietà. Tesi i muscoli per scattare, quando un lampo si schiantò vicinissimo, accecandomi. Alzai il braccio per ripararmi dalla luce intensa; i capelli si rizzarono in testa per l'energia sprigionata. Non era inusuale, specie con i temporali tropicali, che la furia si scaricasse in prossimità del suolo e di oggetti metallici. Fu strano non udire il fragore del tuono, mentre un altro lampo cadeva nello stesso punto del primo. Ne arrivò un altro, e altri ancora. Sempre nello stesso punto, vicino a noi, come se ci fosse un parafulmine che li attirasse. Quei lampi innaturali portavano distruzione e morte in mezzo agli invasori. Ero stupito: un intervento provvidenziale, possibile che...?
    Cercai di concentrarmi su ciò che era più importante: Rogers stava fissando annichilito i suoi uomini che finivano arrostiti dalle esplosioni e dagli incendi successivi. Colsi l'opportunità nella sua distrazione. Scattai fuori dal cespuglio, spiccai un balzo con le ultime energie che avevo, i muscoli che bruciavano per la stanchezza e le ferite. Piombai addosso al Templare, la lama celata sguainata a trapassargli il collo. La sua camicia bianca neanche si arrossò per il sangue che usciva a fiotti sempre più esigui, veniva lavato subito via. Mi trovai davanti Ah Tabai, profondamente incredulo.
    “Cosa sta succedendo? Quei lampi stanno annientando i nostri nemici, non si tratta di un temporale normale. Ho notato un bagliore sopra quella collina...”
    Corse su per il pendio, con me dietro. I fulmini continuavano a imperversare, demolendo ogni minaccia rimanente. I miei timori erano concentrati su un presentimento, un sospetto talmente insostenibile che non volevo formularlo. E se...?
    A pochi passi dal luogo sicuro dove mi ero separato da Alice, mi fermai incredulo e disorientato. La persona che stava scatenando il giudizio divino sui nostri nemici era ancora all'opera, il corpo teso verso il cielo pesante di nubi, le braccia alzate, il viso illuminato dal bagliore che nascondeva le iridi, le ciocche di capelli che danzavano agitate da un vento impercettibile. Se non avesse indossato gli abiti di Alice, non avrei scommesso uno scellino bucato sulla sua identità. Infine, il diluvio di fulmini cessò su quei disgraziati, e lei tornò ad essere... umana. Ma era corretta come definizione? Ah Tabai si fece avanti, con il passo incerto di chi ha appena assistito ad un miracolo.
    “Il dio Huracàn si è manifestato attraverso di te!”
    Mi morsi la lingua per non apostrofarlo malamente. Se avessi dato voce al mio stupore, di contro, lo avrei fatto solo con la furia. Il mentore si piazzò davanti a miss Morgan, attirando la sua attenzione. Si stava, a suo modo, scusando per il trattamento e la mancanza di fiducia che le aveva riservato. Era intimorito dalla manifestazione di potere a cui aveva assistito, ma la curiosità e il desiderio di ottenere risposte che cercava da anni, che probabilmente costituivano uno dei motivi che lo avevano fatto entrare nella Confraternita, non lo avrebbero fermato davanti a nulla, neanche ai rifiuti gentili che l'incarnazione del suo dio aveva provato a dare.
    Volle raggiungere immediatamente il tempio che gli Assassini custodivano da decenni. Scortò Alice con un'insistenza tale che pareva fosse ancora prigioniera, invece che trattata con rispetto. Le stava vicino, approfittando per raccontarle la storia del nostro conflitto e i valori che ci univano e guidavano, il nostro Credo. Era serio, persuasivo e coinvolgente. Io mi mantenevo silenzioso, un passo indietro, con il cappuccio fradicio tirato sul viso non per ripararmi dalla pioggia, ma dallo sguardo di tutti. Alice avrebbe aperto le spesse porte inviolate? Ero curioso di vedere, di capire. E contemporaneamente, sentivo che le scoperte che avrei avuto non sarebbero state indolori.
    Giunti al sito, ci riparammo nella rientranza dell'entrata. Lei era nervosa, sembrava si sentisse in trappola, premuta dalle attenzioni ostinate del mentore. Però non poteva tirarsi indietro, non ora che avevamo visto di cosa era davvero capace. Non ora che si era creato un filo di fiducia tra lei e gli Assassini grazie all'aiuto vitale che ci aveva appena dato. O il suo nervosismo aveva un'altra origine? Era forse combattuta perché avevo visto quali erano i suoi reali poteri? Si chiedeva cosa pensavo? Beh, che fossi dannato, non lo sapevo neppure io.
    Aveva il dono di guarire le ferite, far volare cose e persone, mantenere inalterato eternamente il suo aspetto e dispensare morte controllando a suo piacimento l'energia del temporale. Nel guardarla, mi tornavano alla mente le immagini di poco prima, dell'aura che la avvolgeva e la rendeva per nulla umana, ma terrificante.
    “Le porte sono sempre rimaste sigillate, probabilmente è necessaria una chiave, ma tu... puoi aprirle?”
    Alice mi guardava fisso, mordendosi un labbro. Respirai a fondo.
    “Mi hai detto che è un sito che hanno costruito i tuoi predecessori, cosa contiene davvero?”
    Le mie parole avevano vinto le sue resistenze. Per tutta risposta, posò il palmo su una tavoletta all'altezza del viso, attivandola. Una striscia di luce partì da quella e illuminò le porte, che si dischiusero prontamente. Alice entrò, seguita da Ah Tabai, emozionato e sorridente.
    “E' incredibile! Quanta grandiosità!”
    La sala era immensa, quasi occupasse l'intera montagna. I pilastri lisci e squadrati che si susseguivano fino alla fine dell'ambiente affondavano nell'oscurità. Le luci erano intense come il bagliore di mille candele, e si accendevano al nostro passaggio. Il salone era vuoto: cosa veniva custodito di tanto importante in quel tempio? Non capivo. Arrivammo alla fine della sala e imboccammo un corridoio più stretto ma uguale, a livello architettonico. La stanza successiva era più piccola, con un grosso piano di appoggio al centro e delle pareti scure ma lucide che riflettevano le nostre figure.
    “Eccoci. Questa è la sala di controllo del laboratorio. Molti degli strumenti sono stati portati via quando i nostri scienziati hanno abbandonato il pianeta, come qui, mentre in altri laboratori avevamo lasciato qualche strumentazione per esperimenti futuri, ma fu un errore...”
    Ah Tabai intervenne con un tono che sottendeva una velata critica, oltre che una chiara proposta.
    “E avete chiesto aiuto ai Templari perché li recuperassero... ma noi Assassini abbiamo custodito il vostro tempio senza permettere a nessuno di avvicinarsi. Noi possiamo continuare a farlo. Non siamo interessati al potere che esso contiene, non è il nostro scopo impadronircene. Vogliamo solo tenerlo lontano dalle mani di chi lo userebbe per rendere schiavi gli uomini. Uno dei nostri mentori più saggi, Altair, ebbe accesso ad una conoscenza infinita, che avrebbe traviato menti meno forti della sua, caratterizzata da un'immensa saggezza. Lui non ne fu corrotto e le sue gesta ispirano ancora oggi le nostre azioni”
    Alice ebbe un'espressione curiosa, a quel punto. Stava valutando la proposta di alleanza? Ma non riuscì a rispondere, perché il mentore riprese a parlare.
    “Da dove venite, dunque? Nella mia cultura si narrano leggende di divinità che visitarono la Terra, provenendo da altri mondi. Erano potenti e onniscienti, ma inaccessibili. Tu sei una di loro!”
    Ah Tabai non cedeva di un passo. Avrebbe avuto le sue risposte, in un modo o nell'altro. Alice lampeggiava il suo sguardo su di me, forse chiedendomi di intervenire per interrompere l'interrogatorio, ma non lo feci. Aspettavo anche io le risposte, per quanto amare sarebbero state.
    “Alice...”
    Il tono significava che da me non avrebbe avuto nessun aiuto ma anzi, era ormai il tempo di rivelare quello che aveva nascosto. Dopo qualche secondo, alzò il mento e parlò con voce chiara.
    “Le leggende sono fatti raccontati un numero infinito di volte. Anche se la forma cambia, il fondo di verità rimane. Non siamo dei, ma abitiamo un pianeta lontano da qui: Giove”
    Si sfregò la fronte con i polpastrelli, forse per studiare le nostre reazioni, ma io e il mentore sembravamo due statue. Con una pozza di acqua che si formava in mezzo ai piedi, ma non muovevamo un muscolo. Assetato di verità e conoscenza uno, irrigidito dal disorientamento l'altro.
    “Siamo arrivati per studiare il vostro pianeta secoli fa, spinti dalla curiosità, ma non potevamo entrare in contatto con il vostro popolo, le nostre leggi non ce lo consentono, neanche ora...”
    Ah Tabai seguiva facilmente il filo del discorso. Annuì rapito.
    “Le vostre abilità sono incredibili, ma fatico a comprendere come avremmo reagito davanti alla vostra...” Cercava la parola che gli sfuggiva.
    “... tecnologia” Il tono di Alice era stanco e sempre più arreso.
    “Siete tutti così potenti?”
    “No, non tutti. Possediamo una vita molto più lunga rispetto alla vostra, ma i poteri che ho utilizzato sono una mia prerogativa. Un onore e un onere che spetta a chi ha il ruolo di guidare il suo popolo, di amministrare con equità la giustizia e combattere i nemici dell'Impero”
    Poteri incredibili, gente venuta dallo spazio che ci spiava come se fossimo delle scimmie ammaestrate. Ne sapevo abbastanza. Reagivo in un solo modo, quando dovevo affrontare qualcosa che non mi piaceva. Collera. Non mi andava bene scoprire che Alice mi aveva comunque nascosto molto di sé, anche quando esigeva un rapporto basato sulla fiducia da me.
    “Il mio vero nome non è Alice Morgan... ma Nike, Giudice Supremo di Giove”
    Mi guardava mentre pronunciava quelle parole, quasi mi avesse letto nel pensiero. E magari, sapeva fare anche quello! Girai i tacchi e mi diressi verso l'uscita, per non mettermi a urlare. Li piantai in asso. Li lasciai alle loro confidenze, a me non interessavano più.
    Uscito fuori, scoprii che il temporale stava finalmente cessando, lasciando liberi gli odori della foresta di terra bagnata e foglie fradice. Un tocco di normalità in un mondo che sembrava stravolto. La ferita alla coscia mi stava dando un fastidio maledetto, dovevo cercare Adéwalé per la medicazione e affogare i pensieri assurdi in una bottiglia di rum. Una sbornia era quello che ci voleva per zittire delusione e considerazioni amare.
    Alice... no, Nike, mi aveva fatto un bello scherzo. Cosa c'era di vero e reale in quello che sapevo di lei? Ero stanco e stufo di rincorrere una verità che non trovava mai un approdo. Anche se ero il re degli inganni e dei tradimenti, non mi accontentavo delle apparenze in questo caso. Un senso di estraneità e di lontananza mi stava bruciando le viscere al pari di un punteruolo incandescente. Non avrebbe mai potuto essere mia. Niente ci univa, tutto ci era contro.
    Decisi di tornare al Covo per lasciarmi dietro l'insoddisfazione, ma i miei piedi sembravano ancorati al suolo. Non riuscivo a muovere un passo, quasi cercassi di attraversare una barriera invisibile. Tornai indietro all'antro luminescente. In quella direzione, la barriera non esisteva. Percorsi a passi sempre più veloci e sicuri il tratto che avevo percorso pochi istanti prima. Non ero silenzioso nel mio incedere, ma risoluto, e ad ogni passo ogni dubbio si allontanava.
    Quella donna era meravigliosa, speciale, unica. Era riuscita a superare la diffidenza e il cinismo di cui mi compiacevo. Era tornata da me anche quando la avevo scacciata. Era stata una presenza luminosa nei miei ricordi per anni, anche se la vita e le mie scelte erano cambiate radicalmente più volte. Ma lei era qualcosa per me che non potevo abbandonare con facilità. E a cui non intendevo rinunciare neppure ora, quando fesserie come il suo luogo di nascita potevano ostacolarci. La volevo, volevo che fosse mia. Per capire quale incantesimo aveva usato per insediarsi nei miei desideri.
    Quando rientrai nella stanza Ah Tabai inarcò un sopracciglio, mentre Nike mi guardò fisso, studiandomi incerta. La luce illuminò i suoi occhi verdi, rendendoli più incredibili di uno smeraldo. Mi avvicinai sicuro a lei, la presi per mano e la strinsi. Fui insolente e maleducato come sempre, ma mi importava molto poco delle formalità, quando dovevo occuparmi di cose molto più pregnanti.
    “Ah Tabai, avrai tempo per le domande in un altro momento, dato che ci fermeremo per qualche giorno al Covo. Ma ora lei viene via con me”


    Edited by Illiana - 21/8/2020, 19:19
     
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    “Il mio vero nome non è Alice Morgan... ma Nike, Giudice Supremo di Giove” dissi con voce solenne e mi sentii come se un pesante fardello fosse scivolato via dal mio cuore, ma percepivo ancora un’oppressione costante sul petto che mi impediva di respirare liberamente. Finalmente avevo detto la verità, tutta la verità e non c’erano più altri segreti o menzogne da celare. Avevo parlato con Edward e non con il Mentore degli Assassini di fronte a me. Avevo apprezzato l’entusiasmo e la passione con le quali Ah Tabai mi aveva raccontato del loro lavoro a salvaguardia dei nostri manufatti. Le notizie che mi erano giunte da parte dei Templari erano inesatte e li dipingevano come vili predoni. Invece, potei rendermi conto del loro reale intento, dal quale ne avevano fatto una missione, un Credo. Ora potevo davvero iniziare a capire cosa aveva spinto Edward il pirata a modificare i suoi ideali e a diventare Edward l’Assassino. Era lui che fissavo dritto negli occhi e la sua reazione alla mia “rivelazione” mi gelò il sangue nel vene. Una lampo di collera attraversò il suo sguardo e poi se ne andò, o meglio fuggì dalla stanza, fuggì da me, come se non fosse in grado neppure di guardarmi in faccia senza impazzire. Ma io ero già pazza di lui, cosa avrei dovuto fare? Era stato un incubo mentire, nascondermi… e conquistare un briciolo della sua fiducia era stata un’impresa titanica. Sperai con tutta me stessa di non aver compresso quel labile legame che avevamo instaurato.
    Scoprire la mia vera natura in quel modo freddo e “indiretto”, quasi costretta, mi aveva ferita fin nel profondo, mi sentivo nuda e vulnerabile, nonostante Ah Tabai mi stesse praticamente venerando. Avrei voluto fare le cose in modo diverso e decidere io di raccontare la mia storia a tu per tu con chi doveva sapere, con chi meritava tutta la mia sincerità.
    Mentre mi arrovellavo su questi pensieri controversi, non riuscivo ad ascoltare le parole del Mentore che continuava a sproloquiare immerso nel suo ardore. Poi, vidi Edward spuntare dalla corridoio che aveva imboccato pochi minuti prima e mi portò con sé, rapì il mio corpo e il mio cuore.
    “Ah Tabai, avrai tempo per le domande in un altro momento, dato che ci fermeremo per qualche giorno al Covo. Ma ora lei viene via con me”
    Ed io… lo lasciai fare.
    Una volta all’esterno, percepii l’aria umida della foresta e la inspirai con forza. Lui non aveva spiccicato parola e aveva continuato a trascinarmi fino al Covo.
    Non salutò nessuno dei suoi compagni, né si intrattenne con loro per commentare la “grande vittoria” che gli Assassini avevano riportato sul nemico. I loro volti erano allibiti, mentre osservavano Edward, che come un toro inferocito camminava, portandosi al seguito una donna.
    Non appena fummo al sicuro da occhi indiscreti, dentro una camera da letto, spartana ma ordinata, si fermò e sprangò la porta con un chiavistello. Osservai le sue spalle larghe, fasciate dagli abiti da combattimento. Era sporco di fango e di sangue. Quando si voltò il suo sguardò mi trafisse e conteneva mille emozioni difficili da espugnare. Notai le escoriazioni dovute alla battaglia e la ferita da taglio alla coscia, che aveva inzuppato il pantalone fino alla caviglia.
    “Edward… sei ferit…” avevo iniziato a parlare, preoccupata, ma lui si avvicinò con un scatto felino, mi afferrò per un polso, mi guidò con ben poca grazia contro una parete di pietra levigata e… mi baciò. Senza delicatezza, senza riguardo decise di possedere la mia bocca con la stessa furia che lo aveva accompagnato in battaglia.
    Si fermò solo per un attimo per sussurrarmi in un orecchio.
    “Cosa vorresti fare? Curare le mie ferite, Strega? Anzi no, dovrei dire ‘Giudice Supremo di Giove’?” Mi sarei aspettata di riconoscere biasimo e collera nella sua voce, ma il suo timbro roco e sensuale mi raggiunse, sciogliendo ogni remora. Lui mi voleva ed io volevo lui. Agli appellativi avremmo pensato dopo. Gli avrei spiegato ogni cosa, ma in quel momento eravamo soli con il nostro desiderio, il nostro sentimento, il nostro “qualcosa” e non me lo sarei lasciato scappare.
    Mi prese in braccio ed io avvolsi le mie cosce tornite intorno alla sua vita. Profumava di sudore, di terra e di pioggia. Le sue labbra, però, erano morbide e iniziarono ad esplorare il mio collo, fino a che non mi ritrovai catapultata su un materasso, ricoperto da un lenzuolo di lino.
    Ci liberammo dagli indumenti con una destrezza e una rapidità che mi sconvolse e ritornammo ad avvinghiarci come se la nostra pelle e la nostra carne non potessero sopportare la lontananza dell’altro.
    Mentre ci donavamo anima e corpo, finalmente liberi dalla menzogna e dai segreti, dissi con un gemito: “Puoi chiamarmi semplicemente Nike…”
    “Mi farai impazzire prima o poi, lo sai?” mi disse, quasi disperato, ma avvolto dal piacere.
    “Lo so…” risposi mentre entrambi raggiungevamo la vetta di una montagna immaginaria e dopo attimi che parvero ore, atterrammo di nuovo tra le lenzuola.
    Non avevo mai provato simili sensazioni e la loro intensità mi destabilizzarono al punto da farmi irrigidire. Non avevo idea che il mio corpo, il mio cuore e la mia mente fossero in grado di abbandonarsi a emozioni tanto forti e ne rimasi sconvolta.
    “Cosa c’è? Stai bene?” mi chiese Edward premuroso. Aveva abbandonato la furia cieca della fiera e aveva lasciato il posto a un uomo che voleva sapere davvero cosa stesse provando la donna tra le sue braccia.
    “Sto bene… solo che… tutto questo è una cosa nuova per me…”
    Lui mi guardò quasi inorridito e poi parlò con fatica.
    “È la tua… prima volta?” Si spostò da un lato e continuava a fissarmi incredulo.
    In un primo momento, non avevo compreso l’implicazione di quella domanda, poi un’illuminazione portò un ricordo alla mia mente. In quel tempo, le donne tenevano molto a una virtù che chiamavano “verginità”. E la loro “prima volta” diventava una sorta di “caso di stato”, un evento importante e un fatto di onore. Qualcosa del genere. Sul mio pianeta non esisteva nulla del genere, i gioviani erano liberi di manifestare i propri sentimenti, al di là di tabù e stupide credenze. Nel mio caso, invece, il problema neppure si poneva in questi termini. Il Giudice Supremo era al pari di una sacerdotessa e votava tutto il suo essere alla causa. Avevo ceduto a passeggere infatuazioni, non ero fatta di pietra e i sentimenti erano proibiti per Legge, non erano banditi dal mio corpo. Ma non era mai stato minimamente paragonabile a tutto questo.
    “Non guardarmi come se fossi un’aliena!” ironizzai… ma non riuscii a strappargli un sorriso. Era mortalmente serio. “Volevo dire, sì, ho avuto alcune relazioni fugaci nel corso dei secoli, e ho pure sperimentato rapporti carnali, ma non è mai stato così… Non ho mai provato emozioni tanto forti.” Lo vidi rilassarsi impercettibilmente. Forse era sollevato di non aver rubato la mia virtù del tutto inconsapevole e sorrisi intenerita da quel suo strano atteggiamento.
    “Devi sapere che chi ricopre il mio ruolo non ha la possibilità di innamorarsi, non ha il permesso di provare sentimenti e di stare con un uomo/gioviano… una stupida tradizione me lo impedisce. Ho l’onore e l’onere di servire e proteggere il mio pianeta, dedicandomi totalmente ad esso. Dunque, capirai bene, che quanto è accaduto con te, qui, è tutta una follia!” dissi sperando di potergli fare comprendere quanto mi ero spinta oltre, quanto avevo rischiato e ancora rischiavo, solo per poter vivere l’amore che provavo per lui.
    “Mi sembra una grandissima stronzata!” rispose lui, con una vena di collera a colorare la sua voce. “E come hai fatto a incastrarti in una logica tanto perversa? Insomma, tu dai tutto al tuo pianeta e per i tuoi sudditi, ma non puoi fare nulla per te stessa? Mi sa tanto di fregatura!” continuava la sua arringa. Era chiaro che voleva tentare di comprendere il mio mondo e le sue tradizioni, ma appariva sempre più contrariato.
    “Nulla della mia vita è stata una scelta, Edward. Quando ero bambina, i tre sacerdoti hanno riconosciuto in me l’Eletta, colei che avrebbe guidato il popolo di Giove, e mi hanno strappato alla mia famiglia in tenera età. Sono cresciuta sotto la loro egida, studiando e preparandomi per ciò che sarei diventata.”
    “E noi? E tutto questo, allora?” chiese, rimanendo sulle spine.
    “Questa, invece, è una mia scelta. Tu sei una mia scelta. Sono andata contro ogni legge che regola la mia vita, ma cosa ci posso fare se mi hai rubato il cuore? Forse addirittura da quando eri un mocciosetto ribelle, arrabbiato con il mondo!”
    Lui non disse nulla, si limitò ad abbracciarmi e a farmi appoggiare la mia guancia al suo ampio torace. Ipnotizzata dall’intricato disegno dei suoi tatuaggi, pensai che nonostante tutti i guai che avrei potuto passare per le mie decisioni, non mi sarei mai pentita di essere lì in quel momento.
    “Adesso ti deciderai a farti curare?” gli chiesi con l’ironia a tingere la mia voce.
    […]
    Due giorni dopo la grande battaglia. Dopo aver dato onorevoli esequie e degne sepolture ai caduti, Ah Tabai aveva organizzato una sorta di banchetto in mio onore: "La dea venuta dallo spazio”. A nulla erano valse le mie repliche e le mi insistenze sul fatto che non fossi affatto una dea, ma solo un essere tanto diverso da lui e dai suoi simili. Edward non si era minimamente sforzato di darmi una mano, sembrava godesse della mia plateale irritazione e si godeva lo spettacolo con un sorrisino strafottente sulle labbra. Quella bocca… l’avevo baciata un milione di volte e assaporata insieme al resto del suo corpo per due lunghissimi giorni. Era una tentazione vivente e mi stupii di come, nei miei lunghi secoli di esistenza, nessuno mai mi avesse fatto lo stesso effetto. Era come una droga oppiacea, solo speravo che non rimanesse un’allucinazione e potesse diventare la mia realtà. Sapevo che sarei dovuta tornare al mio posto, ai miei doveri, ma avevo deciso di passare ancora un po’ di tempo con lui, per comprendere quanto in là mi sarei dovuta spingere, per comprendere quanto quel sentimento fosse forte al punto da portarmi ad agire in maniera sconsiderata.
    Lo amavo senza ombra di dubbio, io che non sapevo di essere in grado di poterlo fare. Io che non ne avevo nessuno diritto perché la mia vita era fatta di doveri e allora? Come risolvere quel dilemma?
    Erano giorni che mi assillavo in cerca di una soluzione. Non potevo venire meno ai miei obblighi di Giudice Supremo, ma al tempo stesso, non volevo rinunciare a lui, che mi aveva insegnato a respirare sul serio. Era come se prima lo facessi solo come gesto meccanico, dovuto per sopravvivere, ma adesso aveva un sapore diverso, un senso diverso: contava davvero e mi piaceva respirare insieme a lui.
    Edward si avvicinò a me con due calici in mano. Me ne porse uno, mentre udii da dietro le sue spalle delle voci sghignazzare. Lo prendevano in giro per il fatto che fosse ancora sobrio. Dicevano che una certa “donna” gli avesse fatto mettere la testa a posto! Lui si voltò nella loro direzione e li falciò con uno sguardo assassino e quelli ammutolirono.
    Poi mi guardò intensamente.
    “Cos’è quello sguardo triste?” mi chiese, concentrato su di me e tornando a ignorare i suoi amici.
    “Cosa volevano dire? È un onta per te essere ‘ancora’ sobrio ad una festa?” risposi sorridendo, tentando di sviare la sua domanda. Aveva notato il mio volto pensieroso. Non gli sfuggiva nulla.
    “Diciamo che è strano… Di solito sono più di compagnia, ma ho altri pensieri per la testa al momento” concluse la frase con voce roca e avvicinandosi al mio orecchio, sfiorandomi la pelle con il suo alito caldo. Rabbrividii. “Non cambiare argomento, Nike… a cosa pensi?” tornò alla carica.
    Sentirgli pronunciare il mio vero nome mi diede emozioni nascoste che quasi mi fecero sciogliere in lacrime. Non ero affatto il tipo che si abbandonava a pianti disperati, ma in quel momento, mi sentivo davvero disperata e anche una simile banalità, mi metteva in serio pericolo di cascate imminenti. Avrei dovuto lasciarlo e il mio cuore rischiava di spezzarsi in mille pezzi.
    “Andiamo fuori? Ho bisogno di una boccata d’aria…” gli dissi con un nodo in gola.
    Lui, senza esitare neppure un momento, mi prese per mano e mi scortò all’esterno.
    Una flebile luce al tramonto filtrava attraverso la fitta coltre di vegetazione e l’aria umida di pioggia mi fece rabbrividire.
    Edward mi abbracciò da dietro, non perdeva occasione per toccarmi, per starmi vicino, come se anche lui fosse drogato della mia pelle, tanto quanto io lo ero della sua. Lo sperai con tutta me stessa.
    “Io… devo andare, Edward. Devo tornare sul mio pianeta” dissi così, tutto d’un fiato.
    “Quando?” mi rispose lui con voce atona. Quasi fosse stato un altro a parlare.
    “Presto… Adesso! Non posso più aspettare.” Il mio tono era basso, ma deciso. Dovevo dimostrarmi convinta, almeno di fronte a lui, altrimenti avrei ceduto e non avrei mai trovato il coraggio di andare via.
    “Non puoi farlo! Non proprio adesso che ti ho ritrovata, che ti conosco davvero!” disse lui, voltandomi nella sua direzione per guardarmi negli occhi e tenendomi ancora per le spalle.
    “Ma ho degli obblighi e dei doveri verso il mio mondo. Non posso abbandonarlo!” risposi con la morte nel cuore.
    “Lo stesso mondo che ti ha costretta a non amare?! Che ti impedisce di provare sentimenti?! E adesso che hai trovato l’amore lo devi abbandonare per… loro?!” mi rispose caustico.
    “Non posso fare altrimenti… sono responsabile di tutti i gioviani! Allo stesso tempo non voglio perderti!” Il mio tono rischiò di spezzarsi.
    “Allora non andare. Resta con me!” mi chiese con una supplica nascosta.
    “Non posso… però… potrei tornare presto!” dissi mentre riflettevo frenetica. “Sul mio pianeta il tempo scorre molto più rapidamente rispetto alla Terra. Un anno solare terrestre corrisponde a dodici dei nostri…” Edward mi guardò allibito. Quasi non potesse concepire qualcosa di simile. Io, troppo presa dai miei conteggi, proseguii come un fiume in piena. “Quindi, pochi mesi qui sarebbero anni su Giove! Potresti resistere senza di me per un paio di mesi?” chiesi all’improvviso, eccitata come una bambina felice di ricevere un regalo.
    Edward stava ancora fissandomi, un po’ stordito. Non doveva essere semplice assimilare concetti tanto lontani dalla sua “normalità”.
    “E tu riusciresti a starmi lontana per anni?” chiese serio, mettendomi alla prova.
    “Sarà un inferno ogni singolo giorno e l’attesa di rivederti mi ucciderà, ma tu mi farai rinascere nel momento in cui mi terrai di nuovo tra le tue braccia!” dissi convinta. Non potevo tirarmi indietro di fronte al mio ruolo, ma avrei potuto anche trovare un compromesso. Ero felice che almeno lui, avrebbe sofferto meno “la distanza e il tempo”.
    “Suppongo di poterci provare…” rispose lui, abbracciandomi e stringendomi forse a sé. Era un chiaro segnale di appartenenza.
    “Questo è un patto! Promettimi che mi aspetterai” gli chiesi affondando il volto nell’incavo del suo collo.
    “Ho un onore da difendere. Sai benissimo che sono un uomo di parola!” mi risponde sorridendo tra i miei capelli.
    “Ti amo, Edward” affermai con un nodo in gola. Non volevo andare via senza avergli confessato apertamente il mio amore. Era la mia ennesima prima volta e mi sentii morire di tristezza al pensiero di doverlo lasciare. Lui non rispose, ma non mi importava. Se non avesse provato il mio stesso sentimento, nonostante le promesse che ci stavamo scambiando, allora sarei stata io ad amare per entrambi. Non ci avrei mai rinunciato.
    Lo guardai intensamente e poi lo baciai con impeto, per suggellare il nostro patto con il calore delle nostre bocche fuse. Una promessa indissolubile… Nessuno, neppure i sacerdoti del mio pianeta avrebbe potuto tenermi lontana da lui.


    Edited by The Bla¢k Wit¢h¸ - 23/8/2020, 19:50
     
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    Sussultai, risvegliandomi bruscamente. La testa mi girava furiosamente, la lingua sembrava un pezzo di tappeto sporco, gli occhi premevano contro le palpebre per schizzare via dalle orbite, le mani si muovevano al rallentatore, intorpidite come i miei pensieri. Mi ero addormentato – o meglio, avevo perso conoscenza – qualche ora prima, in un momento imprecisato della notte, abbandonato sul grande divano su cui passavo le mie giornate quando non ero in missione come Assassino. E adesso ero riverso su un tavolino poco distante, tutti i gingilli e gli oggetti lì appoggiati sparpagliati per la sala.
    Ma cosa avevo fatto?
    Un pensiero poco più che incuriosito transitò nel cervello, ma era abituale per me perdere il lume della ragione prima di quello della coscienza, quando ingurgitavo senza più sentirne il sapore due o tre bottiglie di rum per volta. Se avessi continuato con questo ritmo, avrei dovuto stivare la dispensa molto prima di quello che calcolavo.
    Il rumore appena distinguibile, nonostante il silenzio della notte e della casa in cui abitavo da solo, si ripeté: avevo quasi scordato la causa che mi aveva fatto tornare nel mondo dei vivi. Conoscevo a memoria ogni più piccolo fruscio della dimora e quello che avevo udito non apparteneva all'inventario noto.
    Il mio cervello era all'erta, un'abitudine ormai istintiva, ma la mia volontà in questi ultimi mesi si era un po' allentata, e gli istinti vitali rimbalzavano contro un muro di apatia. Avevo cominciato a tenere bassa la guardia e vedere fino a che punto la fortuna mi assisteva nel togliermi dal pericolo. Un gioco malsano, una disperazione serpeggiante.
    Per sfidare la sorte decisi che lo stato di intontimento che possedevo era più che sufficiente, se gli intrusi che si erano introdotti in casa mia erano bene armati e ben decisi e agguerriti. Non mi dispiaceva quasi il diversivo, spaccare qualche testa o infilzare qualche pancia poteva aiutarmi a sfogare un po' di malumore.
    Mi mossi silenzioso e felino sfruttando le ombre proiettate dai mobili grazie alla luna quasi piena nel cielo limpido. Avrei potuto benissimo avvicinarmi fino a sentire il loro puzzo di bastardi, dato che mi muovevo sicuro in un ambiente che conoscevo a memoria. Ma non mi sarei divertito, quindi quando fui sicuro che la presenza invadente era nel salone, mi alzai in piedi, la mano sul pugnale a lama ricurva che tenevo sempre con me. A breve, ci sarebbe stato qualcuno molto pentito di essersi introdotto furtivamente nel mio regno.
    Stavo per lanciarmi contro l'intruso, uno solo stranamente, quando la sua voce mi fermò. Rimasi fermo una frazione di secondo, poi imprecai: ”Adéwalé, maledizione, stavo per sbatterti fuori a calci!”
    Il mio ex quartiermastro rise divertito. ”E' così che accogli un vecchio amico che ti fa visita?”
    Feci un cenno infastidito, poi gli indicai le bottiglie ancora piene: ”Prendine una e spiegami il motivo per cui sei qui. Una nuova missione, immagino!”
    Scartabellai qualche secondo nei cassetti di una grossa credenza alla ricerca di candele nuove e dell'acciarino.
    ”Immagini giusto. Questa è anche più importante delle altre, Capitano. Ah Tabai ti ha scelto per le tue abilità in un certo campo”
    ”Sono sempre qui per il Mentore... di cosa si tratta? Un templare da fare fuori? Un governo da rovesciare?”
    ”No, qualcosa di più. Dobbiamo recuperare una reliquia”
    Il mio sguardo saettò verso di lui, improvvisamente molto più vigile e interessato.
    ”Per chi? Per i gioviani?”
    Dopo il salvataggio del Covo, il Mentore era riuscito ad ottenere qualcosa di determinante: la fiducia di Nike, e la promessa che saremmo diventati noi i suoi contatti di riferimento, per le questioni del suo pianeta qui sulla Terra. Pensieri che ancora oggi mi parevano strambi, prodigiosi, ma si trattava semplicemente di una guerra, e noi avevamo vinto una battaglia essenziale con quell'accordo.
    ”Non siamo certi, ma potrebbe essere. Tu hai più avuto notizie... di Nike?”
    Era un argomento delicato, lo sapeva bene Adéwalé, e per non approfondire il dolore acuto nel petto, risposi con voce atona.
    ”Prima o poi tornerà. Dove indicano gli indizi?”
    Mi grattai la guancia, dove la barba ispida e incolta mi cresceva da giorni. La sua esitazione prima di rispondermi mi parve strana.
    ”La mappa che abbiamo trovato tra gli averi sottratti ad un templare indica un punto preciso al largo dell'isola di Eleuthera...”
    Squadrai per qualche secondo il mio compagno, pensando ad uno scherzo. Ero un abile nuotatore, e avevo molta esperienza nelle immersioni, ma...
    ”Vuoi dirmi che in quelle acque infestate dagli squali si trova un tempio sommerso gioviano?”
    Allargò le mani a intendere quanto lo ritenesse improbabile ma non impossibile.
    ”L'unico modo per saperlo con certezza è armare la Jackdaw e andare a controllare, no?
    Sogghignai e buttai giù l'ultima golata di rum che mi bruciò le viscere senza portarmi altro conforto. Non sarei stato ancora ad aspettarla qui a Great Inagua, come eravamo d'accordo che avrei fatto; ormai cominciavo a pensare che sarebbe stato per tutta la vita. La sua poteva essere eterna, ma non la mia.
    Secondo quello che mi aveva spiegato, un mese qui corrispondeva ad un anno sul suo pianeta. E se non sbagliavo i conti, erano passati quasi vent'anni dei suoi. Io non avrei perso mai la speranza di rivederla, anche se mi aveva assicurato che sarebbe tornata da me dopo pochissimo tempo.
    Il silenzio assoluto, con me e con i suoi nuovi alleati era insopportabile e mostruoso, insinuante di ogni cosa che poteva andare storta. Avevo immaginato ogni eventualità, nessuna benigna o futile, ma una mi rifiutavo di considerarla: che aveva cambiato idea, che non mi amava più. Quella convinzione rimaneva l'unica che mi faceva sperare di poterla rivedere, che mi permetteva di sopportare ogni singolo giorno. A modo mio.
    (...)
    Feci buttare giù dalla tolda i barili vuoti, che sarebbero stati la mia riserva di aria in caso di emergenza. L'oceano era calmo e sereno, ma nonostante questo, nel punto indicato dalla mappa, non riuscivo a intravvedere nulla che potesse corrispondere ad una struttura sommersa. In compenso, non vedevo traccia neanche degli esemplari più pericolosi che abitavano queste acque perciò, dopo aver preso un'abbondante boccata d'aria, mi tuffai, con solo i pantaloni e il mio pugnale assicurato alla fascia in vita. Nuotai con energia, prendendo nota mentalmente della posizione dei barili e scesi verso il fondale, talmente distante da essere scarsamente visibile.
    La pressione alle orecchie aumentava ad ogni bracciata, avvertendomi della profondità crescente. Erano diversi minuti che nuotavo in apnea e i polmoni, anche se abituati, non avrebbero retto all'infinito. Ostinato, continuai a scendere, quando intravvidi un profilo squadrato, non certo naturale, emergere dalla semioscurità. Avevo trovato il tempio sommerso.
    Con un colpo di reni e l'ultima aria che usciva a bollicine dalle labbra, raggiunsi le mura del sito. Erano immense e massicce. Mi infilai in un'apertura squadrata, che poteva essere una porta o una finestra, scommettendo sulla probabilità che avrei trovato uno sbocco invece che un vicolo cieco. Pochi secondi ancora e si sarebbero manifestati i primi effetti della mancanza di ossigeno sulle mie percezioni e sulla forza corporea. Inoltrandomi sempre più, notavo automaticamente sulle pareti strani simboli geometrici e luminescenti.
    Il cuore pulsava più velocemente e il bisogno istintivo di aprire la bocca per respirare era impellente. Nuotare stava diventando difficoltoso. Il tempo sembrava dilatarsi. Calcolavo di avere ancora pochi secondi di coscienza prima di perderla e a quel punto...
    Mi fermai per centellinare le ultime energie, esaminando l'ambiente invaso dalla vegetazione marina e dai coralli. Avevo scorto un baluginio sopra la testa, là dove intravvedevo dei gradini? Era l'ultima scommessa: agitai le gambe per risalire, seguendo la scala che saliva, e inspirai avido e riconoscente la boccata d'aria che mi aveva salvato.
    Dopo qualche minuto per far riprendere al mio cuore un ritmo accettabile, mi trascinai fuori dall'acqua, me la scrollai di dosso, e risalii la scala, osservando rapito il luogo raggiunto. Non avevo alcun dubbio che fosse il tempio perduto che stavamo cercando: le pareti erano ricoperte di emblemi ignoti, l'architettura non somigliava a nulla che avessi visto in precedenza, neanche a quella dei laboratori gioviani; non era severa e imponente ma elegante e decorata. La luce che mi aveva guidato proveniva dal soffitto trasparente, da cui si poteva osservare l'oceano soprastante e i pesci che vi nuotavano pigramente. Sagome più grosse e minacciose transitarono sopra la mia testa: squali. Come avrei fatto a evitarli, risalendo?
    Mi riscossi, non amavo preoccuparmi di problemi ancora ipotetici, quindi riportai la mia attenzione all'ambiente strabiliante per trovare la reliquia. Frugai in ogni anfratto, con pochi risultati. Su uno scaffale esteso su tutta la parete trovai una discreta quantità di oggetti, alcuni ricoperti di incrostazioni marine, altri rotti, con parti mancanti. Un manufatto attirò la mia attenzione: aveva le dimensioni di uno scrigno, di un materiale simile a una pietra scura e pesante, ornato da sottili linee blu cristalline. La sua foggia differiva dagli altri oggetti e dal tempio. Il peso era notevole, nonostante le dimensioni ridotte. Dovevo scegliere se riportare in superficie quello o altre cose, che magari mi avrebbero ostacolato meno ed erano più preziose.
    Nonostante ogni logica, optai per la pietra squadrata. Diedi un'ultima occhiata a quel luogo, per imprimere ogni particolare, poi tornai alla scalinata sommersa e all'acqua calda del mare: non sapevo quanto tempo avevo passato nel tempio, ma su in superficie potevano già avermi dato per morto.
    Risalire fu più pericoloso che discendere: per uscire dalle rovine non ritrovai subito il corridoio, perdendo secondi preziosi, e per mia cattiva sorte gli squali stazionavano ancora nelle vicinanze. Cercai di non farmi individuare, ma un pesce mi passò scappando in mezzo alle gambe e attirò l'attenzione di uno dei due, che mi puntò con il suo muso aguzzo. Mezzo ostacolato dal bottino, cercai di allontanarmi rapidamente. Sentivo i timpani prossimi a scoppiarmi, dovevo stabilizzare la mia ascesa per qualche secondo o rischiavo di perdere conoscenza.
    Strinsi l'oggetto al torace con il braccio sinistro, afferrando con l'altro il pugnale che avevo nella cintura. Il cuore mi batteva follemente. Avevo incontrato questi predatori diverse volte, durante altre immersioni in relitti abbandonati, e non erano mai stati piacevoli. Questo andò incredibilmente meglio: lo colpii per primo, schivando d'istinto i suoi denti affilati ma centrando con la mia lama il suo occhio, mettendolo in fuga. Evitai una minaccia, ma ne dovevo risolvere un'altra: ero a corto d'aria. La sensazione e gli effetti dell'asfissia erano di nuovo incombenti. Uno dei barili fluttuava a poche bracciate da me, ma ero stanco e la mia vista si oscurava poco a poco. Se avessi lasciato quell'oggetto che era una zavorra, avrei avuto più possibilità di risalire vivo in superficie.
    Pochi istanti di esitazione, poi la testardaggine e l'orgoglio stabilirono le mie azioni, come sempre.
    Non sarei tornato a mani vuote per nessun motivo su questo mondo.
    Il barile era ancora pieno d'aria a metà. Tossii e sputai acqua salmastra per qualche secondo, poi lo abbandonai per fare l'ultimo pezzo di emersione.
    Riaffiorai poco lontano dalla scialuppa con Adéwalé a bordo, che scrutava inquieto la distesa blu. Risi forte per farmi individuare.
    (…)
    Avevamo passato ore a studiare quella pietra particolare, io e il mio confratello, senza trovare una fessura, una serratura, un indizio che ci permettesse di svelare il mistero che celava. Eravamo d'accordo sul fatto che si trattasse della reliquia perduta, per via della sommaria descrizione che avevamo, ma sapevamo poco più di quello; non ne conoscevamo l'utilità, né i suoi poteri o l'origine.
    Decidemmo che saremmo tornati a Great Inagua prima di portarla al Covo di Tulum e consegnarla nelle mani di Ah Tabai.
    Rientrammo alla base che era notte fonda. Non c'era anima viva sul molo ad attenderci. Mi diedi dell'idiota silenziosamente, quando mi accorsi che avevo scrutato la baia intera nell'assurda speranza di vedere una determinata persona venirmi incontro.
    Attraversammo la foresta placida e silenziosa, e alla fine del sentiero la villa comparve come una forma scura stagliata nel cielo stellato. Mi fermai di botto, stupefatto, poi iniziai a correre come un forsennato. La speranza si era riaccesa, si era ridestata, e mi donava una forza e una velocità che non tenevano conto della stanchezza degli ultimi giorni. Lasciai indietro Adéwalé.
    C'era la luce di una candela vicino alle finestre alte. Flebile, ma accecante ai miei occhi. In pochi secondi, ero alla porta e poi nel salone. Posai sul tavolo, senza darle importanza, la reliquia.
    La persona sollevò la testa da un libro su cui era china. I suoi occhi verdi mi diedero un brivido. La avevo aspettata per mesi, molti, molti più di quelli che avrei ritenuto accettabili quando ci eravamo separati. Eppure ero riuscito ad essere forte a sufficienza per vivere questo momento.
    Nike era tornata da me. Non mi importava un accidenti cosa la aveva trattenuta. Mi importava solo che ora era nelle mie braccia, e la mia bocca era sulla sua.
    ”Nike...”
    Ripetei il suo nome altre mille volte. Desideravo solo stringerla forte, mentre mi rinfrancavo dagli incubi di averla persa. Le mie mani le accarezzavano i capelli, le labbra, le spalle, la schiena. Volevano riappropriarsi della sensazione del suo corpo sotto il mio tocco.
    ”Ho pensato a lungo a quello che provo per te, ho avuto tutto il tempo del mondo per farlo. Non ho dubbi: voglio averti al mio fianco per sempre. Non tornare più su Giove...”
     
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    Roberta
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    Mi ero ritirata nella palestra del Tempio. Avevo ordinato che adibissero una stanza tutta per me, costituita da attrezzi e dal necessario per allenarmi. Preferivo sfiancarmi da sola, con i miei pensieri e con i miei ricordi. Dopo giornate infinite, passate tra le sale del Tempio, sotto la ferrea osservazione dei Sacerdoti; e sulla Luna, al quartier generale delle Guerriere, mi rifugiavo il quel piccolo angolo solo mio.
    Erano stati anni difficili per l’Impero, avevamo dovuto fronteggiare una nuova guerra contro esseri provenienti da un’altra galassia con la chiara intenzione di invadere i nostri mondi, ma non glie lo avevamo consentito. Avevamo lottato con le unghie e con i denti, le Guerriere dei vari pianeti e gli eserciti da noi comandati. Molto sangue era stato versato per difendere la nostra libertà di esistere, la nostra libertà di esseri liberi e avevamo trionfato. Il conflitto era durato parecchi anni e combattuto a più riprese. Quando ci pareva di aver avuto la meglio, un nuovo attacco a sorpresa ci faceva rimettere di nuovo sull’attenti e tornare in campo. Era stata una guerra infida e sottile, fatta non solo da battaglie senza esclusione di colpi, ma anche di sotterfugi, spie e menzogne. Non era stato affatto facile continuare ad amministrare il mio pianeta e coadiuvare il mio impegno accanto alle Guerriere. Avevo una responsabilità enorme che gravava sulle mie spalle: l’incolumità dei miei sudditi e degli abitanti dell’intero Impero, ma un solo pensiero continuava a tenermi sveglia, ad accompagnare le mie notti insonni piene di ferite da ricucire e di lividi da curare: Edward. Era passato davvero troppo tempo da quando mi ero stretta per l’ultima volta tra le sue braccia; ancora dopo vent’anni, però, avevo il suo profumo di sandalo e patchouli stampato nella mente, nel cuore, come se lo avessi inspirato solo qualche attimo prima.
    Avrei dovuto sentirmi in colpa per non pensare ai caduti che avremmo dovuto seppellire o alla prossima strategia contro quei farabutti, ma quando la sera mi rinchiudevo nelle mie stanze, lasciavo tutto il mondo fuori e mi crogiolavo nei ricordi di un amore troppo intenso per perderne il sapore, troppo vivido per perderne i contorni. Il passare inesorabile degli anni non aveva attutito i miei sentimenti, al contrario, li aveva accresciuti come l’acqua fa con le verdi piantine, che da piccole e fragili, diventano bellissime e rigogliose composizioni floreali.
    Avrei voluto godere del mio piccolo paradiso, ma quel giorno era tutto diverso. Vestita con la mia tenuta da combattimento, mi sentivo fremere, avevo un diavolo per capello. Avevamo appena finito di organizzare l’attacco risolutivo, quello che ci avrebbero consentito di porre fine a questa insulsa guerra. I nostri nemici stavano per essere annientati in via definitiva. Avevamo raccolto le giuste informazioni e avevamo messo a punto una strategia infallibile. Avevo ancora l’adrenalina che mi scorreva nelle vene, e anche dopo una giornata intensa e massacrante, avevo bisogno di un ulteriore sfogo. Non ero solita affrontare le mie frustrazioni attraverso la lotta, ma percepivo che il mio corpo necessitava di scaricare una montagna di energie deleterie e solo vessandolo gli avrei potuto dare un po’ di pace. Desideravo con tutto il mio essere che quella storia avesse presto una fine. Ero distrutta, sfinita, non solo fisicamente, piuttosto il senso di oppressione che sentivo nel petto era dovuto all’assenza di un pirata testardo e bellissimo che abitava su un altro pianeta.
    Iniziai a colpire un sacco appeso al soffitto. Lo attaccai con montanti e ganci e lo torturai con calci rotanti e laterali. Il tarlo del dubbio, ogni tanto, veniva a farmi visita e senza che me ne accorgessi mi trasformava in una donna gelosa fino al midollo. Sulla Terra erano passati quasi due anni. Conoscevo bene il passato da donnaiolo di Edward e non avevo idea di come avrebbe potuto comportarsi in mia assenza, ma più che il tradimento in sé, la cosa che più mi lacerava l’anima era temere che lui mi avesse obliata, che mi avesse odiata per non aver mantenuto la promessa di tornare da lui, e dopo un ragionevole tempo trascorso in attesa, avesse deciso di relegarla in un angolo del suo dimenticatoio personale.
    Questo infausto pensiero mi logorava dall’interno e mi spingeva a colpire, annientare, distruggere. In battaglia assomigliavo a una furia. Non avevo mai combattuto con una tale acredine. Desideravo ardentemente di prevalere sul mio avversario, per segnare l’ennesima vittoria che mi avrebbe portato più vicina alla fine di questa guerra, che mi avrebbe portata più vicina a fuggire da questa vita per rifugiarmi, anche solo per poco tempo, tra le braccia di chi amavo.
    All’improvviso crollai di schianto sul parquet della stanza e mi appoggiai con le spalle alla parete. Il fiatone mi mozzava il respiro, le lacrime spingevano per uscire, ma le ammonii con fermezza e gli proibii di venir giù! Non sarei crollata, non l’avrei data vinta al perfido destino che mi aveva tenuta lontana dalla mia isola sicura, dall’unico amore che aveva perforato il mio cuore e mi aveva rapita tra le sue grinfie dolci e strazianti insieme.
    “Tornerò da te, Edward. Lo giuro!” avrei voluto urlare, ma mi limitai a sussurrarlo, sempre per lo stesso motivo di non dichiararmi sconfitta di fronte al fato.
    […]
    Erano passati due mesi esatti da quando il conflitto aveva dato il passo alla pace. Ed io stavo tentando di dar luogo a un’idea balzana che la troppa nostalgia mi aveva suggerito. Dovevo andare sulla Terra da Edward, capire se mi aveva aspettato o se mi aveva cancellato dalla sua vita, ma volevo, allo stesso tempo, lasciare tutto in ordine sul mio pianeta. Non sarebbe stato semplice convincere i Sacerdoti a farmi partire. Sapevo che avrei dovuto intessere una tela intelligente e astuta, per assicuragli che non avrei lasciato nulla al caso e che Giove non avrebbe risentito della mia assenza.
    Un’ansia malefica mi stritolava il petto. Temevo che se fossi tornata e non avessi più ritrovato il mio Edward, allora sarebbe stato come morire, avrei lasciato sulla Terra quella parte di me che aveva imparato ad amare e non avrei mai più concesso ad anima viva un altro briciolo del mio essere. Ma se fosse rimasto per tutto questo tempo lì ad attendermi, allora gli avrei assicurato una fantastica sorpresa. Riuscivo addirittura a gongolare, nei momenti in cui non mi facevo rapire dall’angoscia. Dunque, affinché il mio piano potesse avere luogo, avrei dovuto organizzare tutto nei minimi dettagli. Non me ne andavo via a cuore leggero, ma sapere cosa avrei – forse – trovato dall’altra parte mi attirava come fossi una calamita formato gigante.
    […]
    Entrai in quella casa con la stessa cautela che si usa per varcare la soglia di un tempio sacro. Erano passati solo sette anni terrestri, ma che nel mio esistere si erano dilatati a ottanta. Chiunque, con una percezione umana, avrebbe potuto pensare che si trattasse di un’intera vita, ma per chi aveva l’eternità dinnanzi, non era poi così tanto, eppure… avevo vissuto quella distanza e quel maledetto scorrere del tempo, come una fiera in gabbia in attesa della tanto agognata libertà.
    La porta d’ingresso era sbarrata e la villa immersa nell’oscurità, ma non era stato difficile accedervi grazie ai miei poteri. Come d’accordi presi con Edward, quello sarebbe dovuto essere il nostro punto di incontro. Il luogo del nostro “appuntamento”.
    Coccolai con lo sguardo i grandi ambienti ben arredati anche se una forte sensazione di “abbandono” mi travolse con ferocia, non perché non vi fossero segni di vita. Era evidente che qualcuno lì ci vivesse e anche abbastanza intensamente, viste le bottiglie vuote di rum sui vari ripiani, bicchieri in mille pezzi sul pavimento, abiti sparsi ovunque e un disordine quasi irreale. Era tutto così diverso da come lo ricordavo. Non nell’aspetto, ma nell’essenza. Mi sentii quasi morire al pensiero che Edward si fosse abbandonato ai suoi soliti bagordi, nonostante la promessa di aspettare qui il mio arrivo. Era di sicuro passato troppo tempo. Si era stancato di attendere e aveva, alla fine, perso la speranza. Una fitta al petto mi costrinse ad aggrapparmi con una mano i seni e con l’altra mi appoggiai a un’isola di legno massiccio che divideva il grande salone dalle cucine.
    Lui non c’era, ma il suo profumo era sparso ovunque, impregnato su ogni oggetto presente in quella casa. Era rimasto lì per me, oppure aveva solo vissuto nella villa che era la sua dimora da sempre? Presi a passeggiare lenta raggiungendo l’enorme divano della sala e afferrai un camicione bianco. Lo annusai, quasi il suo odore fosse come ossigeno per i miei polmoni feriti e in astinenza. Di nuovo le lacrime spinsero per uscire, ma io ero troppo orgogliosa per abbandonarmi alla tristezza e all’angoscia di averlo perso. Avrei resistito, avevo fatto così tanta strada per raggiungerlo. Avevo attraversato battaglie, guerre e nemici con la ferma volontà di uscirne incolume, con l’unico scopo di riabbracciarlo. Non potevo gettare la spugna e andarmene senza neppure aver rivisto i suoi occhi color dell’oceano. Magari mi avrebbero trafitto con crudele riprovazione, ma non ci avrei rinunciato per nulla al mondo.
    Sarebbe tornato prima o poi, avevo parecchio tempo a mia disposizione e lo avrei atteso lì, nella sua casa, tra le sue cose, beandomi di ricordi lontani ma marchiati a fuoco nella mia mente e nel mio corpo.
    […]
    Erano passati ormai tre giorni da quando ero giunta sulla Terra e avevo invaso la villa di Edward. Avevo notato fin da subito che non ci sarebbe stato il solito via vai di compagni e di persone che si occupavano della casa in sua assenza. Era tutto rimasto immerso nel silenzio, nello stato di abbandono che lui aveva lasciato e nel quale viveva ormai costantemente.
    Per combattere l’apatia dell’attesa e per evitare di immergermi in pensieri nefasti del tipo: “e se non fosse tornato?” “E se gli fosse capitato qualcosa durante una missione” “e se avesse deciso di cambiare casa?”, avevo scelto un libro dall’enorme libreria che adornava la parete più estesa del salone. Alla luce di una candela mi ero immersa nella lettura, anche se con svogliatezza. Fino a che un rumore improvviso mi fece sollevare il capo in direzione del possente portone in legno, sembrava fosse stato travolto da un toro inferocito e invece chi mi trovai d’innanzi non era un quadrupede con tanto di corna, ma l’uomo che mi aveva rubato il sonno, il respiro e il cuore: Edward.
    Non ebbi il tempo neppure di rendermi conto di quali fossero le sue emozioni che le ritrovai immediatamente stampate sulla mia bocca, sul mio viso, sul mio corpo. Mi aveva afferrata e travolta con la sua vampata di passione. Una gioia infinita mi invase e mi portò lontano, anzi fin troppo vicino a quell’uomo rude e romantico allo stesso tempo.
    “Ho pensato a lungo a quello che provo per te, ho avuto tutto il tempo del mondo per farlo. Non ho dubbi: voglio averti al mio fianco per sempre. Non tornare più su Giove...” Ero sua, ero sempre stata sua e… mi aveva aspettato per tutto questo tempo.
    Mentre mi stava divorando senza alcuna remora, come se potesse continuare a vivere solo incollato alle mie labbra, Adéwalé fece capolino nella stanza, tossicchiando evidentemente a disagio.
    Mi sentii sollevare come una piuma. Edward mi adagiò con facilità sulla sua spalla, quasi fossi un sacco di patate.
    “Come vedi sono impegnato, amico. E non so quando potrò liberarmi. Qualsiasi cosa potrà attendere! Tu fai come se fossi a casa tua…” E poi mi portò via, senza neppure attendere una risposta da parte del suo compagno, che lo vidi con la coda dell’occhio, sorridere complice.
    “Ci vediamo tra un paio di giorni, allora!” lo udii rispondere a distanza, con aria soddisfatta.
    Edward era come posseduto. Non aveva spiccicato altre parole e si era concentrato unicamente sul mio corpo, che aveva adagiato con cura sul suo enorme letto a baldacchino. Ripensai per un attimo alla prima volta in cui mi ero abbandonata alle sue audaci carezze e rabbrividii perché allora, non avrei mai immaginato che avrei conquistato il suo cuore di pirata burbero.
    Mi stava assaggiando in ogni angolo e io lo lasciai fare, persa nel vortice delle sensazioni estreme che mi stava regalando ed io, riscoprendo un’audacia che non sapevo neppure mi appartenesse lo avvinghiai con le cosce e lo feci ruotare, costringendolo con la schiena tra le lenzuola. Dopo un primo attimo di stupore, mi donò uno dei suoi sorrisi mascalzoni che mi fece perdere il senno. Mi tuffai su di lui, ma non con la stessa avidità e furia. Avevo tutt’altri piani, nonostante la brama di fondermi con il suo corpo fosse tanto pressante da stordirmi. Iniziai a sfiorare con le labbra il suo lobo e scesi lungo il collo e morsi lieve l’incavo per poi dedicarmi al suo ampio torace e all’addome scolpito. Seguii i contorni della Jackdaw tatuata sulla sua pelle con la punta della lingua: la bandiera piratesca, le vele tese, lo scafo… Lo sentii ansimare con la sua voce roca, quasi in un ringhio e seppi di star giocando col fuoco. Lo assaporai con estrema lentezza mentre percepivo che non avrebbe resistito a lungo, proprio come me. Era una dolce tortura che aveva aumentato, semmai fosse stato possibile, la voglia che avevamo di respirare l’uno nell’altro.
    All’improvviso mi afferrò per le spalle, capovolse di nuovo la situazione e poi… entrò in me, fu un unico e fluido movimento che mi lasciò senza fiato. Ci cullammo nel suono dei nostri gemiti e nel profumo dei nostri corpi avvinghiati fino a che non percepii un vortice di piacere avvolgerci e strattonarci con forza fino a che l’estasi non coprì le nostre urla di piacere, che avevamo raggiunto all’unisono.
    Edward, come se fosse tornato da un luogo molto lontano, mi baciò e si adagiò al mio fianco. Mi passò un braccio sotto al capo e mi incollò al suo petto in un chiaro segnale di possesso.
    Mi sentivo stremata, svuotata, ma non nel fisico. Sentivo che tutte le ansie, l’angoscia dell’attesa erano scivolare via e si erano sciolte come neve al sole. Mi sentivo così bene che temetti di emettere qualche suono per non rischiare di infrangere quell’aura di beatitudine che ci avvolgeva.
    Mi accoccolai stretta a lui, inspirai il suo profumo tipico e un pizzico di sudore, che imperlava i nostri corpi.
    Continuava a sfiorarmi i capelli, la spalla, il braccio in un movimento ritmico e ipnotizzante.
    Ci addormentammo senza sapere quando e ci abbandonammo alle soffici braccia di Morfeo.
    […]
    La mattina seguente mi svegliai che era ormai giorno fatto. Ero poggiata sul braccio teso di Edward. Mi mossi con cautela sperando di non svegliarlo e invece mi ritrovai l’altra mano sulla spalla che mi aveva ancorata di nuovo a sé.
    “Dove vai?”
    “Pensavo di andare a prepararti qualcosa per colazione…” risposi candidamente e con un sorriso stampato in volto.
    Lui mi sorrise, soddisfatto della mia risposta. Poi mi abbracciò di nuovo e mi impedii di muovermi.
    “Tu non vai da nessuna parte, anche nelle cucine, sarebbe un posto troppo lontano. Non va bene. E poi, dubito che troveresti qualcosa di commestibile…” disse rabbuiandosi per un istante.
    Ripensai al disastro che avevo trovato al mio arrivo e capii che si sicuro non aveva avuto testa per mangiare e vivere in modo normale. Sentii il cuore pesante a pensarlo in quelle circostanze.
    “Mi dispiace… davvero!” dissi con un filo di voce. Adesso avevo la certezza che aveva sofferto come un pazzo. Potevo comprenderlo, io avevo provato la stessa cosa.
    Lui non mi chiese il perché del mio mostruoso ritardo. Disse solo: “Sei tornata per restare?” Ed io non potei fare a meno di dirgli la verità.
    “In via definitiva? No, ci sto lavorando… Per un lungo periodo, sì, decisamente!” risposi sorridendo sul suo petto levigato. Era questa la mia sorpresa. “Ho organizzato tutto sul mio pianeta per potermi assentare parecchi mesi, anche un anno, se tutto va come previsto!” e lo guardai. Vidi un lampo di delusione nel suo sguardo, subito sostituito da una luce nuova. Era consapevole che non avrei potuto fare tutto all’improvviso. “Non è stato semplice sbarazzarmi di quei segugi dei Sacerdoti. Prima di allontanarmi dovevo essere certa che Giove avrebbe avuto una corretta reggenza anche in mia assenza! Alla fine, ce l’ho fatta, ed eccomi qui!” Mi sollevai e gli posai un casto bacio sulle labbra.
    “Ti sono mancato?” Continuava a non fare la fatidica domanda: perché tanto ritardo? Ma ormai sapevo che lui era tutto fuorché prevedibile.
    “Da morire… alcuni giorni mi è sembrato di impazzire, ma poi ho resistito. Sapevo che sarei tornata da te!” Non rispose, si limitò a stringermi ancora più forte, quasi soffocandomi. “Non mi domandi perché ho tardato tanto?” gli chiesi con il cuore in gola.
    “Non è così importante… adesso! Soprattutto dopo quello che mi hai detto poco fa. Mi basta!” La sua voce nascondeva una profonda sofferenza e mi si strinse il cuore.
    “Voglio dirtelo, non come giustificazione, ma per farti capire…! Poco dopo il mio rientro su Giove, l’Impero lunare, del quale il mio pianeta fa parte, si è trovato ad affrontare una minaccia sconosciuta. Siamo stati coinvolti in una guerra subdola e crudele. È durata tanto a lungo da farmi credere, a un certo punto, che non ce l’avremmo fatta… Ma, alla fine, l’abbiamo spuntata. Non avrei mai potuto andare via nel bel mezzo di un conflitto. Non quando la mia assenza avrebbe potuto condannare a morte milioni di innocenti…” conclusi col fiato corto. Mi sentivo colpevole, ma sapevo di non aver avuto scelta.
    Edward mi sollevò il viso con due dita sotto il mento e mi portò a guardarlo negli occhi. Quanto amavo il loro blu profondo.
    “Sei una donna forte, Nike. Sono felice che tu sia qui con me, e sappi fin da adesso, che non ti lascerò andare tanto facilmente. Non più!” mi disse mormorando, con una convinzione nello sguardo che mi fece sciogliere d’amore.
    “Dillo di nuovo…” dissi con slancio.
    “Cosa…” chiese confuso.
    “Ripeti il mio nome, il mio vero nome” gli dissi come se avessi chiesto di dedicarmi una canzone romantica.
    “Nike… Nike… Nike…” ripeté sorridendo e poi mi baciò.
    Con quella dolce melodia nelle orecchie e nel cuore mi abbandonai ai suoi baci roventi, promesse di altre mille emozioni, per me all’inizio sconosciute, ma che adesso portavano come marchio il suo nome.
     
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    Rivedemmo davvero Adéwalé due giorni dopo. La fame di cibo era scomparsa davanti alla fame che avevamo di noi, dei nostri reciproci corpi, del bisogno di toccarci e guardarci. Volevamo compensare e riappropriarci del tempo che avevamo perso stando distanti. Per colmare il vuoto e raccontarci quello che avevamo passato, come eravamo riusciti a sopravvivere alla prova dell'assenza. Le descrissi senza filtri le giornate quando non ero in missione per la Confraternita, motivando lo stato pietoso in cui, mi confessò Nike, aveva trovato la villa. Non provavo vergogna per come ero, avevo fatto del mio meglio per aspettarla e questo bastava.
    Quando le raccontai della missione che mi aveva impegnato nei giorni appena trascorsi e del manufatto che avevo recuperato in quello strano tempio, Nike insistette per vederlo.
    Era quasi sera. La sera del secondo giorno dopo il suo ritorno. Adéwalé era seduto su una poltrona nell'ampia entrata e stava mangiando una mela. Il suo tono ilare mi fece sorridere compiaciuto.
    “Eccovi finalmente. Cominciavo a disperare...”
    Aveva sistemato il bottino in mezzo ai mille oggetti della mia raccolta, nascosto in piena vista, come dettava il nostro credo. Era una pietra squadrata dall'aspetto comune, se non fosse stato per le decorazioni geometriche che ne attraversavano la superficie.
    La presi in mano, soppesandola, per mostrarla a Nike.
    “Dallo stile dei fregi che ci sono incisi, penso che possa appartenere al tuo popolo, anche se il tempio in cui l'ho scovato era molto diverso dai vostri laboratori...”
    Nike non si mosse, rimase a fissarla, stupefatta. Il mio cuore diede un piccolo balzo di fierezza: l'impegno e il rischio che avevo corso per recuperare la reliquia era stato un lavoro fruttuoso, lo intuivo dall'incredulità nella sua reazione.
    “Lo riconosci? Sai di cosa si può trattare?” Anche Adéwalé era estremamente curioso e interessato.
    “Ne ho solo sentito parlare, perché se fosse quello che credo, venne smarrito moltissimo tempo fa, quando a capo del nostro governo c'era un altro Giudice Supremo, Ottar. Avvenne in un periodo buio dell'impero galattico, quando le alleanze erano diverse e poco stabili. Fu tradito e ucciso, e lo strumento del potere, il Mjolnir, venne trafugato”
    “Il Martello degli Dei dei norreni, quello che poteva controllare i fulmini... in effetti, se nei racconti antichi c'è qualcosa di vero, questa pietra potrebbe avere poteri molto simili ai tuoi...”
    Controllare i fulmini, la tempesta, scatenare delle forze così potenti da annientare un piccolo esercito in pochi istanti. Le immagini di quel giorno assurdo e straordinario erano indelebili, ma al contempo terrificanti, e non amavo rievocarle per il groviglio di sentimenti che si portavano dietro e che ancora non ero riuscito a districare, se mai avessi voluto farlo.
    “I suoi poteri sono ben altri, molto più pericolosi e micidiali. Quello che è stato per millenni il simbolo del mio incarico può manipolare e controllare ogni tipo di materia, sia reale che virtuale, e creare campi di forza energetici”
    Si avvicinò all'oggetto che reggevo, allungando la mano sopra di questo, a una spanna di distanza. Nell'immediato non accadde nulla, ma l'espressione di Nike rimase concentrata sulla pietra.
    “Devo riuscire a connettermi con l'essenza del potere che racchiude. So come farlo, ma non ho mai potuto attuarlo”
    E poi, come se si risvegliasse, cominciai a sentire una lieve vibrazione provenire dal manufatto e risalirmi su per le braccia. Le linee incise si illuminarono di una luce soffusa e fioca. Sentii che il peso diminuiva, poi mi accorsi che la reliquia, che somigliava, ora me ne accorgevo, alla testa di un martello da fabbro, fluttuò a pochi centimetri sopra i miei palmi aperti.
    Nike rovesciò la mano e a quel punto, dalla reliquia scaturirono lampi accecanti. Per qualche secondo distolsi lo sguardo, gli occhi che bruciavano per la luce intensa. Avvertii un lieve sfrigolio e un odore metallico. Quando la luce si attenuò, Nike stava impugnando il martello mitico. Il manico era formato da fulmini che però non bruciavano la sua pelle, limitandosi a illuminarla come la dea Huracan a cui l'aveva paragonata Ah Tabai.
    Una visione formidabile, potente e terrificante. Il suo viso pareva sublimato, estasiato dall'energia che la attraversava, che la avviluppava senza danneggiarla ma anzi, conferendole forza e potere. Era palese davanti a noi, agli sguardi allibiti e quasi timorosi miei e di Adéwalé. Sentivo i muscoli tendersi e il respiro accelerare. Non ero ancora pronto a unire le due persone che conoscevo in una sola: Nike e il Giudice Supremo di Giove.
    Dopo un tempo che sembrò dilatarsi in ore, i lampi tornarono dentro il martello, anche quelli dell'impugnatura, e la pietra tornò ad apparire come un oggetto comune, stavolta nelle mani di Nike.
    La sua voce era solenne, come se stesse recitando parte di un credo, di una conoscenza ancestrale.
    “Il giudice supremo ha il privilegio di portare sempre con sé, in battaglia e nell'adempimento dei suoi compiti, il Mjolnir, che rappresenta il simbolo della sua carica”
    “Mi pare un po' scomodo da portarselo in giro, non credi?” Intervenni ironicamente: non intendevo sminuire il suo mondo, ma solo scaricare il disagio che provavo davanti a tutto questo. Stranezze gioviane...
    Nike sorrise. “Questa non è l'unica forma che assume Mjolnir. Guardate...”
    Reggendo il manufatto con la sola mano sinistra penetrò con la destra dentro la pietra, che sfocò inghiottita dentro la luminosità che emetteva. Pochi istanti dopo, della pietra non c'era più traccia e Nike indossava un antibraccio color antracite con decorazioni geometriche: la reliquia aveva cambiato forma e il Giudice Supremo, come aveva preannunciato lei, poteva indossarlo e trasformalo di nuovo in arma in qualsiasi momento.
    “Ah Tabai sarà stupefatto di ascoltare cosa gli racconterò. È ovvio che dovrà accontentarsi di sapere che la reliquia è tornata in mano ai suoi legittimi proprietari”
    “Il che è quello che abbiamo il compito di fare...” Puntualizzai con orgoglio e fermezza.
    Il mio confratello annuì: “Partirò domani mattina all'alba, voglio portare quanto prima la notizia al Mentore. Ci rivedremo presto, Capitano”
    (...)
    La villa aveva preso vita, si era riempita di suoni e attività come non era mai stata. Sicuramente da quando io ne ero diventato proprietario. Avevo assunto diverso personale, nuovo e vecchio, perché pulisse e rimettesse a posto le numerose stanze della casa, che erano state riordinate e abbellite. Non più oggetti e tesori posati alla rinfusa, accatastati e ricoperti di polvere e ragnatele, ma stanze luminose, pulite e piene di fiori e di piante.
    Anche l'esterno era stato ristrutturato, il patio adornato da tende leggere e lanterne che la notte creavano un posto delizioso per passare le ore meno calde della stagione. La cucina immensa era sempre in attività, preparava pasti ricchi e speciali a qualsiasi ora del giorno per noi e per i miei uomini. Sulla terrazza dietro la villa avevo fatto predisporre un tavolo riparato da separé di giunchi per permetterci di mangiare in tranquillità e intimità.
    A giorni, gli artigiani dell'isola avrebbero terminato un'immensa voliera per ospitare le specie volatili più colorate e canterine, per deliziare i nostri sensi. Le stoffe più preziose erano state tirate fuori dai bauli per andare ad ornare le finestre, le tavole, il letto.
    Niente era troppo per lei, per la sua felicità.
    Quella mattina, sul tavolo dove avremmo fatto colazione c'erano un cesto di frutta fresca, pane bianco, conserve di diverso tipo, frutta candita e tanto altro. Consuelo, che avevo ripreso a servizio, ci portò le uova ancora sfrigolanti nella padella. Ne mangiai alcuni bocconi con gusto, prima di interrompermi. Osservavo Nike di sottecchi che mangiava lentamente, con lo sguardo vuoto e un sorriso appena accennato sulle labbra. Le mie chiacchiere con i progetti per la giornata – una cavalcata fino all'altro lato dell'isola - non erano riuscite a guadagnare la sua attenzione.
    Sospirai in silenzio. Ero certo che qualcosa non andasse, che Nike mi tenesse nascosto il motivo della sua insoddisfazione, e io non ero certo il tipo di persona che metteva la testa sotto la sabbia, raccontandosi che andava tutto bene quando invece non era così. Avevo atteso un po' di tempo per concederle la possibilità di spiegarsi e di manifestarmi le sue frustrazioni, ma ora non avevo più intenzione di aspettare e volevo ottenere delle risposte.
    Nike si stava allontanando da me, il suo comportamento era quasi arrendevole, come se altro avesse rapito i suoi pensieri, il suo spirito. Non era con me neanche quando stavamo insieme. Non riuscivo più ad accendere quella luce che amavo tanto nei suoi occhi. Cosa avevo fatto di sbagliato? Si era già stufata di me? Non potevo crederlo. Aveva nostalgia del suo pianeta d'origine, o del suo ruolo importante? Maledizione. Cos'altro potevo inventarmi per avere di nuovo al mio fianco la donna che mi aveva rubato il cuore?
    Quando fece per alzarsi, senza aver quasi toccato nulla, mi alzai con prontezza, mettendomi davanti a lei per impedirle di ritirarsi nella sua malinconia. Cercai i suoi occhi.
    “Vuoi dirmi cosa sta succedendo?”
    “Sto bene...” Il suo tentativo di schernirsi mi fece spazientire. Aspirai seccamente l'aria.
    “Non mi sembra davvero. Hai bisogno di qualcosa? Di spazio, di tempo per... abituarti? Cosa desideri? Sei strana da qualche giorno, non pensare che non me ne sia accorto. E' da due giorni che non facciamo più l'amore. Tu ti neghi, mi stai lontana, sembra quasi che ti faccio paura o... peggio. Cosa sta succedendo?”
    Strinse le labbra, con l'espressione di chi sta ingoiando un veleno disgustoso. “Edward... sono incinta” Me lo disse così, a bruciapelo, come se mi avesse sparato al petto.
    “Di me?” Aprii la bocca e sbattei le palpebre più volte, le sopracciglia contratte. Non avevo bisogno di fare calcoli perché contavo i giorni da quando lei era tornata da me come fossero la collezione più preziosa di dobloni d'oro. Erano quindici. Troppo pochi per... avere queste certezze. O no? Nike non era terrestre. E anche se tendevo spesso a dimenticarmene, dato che lei per me era semplicemente la donna che amavo, ora invece avrei dovuto considerarlo un aspetto essenziale. Cosa ne sapevo io delle gravidanze gioviane?
    “… certo!”
    Mi girai di scatto, cominciando a camminare avanti e indietro per la terrazza, mentre proferivo parole sconnesse con un tono d'urgenza. Mille urgenze si presentavano tutte insieme, sembravano una folla urlante di creditori alla porta di un giocatore d'azzardo.
    “Questo cambia tutto. Cambia ogni cosa... dobbiamo pensare, analizzare. Tutto sarà diverso.... Ogni cosa cambierà... e sarà da organizzare...”
    Guardavo ma non vedevo. Udivo ma non sentivo nulla, troppo assorto nel mio bailamme. Solo il tocco fermo ma gentile sul braccio mi riportò indietro, alla realtà.
    “Edward...”
    Mi fermai nel mio vagare insensato. La guardai negli occhi, che ora erano verdi come un mare in tempesta. Era... allarmata! Per che cosa? Non si accorgeva di avermi appena dato la notizia più bella che potessi ricevere? Un sorriso entusiasta si formò sulla mia bocca. In quel momento avevo un solo pensiero nella mente, che portò via quelli più concreti e mondani di pochi istanti prima: “Diventerò padre!” Esclamai.
    Le afferrai la mano, e la trascinai con me. Mi diressi verso le cucine, dove alcune donne stavano pulendo e facendo da mangiare. Entrai come un uragano, gli occhi che brillavano. Diedi a loro la notizia che mi stava facendo scoppiare il petto dalla felicità.
    “Diventerò padre!!”
    Non riuscivo a stare fermo. Sempre stringendo la sua mano, ci spostammo nel salone, nelle altre stanze, nelle stalle. Ogni persona che incontravo, riceveva la stessa notizia. Ero l'uomo più felice del mondo e desideravo che tutti lo sapessero. Andai nelle cantine, e diedi ordine di aprire le bottiglie più pregiate e usarle per festeggiare la notizia. Diventerò padre!
    In breve, nella casa la confusione e l'andirivieni che regnavano costantemente aumentarono ancora di più.
    Nike sembrava quasi confusa e sopraffatta da tutto. Forse ero stato troppo irruento, e non avevo considerato i suoi bisogni. Forse, invece che correre da un lato all'altro della mia proprietà, aveva bisogno di riposarsi. Non doveva affaticarsi, il suo stato poteva risentirne.
    Sempre con il sorriso più ampio che avessi, la presi per la vita e la portai nella nostra camera da letto. Chiusi la porta alle spalle.
    Ricacciai indietro i pensieri e le voglie che mi assalivano quando ero troppo vicino a lei, perché preferii dare precedenza ad altri sentimenti. La abbracciai e con delicatezza, cominciai a baciarla. Sulla bocca, sugli zigomi, sulla fronte, in una sequenza che non lasciava intoccato nessun punto del suo viso. Le mie mani le accarezzarono le spalle, la schiena, i fianchi, fino a fermarsi sul suo ventre. Anche attraverso i vestiti e il corsetto allentato, sentivo una lieve rotondità dove invece prima era liscio e teso. Questa constatazione mi emozionò in un modo a cui non ero preparato. La vista mi si appannò, lacrime che non avevo mai pianto minacciarono di erompere in maniera ben poco virile. Per nasconderle, e per un bisogno che si era fatto urgente, mi inginocchiai, posai la fronte sul suo grembo e la abbracciai sui fianchi. Cosa avevo cercato per tutta la vita, se poi quello che potevo avere di più prezioso era ora tra le mie braccia?
    Avevo tante domande e tante incertezze, ma ora volevo solo bearmi del momento. I progetti potevo rimandarli al giorno dopo.


    Edited by Illiana - 7/9/2020, 20:03
     
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    Erano giorni ormai che non mi sentivo più padrona del mio corpo. Dopo i primi due passati senza dormire e quasi senza mangiare, avevo iniziato a sentirmi strana, come se uno sconosciuto malessere stesse covando nelle mie vene e avesse inghiottito la mia allegria e tutte le mie energie. Mi sentivo sempre stanca, spossata, quando non mi adopravo affatto in attività faticose. Tutt’altro.
    Edward mi trattava meglio di una regina. Neppure su Giove, con il ruolo che ricoprivo, mi erano state dedicate così tante attenzioni, solo per me, tutte per me. Sul mio pianeta ero oggetto solo di doveri, oneri e occhiate di riprovazione. Ero troppo diversa da come volevano che fossi, troppo “lontana dalle tradizioni” nel mio modo di fare e di essere; tutto ciò non mi aiutava affatto a riscuotere la simpatia dei Sacerdoti, i quali non facevano altro che starmi con il fiato sul collo per questa o quella udienza, per questa o quella incombenza. Lungi da me il poter ispirare nei loro cuori, sentimenti di premura o affetto. Ero sempre stata sola e non me ne ero mai fatta un cruccio. Piuttosto, ne avevo fatto la mia routine e la mia forza personale. Chi non ha bisogno degli altri, basta a se stessa e non rischia di apparire debole e fragile.
    Invece, da quando avevo trovato il mio Edward, era cambiato tutto. Mi sentivo coccolata, amata, venerata ed era proprio per questo che la sua vicinanza e le sue attenzioni avrebbero dovuto colorare le mie giornate, tinteggiandole di puro amore, ma la mia mente era altrove, il mio sguardo perso lontano, verso pensieri che neppure io ero in grado di decifrare. Una fitta foschia annebbiava la mia volontà, le mie forze.
    In un primo momento, avevo attribuito la cosa al profondo contatto che avevo avuto con Mjolnir. Impugnarlo, governarlo era stata un'emozione tanto forte da farmi vacillare. Avevo sentito la mia energia vitale risucchiata dalla reliquia, ma a parte questa iniziale euforia e stordimento per l’enorme potere effuso dal martello e che poi, avevo assorbito a mia volta, non avevo avuto altri strani sintomi.
    Per eliminare qualsiasi dubbio, lo avevo maneggiato ancora e ancora, ma nessun effetto particolare o negativo mi aveva colpito. Al contrario, più lo toccavo e lo manovravo, più diventava mio, come parte fusa al mio stesso corpo. Sembrava che mi avesse riconosciuta come legittima padrona e a me si fosse affidato completamente.
    Dunque, a cosa era dovuta la mia eterna malinconia? La lontananza da Giove? No, proprio no. Ero mancata così tanto dalla Terra, avevo sofferto così a lungo la lontananza da Edward che neppure il mio subconscio subiva qualche sorta di “trauma da separazione”. Sentivo di poterlo escludere e quell’ennesima certezza mi rendeva ancora più nervosa, proprio perché mi distanziava inesorabilmente dalla soluzione di questo intricato rebus che era la mia attuale condizione.
    La mia confusione raggiunse il picco, sfiorando l'isteria, quando un giorno, mentre mi vestivo, rimirandomi allo specchio, notai una strana macchia rossastra sotto al seno, appena sopra il ventre. La osservai bene e non riuscii a capire cosa fosse. La forma non ero definita e toccandola pareva leggermente in rilievo. Andai nel panico e continuando ad osservarmi nella superficie riflettente, mi misi le mani tra i capelli e mi morsi un labbro a sangue per non urlare.
    Un panico denso come pece mi avvolse e mi trascinò nel limbo dell'incertezza. Ero forse malata? Mi ero portata dietro qualche malattia gioviana? Ma non mi sembrava di conoscerne con sintomi simili – apatia, inappetenza, spossatezza costante, macchie rosse sulla pelle. O forse mi ero infettata con qualche diavoleria della Terra!? In fondo, cosa ne potevo sapere? Amavo un essere umano con tutta la mia anima, ma non ero una terrestre. Tutto era possibile.
    Mentre passavo le mie giornate ad arrovellarmi con assurde ipotesi senza sbocchi sensati e senza risposte, Edward aveva provato più volte a starmi accanto, sentivo che percepiva il mio malessere ma non aveva il coraggio di chiedere, di affrontare il mio labile quanto precario equilibrio apparente. Forse temeva che se avesse osato troppo, sarebbe potuto cadere in un baratro senza fine, o peggio, avrebbe permesso che ci cadessi io stessa, senza poter fare nulla per salvarmi.
    Attendeva paziente che fossi io a fare il primo passo, ad aprirmi, a confidarmi, ma cosa avrei potuto dirgli? “Scusami tanto caro, se sono così assente, non so che cosa mi stia succedendo. Forse ho qualche strana malattia e sto per impazzire, erosa dal dubbio!"
    No, non era fattibile, neppure da prendere lontanamente in considerazione.
    Allora, aveva preso ad abbellire la casa con mille accessori raffinati e di lusso, solo per me; mi proponeva programmi e gite per allietare le mie giornate. Io accettavo di buon grado ogni sua premura, ma quel maledetto tarlo continuava ad assillarmi in ogni momento. Cosa diavolo mi stava succedendo?!
    Poi, un giorno, chiusa in camera, dopo che mi ero negata per l'ennesima volta di fronte a un Edward pieno d'amore e di passione, ebbi l'illuminazione che mi gettò in un tunnel di incertezza ancora più grande delle mie precedenti preoccupazioni.
    Di nuovo d’innanzi allo specchio, volevo osservare la macchia sotto al seno. Non ne erano spuntate altre altrove e in quel momento ne compresi il motivo. La voglia rossastra che decorava la mia pelle fino a pochi giorni prima si era trasformata, assumendo una sagoma ben definita di colore verde scuro. Una goccia stilizzata piena, rotonda, sormontava un ventre leggermente arrotondato.
    No, non poteva essere... non poteva succedere proprio a me.
    Il simbolo gioviano della fertilità non lasciava spazio ad alcun dubbio. Ero incinta. Io, il Giudice Supremo di Giove.
    Quella rivelazione tanto sconcertante creò una miriade di emozioni contrastanti che mi pervase: il dubbio, la disperazione, l'angoscia per un evento tanto assurdo si sovrapponevano a una gioia straripante, che mise a dura prova il mio povero cuore zoppo, provato dalla girandola di sensazioni accumulate in quei giorni da incubo.
    Ero terrorizzata e felice. Preoccupata a morte, ma euforica.
    Era successo tutto troppo in fretta ed io non avevo idea di come Edward avrebbe reagito. Ancora non comprendevo a pieno neppure le mie di reazioni! Ero certa dei sentimenti che Edward provava per me, ma una gravidanza? Un figlio? Ero di un altro pianeta, santo cielo! Cosa avrebbe pensato? Mi avrebbe derisa, cacciata, accusata di averlo incastrato? Erano passati solo quindici giorni e come mi ero ridotta?!
    Conoscevo come funzionavano le gravidanze gioviane, sebbene non fossero state previste per il Giudice Supremo: si manifestavano più precocemente rispetto alle donne della Terra anche se duravano sempre nove mesi; il bimbo si formava in tempi differenti. No, io non sarei mai potuta diventare madre… e invece.
    Immaginai per un attimo le espressioni abbacinate e orripilate dei Sacerdoti di fronte a un tale scempio. Inorridii al solo pensiero...
    Non potevo pensarci adesso. Avevo qualcosa di più impellente di cui occuparmi e soprattutto di più importante. Sì, perché l’opinione dell'uomo che amavo contava molto più del "giudizio" di mille sacerdoti gioviani.
    Se Edward mi avesse respinta, rifiutando il frutto del mio grembo, mi avrebbe gettato nell’ennesimo limbo oscuro. Non potevo neppure immaginare il dolore. O forse, potevo iniziare già a percepirlo?
    Dopo aver lanciato un'ultima occhiata all'inequivocabile prova della mia "sconosciuta malattia" mi rivestii di tutta fretta. Dovevo dirglielo... dovevo confessare al mio uomo di suo figlio, di nostro figlio.
    [...]
    “Edward... Sono incinta” dissi decisa, come se avessi sputato fuori una verità bollente, che se fosse rimasta ancora tra le mie labbra, mi avrebbe ustionata. Avevo avuto una piccolissima esitazione. Per un invisibile frangente di tempo, il terrore di una sua possibile reazione negativa, mi aveva fatto dubitare di dirgli tutto. Sarei fuggita via, lontano da lui e dal suo sguardo… terrorizzato? Sorpreso? Preoccupato? Non riuscivo a decifrare la valanga di emozioni che passarono sul suo viso. Poi, il suo dubbio mi prese alla sprovvista.
    Come poteva pensare che aspettassi il figlio di qualcun altro? Di un bel gioviano? O magari di uno dei suoi compagni che bazzicavano la villa! Ah, che assurdità. Per un attimo, temetti di reagire in maniera troppo impulsiva e forse spropositata e mi morsi un labbro per impedirmi di parlare.
    “Certo!” risposi solamente e mentre lo vedevo camminare su e già per la stanza, diedi una risposta alla sua incredulità. Era passato troppo poco tempo. Sulla Terra, una gravidanza iniziava a “notarsi” dopo quante settimane? Dodici, tredici… mentre per me, ne erano passate a stento due. Non avevo dubbi che la notte del concepimento fosse stata quella in cui ci eravamo donati l’uno all’altro dopo anni e anni di distanza, e la piccola vita nel mio ventre era il frutto di tutto l’amore represso, di tutta l’assenza e la malinconia provata nel pensare all’altro a distanze incalcolabili.
    “Questo cambia tutto. Cambia ogni cosa... dobbiamo pensare, analizzare. Tutto sarà diverso.... Ogni cosa cambierà... e sarà da organizzare...”
    Il suo fare ansioso e angustiamo mi allarmò non poco. Il mio peggiore incubo, forse si stava per avverare. Non si aspettava di diventare padre così presto, aveva altri programmi, altri progetti per la nostra vita insieme o per la sua stessa esistenza e io avevo scombinato tutto. Un’angoscia infinita mi assorbì completamente. Di lì a poco sarei scoppiata, me lo sentivo. Avrei riversato su di lui tutta la mia disperazione… non poteva lasciarmi, non potevo rinunciare a lui!
    “Edward…” Mi avvicinai e lo sfiorai su un braccio, mentre lui continuava a fare solchi sul pavimento e non mi guardava. La mia voce era implorante. Dovevo sapere, dovevo capire quale sarebbe stata la mia sorte e quella del nostro bambino nel suo mondo.
    “Diventerò padre!” quasi urlò e mi guardò con degli occhi tanto carichi di emozione che mi colpirono come un pugno in pieno petto. Non me lo aspettavo, non potevo immaginare che la sua “ansia” fosse dettata da impulsi incontrollati di pura felicità. Avevo immaginato la catastrofe e adesso mi trovavo catapultata in una dimensione fatta di sorrisi, di abbracci e di “annunci”. Mi sballottò per tutta la villa, per quasi tutta la sua proprietà per dare la notizia del lieto evento! DEL LIETO EVENTO! Mi sembrava di morire, di stare per svenire… e forse Edward se ne accorse perché decise di mettere fine a quella girandola di luoghi e mi portò nella nostra camera. L’unico posto dovevo volevo che fossimo. La sua infinita dolcezza pose fine ad ogni mio dubbio o incertezza. Mi abbracciò con tutto l’amore di cui era capace e mi sfiorò il ventre con la fronte. Per quanto avessi tentato di stringere i legacci del busto, non mi era riuscito del tutto e lui se ne accorse. Mi guardò con vorace bramosia, ma questa volta i suoi occhi lucidi espressero qualcosa di diverso dal passionale desiderio che provava per me. Adesso potevo scorgere una scintilla di tenerezza che brillava sempre di più, mano a mano che si alzava piano e mi slacciava l’abito da dietro.
    “Spero che tu non sia troppo affaticata e che la tua condizione non ti impedisca di essere mia ancora una volta… ancora e ancora e per sempre. Ho atteso troppo a lungo, sei stata crudele in questi giorni e ora… non posso più attendere” mi disse con la sua voce roca e sensuale. Le parti basse del mio ventre si infiammarono all’istante come attirate da un richiamo ancestrale che mi legava a lui corpo e anima.
    “Scusami se mi sono allontanata da te, ma l’ultimo periodo è stato un disastro… non capivo cosa mi stesse succedendo e davvero… ho temuto il peggio!” parlavo mentre lui mi abbassava le spalline del vestivo e mi denudava davanti ai suoi occhi affamati di amore. “Non ti spaventare per ciò che vedrai…” sussurrai con una punta di ansia che mi stava divorando. Cosa avrebbe pensato alla vista del simbolo? E altri mille dubbi mi assalirono… Lui credeva mi stessi riferendo alla rotondità del ventre e mi sorrise con dolcezza, ma quel sorriso si mozzò alla vista della goccia verde scuro, tatuata sotto al seno.
    Continuava ad osservare me e poi la macchia, e ancora me e di nuovo la goccia.
    “Ho capito grazie a questo, la ‘sconosciuta malattia’ di cui soffrivo. Ho fatto così tanti castelli in aria, da farmi sanguinare il cervello e dopo, da una macchiolina rossa e venuto fuori il simbolo gioviano della fertilità…” Poi, gli raccontai tutto quello che sapevo, mentre lui non accennò a interrompermi neppure una volta, come se stesse assimilando, sorso dopo sorso, ogni mia parola e le informazioni che contenevano.
    Avevo quasi dimenticato di essere praticamente nuda al suo cospetto. Edward era immobile come una meravigliosa statua rinascimentale.
    “Tutto bene?” chiesi ben sapendo di aver appena fatto una domanda stupida…
    Lui mi guardò intensamente, come se fossi una gemma preziosa, la sua gemma preziosa e mi condusse verso l’imponente letto, mi fece sdraiare e poi, con una lentezza esasperante, si tolse i vestiti. Prima di fondere le nostre carni, prese a baciarmi dappertutto, non tralasciando neppure un piccolo frammento di me e quando arrivò alla goccia gioviana, un fremito più forte degli altri mi scosse. Baciando quella parte sotto al seno, mi diede la conferma, che ormai, non avevo più nulla da temere.
    “Sei mia! Siete miei!” lo sentii sussurrare, mentre continuava a vezzeggiarmi con la lingua e con le labbra.
    […]
    Era passato quasi un mese dalla grande rivelazione e la villa, i compagni di Edward, compreso il loro Capitano erano in grande fermento. Ormai era deciso. Ci saremmo trasferiti a Londra, in Inghilterra.
    Edward mi aveva manifestato la volontà di cambiare vita e lasciarsi alle spalle ciò che rimaneva del suo passato da pirata. Voleva dare il meglio alla sua donna e al suo bambino. Voleva darle certezze e sicurezza. Non avrebbe mai smesso di essere un Assassino e di compiere delle missioni per conto della Confraternita e quando me lo aveva comunicato, avevo tirato un grosso sospiro di sollievo. Non glie lo avrei mai permesso… non volevo che cambiasse la sua intera esistenza per me. Non servire più il Credo degli Assassini lo avrebbe snaturato, lo avrebbe reso ciò che non era. E non potevo consentirlo. Che lasciasse andare le pazze scorrerie da corsaro fuorilegge, invece, mi stava più che bene. Anche se sapevo, che ancora nascondeva dentro di sé la follia e la spregiudicatezza del pirata che era stato e lo amavo anche per questo. Era tutto per me e non avrei cancellato nessuna parte di lui.
    Mentre Edward era a coadiuvare gli ultimi preparativi per la partenza – la Jackdaw sarebbe salpata presto – mi trovavo nel patio esterno, riparata dal sole grazie a una tettoia di spesse tegole.
    Faceva caldo, ma mi piaceva restare all’aperto e godermi quella magnifica temperatura. Sapevo che a Londra non l’avrei trovata, e volevo farne il pieno. Avevo dovuto rinunciare ai corsetti dell’epoca, e in quel momento indossavo un abito stile impero color giallo limone, venato da piccole striscioline verdi. La stoffa si stringeva sotto al seno per poi posarsi morbida sulle mie forme, circondando il ventre ormai ben arrotondato.
    Leggevo un libro di avventure ed ero immersa nei miei pensieri, quando udii un lieve tossire e alzai lo sguardo.
    Una Consuelo triste e sconsolata mi stava d’innanzi e non parlava.
    La rimirai e mi tornò alla mente lo sguardo di fuoco che mi aveva rivolto, quando Edward aveva fatto irruzione nelle cucine per dare la lieta novella. Se avesse potuto, mi avrebbe incenerito. Era chiaro come il sole, che fosse attratta da Edward, ma non la temevo… il mio uomo non me ne aveva mai dato motivo.
    “Cosa c’è?” chiesi, tentando di mascherare la mia irritazione, apparendo solo fredda.
    “Posso parlarvi? mi domandò, quasi con timidezza. Non era da lei, c’era sicuramente qualcosa che non andava e che non mi quadrava.
    “Dimmi pur…”
    Non feci in tempo a finire di dare il mio consenso che la vidi accasciarsi ai miei piedi, in lacrime, si disperava senza possibilità di conforto.
    Quell’atteggiamento mi stupì non poco. Non avevamo mai avuto un rapporto tale da ascoltare le sue confidenze e quella scena mi destabilizzò.
    “Cos’hai?!” le chiesi sfiorandole una spalla. Mi guardò con gli occhi gonfi e rossi. Mi afferrò la stoffa della gonna e cominciò a parlare senza sosta.
    “Vi, prego Miss Morgan, portatemi con voi a Londra. Non lasciatemi qui… vi servirò con solerzia e dedizione. Vi prego… non mi lasciate qui. Non vi deluderò, lo prometto!”
    La sua richiesta mi fece alzare un sopracciglio sorpresa, e forse non tanto. Il dubbio che volesse seguirci per continuare a stare accanto a Edward mi balenò in testa e mi colpì con un infido stiletto al cuore. Ma, la sua disperazione, per un attimo mi coinvolse e mi fece vacillare. La sua teatralità, però, continuava a farmi serpeggiare una stilla di allarme nelle vene.
    “Perché dovremmo?!” domandai ancora più glaciale. Non era da me, ma proprio non la potevo soffrire.
    “Non posso rimanere qui… non voglio tornare a casa, da mio marito. È un violento e ogni scusa è buona per picchiarmi e farmi del male… Vi prego. Libratemi da questa prigione…” pianse tutte le sue lacrime e continuava ad implorarmi. Se fosse stata una messinscena, allora avrebbero dovuto premiarla per la sua recitazione. E se fosse stato tutto vero? Il dubbio sulla sua sincerità era forte e non sapevo che cosa fare.
    D’altronde, avremmo dovuto portare con noi un paio di donne. Persone “di fiducia”, che ci avrebbero assistito in attesa di assumere nuovo personale a Londra. Di certo, non mi fidavo di lei, ma una buona azione, qualora fosse stata sincera, non poteva rifiutare a nessuno. Se invece, mi stava mentendo, allora ne avrebbe pagato le conseguenze a caro prezzo.
    Ne avrei parlato con Edward, non era una decisione che spettava solo a me, ma mi ero ripromessa, che comunque fossero andate le cose, l’avrei tenuta d’occhio.
    “Va bene, ne parlerò con Edward… non sarò solo io a decidere!” le dissi, mostrando per la prima volta, un piccolo segno di compassione. La aiutai a rialzarsi da terra. Poi, senza ascoltare i suoi alacri ringraziamenti, me ne andai… con delle sensazioni contrastanti nel cuore. “Mi ha detto la verità, oppure no?!” Lo avrei scoperto solo in seguito.
     
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    :Edward:
    I preparativi per il trasferimento definitivo a Londra durarono poco più di un mese. Avevo fretta di concludere questo periodo frenetico e caotico, dove le attività relative mi assorbivano completamente, come se avvertissi che il tempo a nostra disposizione fosse contato e proprio per questo ancora più prezioso. In meno di quaranta giorni preparai la Jackdaw per uno dei viaggi più lunghi che avesse mai compiuto con me: attraversare l'Oceano e raggiungere il porto della capitale inglese.
    Feci una cernita dei tesori che avrei venduto per trasformarli in oro e soprattutto pietre preziose, molto più trasportabili rispetto a quadri, armature, statue, arredi.
    Scrissi al Mentore per annunciargli la decisione che avevo preso, per affidargli la proprietà della villa di Great Inagua e per definire con lui il mio ruolo nella Confraternita inglese una volta sbarcato nel vecchio continente. Lì in Inghilterra il nostro Ordine era esiguo come numero e male organizzato come risorse e mezzi, senza la presenza di un Mentore che possedesse il carisma e il polso necessario per costituire un'effettiva spina nel fianco dei Templari. Stabilimmo che avrei apportato la mia esperienza e le mie ricchezze per aumentare il peso e l'importanza di questo ramo della Confraternita, usando metodo diplomatici per muoverci nell'ombra.
    Prima ancora di rimettere piede, dopo decenni, sul suolo britannico, mi ero garantito una posizione stimabile e potente attraverso consistenti donazioni al governo inglese, donazioni che mi avevano fruttato il perdono ufficiale dei sovrani dal mio passato di fuorilegge e una Concessione Reale per il traffico di tè e di altri generi preziosi. L'attività commerciale veniva svolta con la Jackdaw e altri tre vascelli che avevo acquistato da un mercante in bancarotta. Oltre ad aumentare la mia ricchezza, la nuova professione rappresentava un ottimo paravento per il mio ruolo di Assassino e per consentire un rapido e continuo scambio di informazioni tra la Confraternita locale e quella delle Indie Orientali, a cui rimanevo comunque legato.
    Mi preoccupai di trovare per me e la famiglia che stava nascendo una sistemazione che fosse consona al ruolo sociale che detenevo, e dopo aver assunto i migliori intermediari, acquistai una dimora lussuosa nella City, il quartiere più ricco ed elegante di Londra. L'edificio doveva essere maestoso, con un ampio giardino antistante in cui Nike avrebbe potuto godere del sole tiepido – aveva protestato pensando alla stagione calda e soleggiata a cui doveva rinunciare in questa parte del mondo, ma aveva acconsentito quando le avevo spiegato i motivi della mia decisione.
    Finché avevo dovuto pensare solo a me stesso, e fino a che le mie decisioni e le mie avventatezze avrebbero potuto danneggiare solo me, l'attività di predatore e la vita sregolata che conducevo andavano più che bene. Ma, al pensiero di quello che volevo assicurare alla donna che amavo, al figlio che stava arrivando e a quelli che sarebbero seguiti, allora la questione era ben diversa.
    La villa in mezzo al paradiso terrestre poteva sembrare un luogo idilliaco, però se si guardava appena sotto la superficie, la tranquillità era mantenuta da uomini costantemente di guardia e armati, perché l'eventualità di un attacco a sorpresa da parte di qualche governo (inglese, spagnolo, portoghese) o di un pirata invidioso o astioso era concreto, possibile e pericoloso.
    Trasferendoci dall'altra parte dell'oceano avrei potuto assicurare alla mia famiglia notevoli benefici, agi, comodità di un mondo civile che altrimenti sarebbero stati inaccessibili ma soprattutto, la sicurezza di poter dormire la notte senza armi a portata di mano, come invece era sempre stato.
    Il viaggio in mare fu tranquillo e accompagnato da ottimi venti favorevoli, che ci fecero risparmiare qualche giorno di navigazione. Attraccammo al porto di Londra una mattina, all'alba, e subito trovammo la carrozza che ci attendeva per portarci alla nuova casa in Queen Anne's Square. Il palazzo era imponente ed elegante secondo le mie richieste, e il fabbro aveva già montato sopra al cancello il modellino della Jackdaw come avevo commissionato. All'interno, i mobili eleganti di legno massiccio erano ancora disadorni, da riempire con i cimeli delle scorrerie che avevo conservato.
    Il mio passato non avrebbe dovuto essere di pubblico dominio, ma sapevo che per la società perbenista e ipocrita londinese ero già diventato un gustoso argomento di pettegolezzo, e dopo pochi giorni dal nostro arrivo non contavo più i numerosi inviti a feste o battute di caccia che avevo ricevuto. L'ex pirata, ricco sfondato, era un oggetto di conversazione molto invitante.
    Mentre mi occupavo di avviare l'attività commerciale, andando a conoscere di persona i fornitori e i futuri clienti, Nike sistemò la nostra casa e assunse il personale necessario per gestirla: una governante, un maggiordomo, due camerieri personali, uno stalliere per occuparsi di cavalli e carrozza e del personale per la cucina.
    Ammirai con stupore la sua competenza nell'organizzare quello che sembrava un sistema davvero complicato da mandare avanti, laborioso e strutturato come un alveare in continuo movimento. Gli artigiani che dovevano riparare e ristrutturare alcune parti della dimora lavorarono con impegno per qualche giorno ancora dopo che eravamo arrivati. La casa necessitava di essere rimodernata, ma soprattutto di essere dotata di alcuni accorgimenti che avevo fortemente voluto. Oltre ad un ufficio nel quale avrei svolto alcuni affari, e una sala da gioco dove avrei svolto la maggior parte degli altri, il progetto che mi stava più a cuore era una camera segreta, nascosta dietro gli scaffali della biblioteca, nel quale avremmo conservato gli oggetti più preziosi: il martello del Giudice Supremo e un diario che avevo compilato nel corso delle mie missioni di Assassino, in cui erano annotati elementi sui laboratori gioviani, sui templi di altre civiltà, sui nascondigli templari e sui covi della confraternita. La stanza avrebbe avuto un altro, essenziale, utilizzo, ma mi auguravo che non servisse mai.
    Quel pomeriggio ricevetti nel mio nuovo ufficio una persona che mi era stata indicata come seria e capace da alcuni contatti che avevo instaurato tra la borghesia inglese. Cercavo un contabile che mi aiutasse a sbrigare la parte amministrativa dei miei affari. Ero molto astuto e avevo il commercio nell'anima, ma ero totalmente a digiuno per quanto riguardava contratti e clausole incomprensibili e cervellotiche. La persona che si presentò era poco più di un giovane, dal viso anonimo ma dal fare deciso.
    ”Signor Birch, si accomodi. Mi siete stato caldamente raccomandato da persone di cui ho molta stima”
    “Sono onorato di essere ricevuto da una persona così in vista come siete voi. Da quando la voce del vostro arrivo si è sparsa per Londra, non ho desiderato altro che conoscervi”
    Tamburellai le dita sull'ampio piano della scrivania. Detestavo i salamelecchi incensanti, ma c'era della verità nelle sue parole, perché il mio arrivo era stato chiacchierato e già lo sapevo.
    “Bene... passiamo alle questioni importanti... quando potreste cominciare a lavorare per la mia Compagnia Commerciale? Ho bisogno di far seguire i miei affari da una persona preparata e affidabile”
    L'accordo fu velocemente stabilito, e per sancirlo usai il metodo che preferivo. Aprii uno dei cassetti della scrivania. Uno qualsiasi andava bene, dato che avevano tutti lo stesso contenuto. Presi per il collo una bottiglia di rum, preziosa scorta che mi ero portato dai Caraibi e la posai con ostentazione sul ripiano, davanti al naso del mio nuovo contabile.
    “Dalle mie parti, gli accordi si stringono così, e hanno più valore di un foglio di pergamena con sigillo e firma. Spero che vada bene anche per voi, signor Birch...”
    (…)
    La pioggia scendeva insistente da qualche giorno, e la temperatura esterna era piuttosto rigida per la stagione. Nonostante la primavera fosse quasi al termine, in casa i caminetti erano accesi tutto il giorno in ogni stanza, e servivano ancora i mantelli per ripararsi dai venti gelidi e dai temporali onnipresenti.
    Avevo ormai preso completo possesso della mia nuova vita, ma ancora la felicità che provavo al solo pensiero di quello che possedevo non si placava, né diminuivano l'amore e la passione che provavo per la donna che mi stava accanto.
    Dopo quel breve periodo di crisi, avevamo consumato il nostro amore senza cali di passione. Il mio corpo non ne aveva mai abbastanza del suo, che stava lentamente cambiando per via della vita che cresceva dentro di lei. Il suo ventre si era addolcito così come il suo sguardo e il suo portamento, ma quando facevamo l'amore era sempre un'esperienza eccitante. La sua pelle pareva rifulgere, e i suoi occhi assumevano una tonalità incredibile quando mi guardava. Le esplorazioni su di lei che compievo avevano tutti un inizio e una fine comune: il simbolo verde tatuato sulla sua pelle era porto di partenza e di approdo. Un segno unico sulla carnagione altrimenti perfetta, un ricordo silenzioso della gioia che presto avremmo vissuto insieme.
    Le nostre giornate avevano preso una cadenza quasi rassicurante. Nel tardo pomeriggio, quando gli impegni mondani venivano banditi per poter godere del nostro tempo insieme, sbrigavo le ultime faccende vicino a lei, nel salottino di fianco alla nostra camera. Molto spesso, cenavamo in quella stanza, soli, continuando la serata e terminandola poi in camera da letto, dove facevamo l'amore prima di addormentarci. Tutto era perfetto.
    Quella sera, però, dovevo terminare la scrittura di una lettera ma ero terribilmente nervoso, e i pensieri non si calmavano neanche se li prendevo a calci. Non si sarebbero calmati, fino a che non avessi eseguito quello che avevo in testa da diversi giorni, ormai. Mi alzai in piedi di scatto, attirando lo sguardo incuriosito di Nike. Avevo tutto pronto, dovevo solo portare a termine il mio piano.
    “Preparati, usciamo!”
    Ora che avevo preso la decisione, mi sentivo come poco prima di un abbordaggio, sul ponte della mia nave: concitato e impetuoso e inesorabile. Senza aspettare la sua reazione, mi precipitai dabbasso per cercare lo stalliere e fargli preparare la nostra carrozza nell'immediato.
    Mi armai di tutto il necessario prima di tornare da Nike. Lei aveva indossato uno dei suoi vestiti preferiti, che ancora nascondeva a sufficienza la gravidanza. Per uscire, andai a prendere dal mio spogliatoio un dono che avevo fatto confezionare dal sarto migliore della città: un mantello di pelliccia bianco, con un ampio cappuccio per ripararla dalla pioggia.
    Il suo sguardo sorpreso mi strappò un moto di gioia che contenni a fatica. Le cinsi la vita con il braccio e sfidammo il clima pessimo e inclemente giusto il tempo di rifugiarci nel tiepido guscio della carrozza. Gli agi e il lusso non mi avevano rammollito tutto insieme e se badavo con ossessione a quei particolari era perché le mie attenzioni andavano esclusivamente a lei. Non volevo che si stancasse o fosse in difficoltà. I primi tempi protestava vibratamente ad ogni gesto di tenerezza e di premura che avevo per lei, ma poi la mia cocciutaggine aveva vinto su ogni suo dissenso.
    Il tragitto per le strade deserte durò mezz'ora: la carrozza procedeva lentamente per via degli allagamenti e delle zone ancora non illuminate dal sistema di lampioni pubblici che la città stava installando in quegli anni, per rendere più sicure le passeggiate dei ricchi e degli aristocratici. Non risposi alle domande di Nike, preferendo eluderle con baci passionali.
    Quando la carrozza si fermò, lei sbirciò fuori dal finestrino: l'imponente edificio bianco si scorgeva attraverso il muro d'acqua.
    “La Cattedrale di St. Paul?”
    Sorrisi gratificato e felice come un bambino. Non ero affatto religioso, a stento sapevo a quale confessione appartenesse quella chiesa, ma mi aveva colpito molto il suo aspetto moderno, con due torri campanarie davanti alla facciata. E quando mi ero risolto, era stato naturale scegliere, anche in quel caso, il meglio che era a mia disposizione.
    Presi un respiro profondo, deglutii a fatica. Ero felice come un bambino, ma ora di infantile avevo anche le paure.
    “E' da qualche tempo che ci medito su. Non amo le cerimonie troppo fastose e teatrali, quando si tratta di questioni che ho a cuore. Quindi... Miss Alice Morgan e Nike, Giudice Supremo di Giove... vuoi sposarmi?”
    Avevo posato la mia mano sul cuore, come un uomo dovrebbe fare nel parlare con la donna amata. Nike mi guardava immobile come una statua, gli occhi che brillavano nella penombra. Mi morsi un labbro.
    “Immagino che tu possa avere delle riserve sul fatto di diventare la signora Kenway; anche se ho fatto di tutto e continuerò ad impegnarmi per renderlo un cognome rispettabile, ti capisco. In certe zone del mondo ancora tremano a sentire il mio nome. Però ti amo. E voglio che il nostro amore sia sancito da qualcosa di ufficiale. Non posso più vivere giorno dopo giorno con la paura che tu possa andare via. E poi, mi sono stancato di essere lo scapolo più ambito di tutta la città. Certe madri possono essere più pericolose di un pirata, quando si tratta di trovare un buon partito per le loro figlie...” Feci un sorriso ironico, prima di tornare serio. ”Voglio presentarti al mondo come mia moglie, e desidero che nostro figlio...”
    La sua bocca mi bloccò nel mio discorso. Mi baciò con passione, con forza, con entusiasmo e infinita dolcezza. C'era tutto il suo amore in quel bacio, e decisamente anche la sua risposta, quella che metteva un freno ad ogni timore reale o immaginario che covavo in una parte minuscola della mia anima.
    Ero stato avventato, come in tutte le cose della mia vita. Avevo preso una decisione per entrambi, senza parlarne prima con lei, ma a mia discolpa potevo dire che solo il suo amore mi ancorava a qualcosa di solido, di giusto, per cui avrei combattuto fino all'ultima goccia del mio sangue.
    Dalla tasca della giacca tirai fuori l'anello che avevo scelto come simbolo del mio amore. Era un anello degno di una regina, ma ai miei occhi valeva solo la metà di quello che era lei per me. Le presi il viso tra le mani, i profili che si sfioravano, il respiro che si condensava in piccole nuvole di vapore.
    “Ora dobbiamo solo trovare un prete che offici la cerimonia!” Sussurrai raggiante.
     
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    Roberta
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    :Nike:
    Il nostro trasferimento a Londra aveva rappresentato un cambiamento radicale nelle nostre vite. Non solo nella quotidianità, in cui le attività erano molto più impegnative e consistenti, ma soprattutto nel clima. A Great Inagua amavo crogiolarmi sotto i caldi raggi solari e passavo gran parte delle giornate a leggere e studiare in giardino o a fare delle lunghe passeggiate, sempre rigorosamente accompagnata dal mio Edward. Sapevo che quei luoghi non erano sicuri e che a ogni albero o cespuglio della giungla si potevano annidare dei pericoli, ma io sapevo badare a me stessa e nonostante tutte le mie rimostranze e insistenze per poter uscire da sola, Edward non me lo aveva mai permesso. Dopo le prime volte in cui le nostre accese discussioni erano giunte anche alle orecchie della sua ciurma, che ci aiutava in casa, avevo deciso di mollare la presa. Era inutile incaponirmi di fronte alla dolce testardaggine del mio uomo. Non si sarebbe mai abituato a vedermi come una Guerriera, sebbene stesse facendo degli sforzi immani per considerarmi come Giudice Supremo di Giove. Era una realtà così distante e diversa dalla sua esistenza, dalla sua visione, che faticavo ogni volta a tranquillizzarlo. Il fatto che fossi incinta poi, non migliorava le cose, mi sentivo come un tesoro custodito gelosamente, fin troppo gelosamente. Ma alla fine, mi bastava guardarlo nei suoi occhi blu mare e perdermi nell’immenso amore che provavo per lui. Comprendevo quanto tenesse a me e al nostro bambino e tutta la mia rabbia si sgonfiava come un soufflé cotto male.
    Era per lo stesso motivo che non avevo battuto ciglio quando mi aveva comunicato più che proposto del nostro viaggio in Inghilterra. Voleva che tutto fosse perfetto e che la sua famiglia fosse al sicuro.
    Il sole caldo e bruciante mi mancava come l’aria. A Londra il cielo era sempre grigio e le stanze umide, sebbene i camini fossero perennemente accesi. Ma non me ne importava, facevo di Edward il mio astro scintillante in grado di riscaldare la mia pelle e la mia vita.
    Adesso, oltre a dedicarmi ai miei studi e alle mie letture – adoravo apprendere sempre più della cultura “umana” – mi occupavo della gestione della casa. Avevo portato con me dai Caraibi Consuelo e altre due donne di fiducia, e queste mi avevano aiutata molto, mentre assumevo del nuovo personale, che loro stesse avrebbero poi organizzato e “addestrato” affinché fossero a conoscenza delle nostre abitudini e delle nostre esigenze.
    Edward era sempre molto impegnato con la direzione dei nuovi affari di famiglia, aveva messo in regola i fatti in sospeso con la Corona inglese e aveva riabilitato il suo nome di fronte alla nobiltà britannica. Cosa non si poteva fare con il denaro! Ogni volta rimanevo attonita di fronte alla facilità con la quale il mio amato risolveva le sue questioni quotidiane. Gli essere umani erano così facili da persuadere e da manipolare ed Edward era riuscito a fare breccia nei loro cuori e nelle loro menti, creando un fitto alone di mistero intorno alla vita dell’ex pirata Capitano Kenway. Di conseguenza, la copertura per le sue missioni di Assassino era assicurata e avrebbe potuto muoversi a suo piacimento, senza dare nell’occhio. Anche se la sua semplice presenza dava vita a mormorii curiosi e pettegoli, nessuno mai si sarebbe accorto della sua seconda vita. O terza, quella accanto al Giudice Supremo di Giove.
    Per tutti ero Miss Alice Morgan. Il mio nome umano fittizio aveva reso bene e adesso ne potevo usufruire a pieno. Solo Edward conosceva la mia vera identità e Adéwalé, che per il momento non era ancora giunto dai Caraibi, sarebbe partito a breve, con l’autorizzazione del Mentore Ah Tabai come tramite tra la sua Gilda e quella di Londra, e come braccio destro sul campo per i commerci oltreoceano della Compagnia commerciale di Edward.
    Erano ormai giorni che notavo un certo nervosismo negli atteggiamenti del mio pirata. In un primo momento, lo avevo attribuito agli impegni pressanti e alle incombenze che gravavano su di lui da tempo, poi, avevo collegato questo suo disagio soprattutto nei miei confronti. Quando mi guardava aveva una luce strana negli occhi, diversa, pensierosa e subito dopo distoglieva lo sguardo e a volte cambiava discorso. Era premuroso e passionale allo stesso tempo. Non mi faceva mancare nulla e mi donava quanto più amore possibile, ma ogni tanto si eclissava e la sua espressione tradiva ansia… lo rimiravo da lontano, senza farmi notare.
    Quando una sera, di punto in bianco mi raccomandò di vestirmi pesante e di uscire con lui, sotto un diluvio di proporzioni epiche, compresi che finalmente stavo per scoprire qualcosa. Avevo provato a parlagli prima, ma le sue risposte erano sempre rimaste sul vago. Adesso, però, sentivo che avrei scoperto cos’era che lo aveva tormentato così a lungo.
    Avevo indossato il mio abito preferito, era comodo e morbido sul mio corpo – avevo abbandonato del tutto, per forza di cose, i corpetti usati all’epoca e non li rimpiangevo –, che nascondeva in parte le mie forme arrotondate e un mantello di pelliccia bianca e soffice come una nuvola.
    Mi ritrovai davanti a una chiesa e la proposta che Edward mi fece, mi lasciò senza parole, senza respiro, senza pensieri…
    “È da qualche tempo che ci medito su. Non amo le cerimonie troppo fastose e teatrali, quando si tratta di questioni che ho a cuore. Quindi... Miss Alice Morgan e Nike, Giudice Supremo di Giove... vuoi sposarmi?”
    Un nodo mi attanagliò la gola. Cosa avrebbe significato un Giudice Supremo spostato? Cosa avrebbe cambiato questo nella mia vita? Oppure avrebbe davvero cambiato qualcosa? L’unica certezza che avevo era vedere Edward tanto entusiasta e vibrante di gioia, da poter quasi sentire il suo petto esplodere. Volevo diventare la moglie del capitano Edward Kenway? Come Alice Morgan, come Nike o come entrambe? La mia mente lavorava frenetica in quegli attimi che erano sospiri rubati e che non sarebbero mai più tornati. Al diavolo tutto! Le riflessioni, le preoccupazioni, ciò che era e ciò che avrebbe dovuto essere. Ciò che mi aspettava insieme all’uomo che amavo era pura felicità e sapevo fin troppo bene che non sarebbe durata a lungo, quindi decisi che mi sarei goduta ogni singola goccia d’amore, di passione, di gioia che il tempo ci avrebbe concesso. Avremmo vissuto le nostre vite, come se ogni giorno potesse essere l’ultimo, solo cullati e protetti dai nostri sentimenti indissolubili.
    Il mio attimo di esitazione in cui avevo farneticato nella mia testa, aveva mandato in tilt il mio povero Edward, che aveva iniziato a sproloquiare, tentando di spiegarmi le sue ragioni. Lo amavo con tutta me stessa, tanto quanto lui. Era giusto donargli ciò che desiderava, quello che era importante per lui, per me sarebbe stato l’ennesimo lucchetto che assicurava il mio cuore al suo. Voleva qualcosa di ufficiale e voleva che io fossi sua moglie davanti al mondo intero. “E allora, sì. Mille volte sì, sempre insieme, sempre al tuo fianco.”
    Non mi erano piaciute le sue battutine sulle altre possibili pretendenti, ma sapevo che stava parlando a ruota libera e che qualche provocazione da parte sua era più che probabile, per scuotermi dal mio “inquietante silenzio”. Non volevo più farlo rimanere sulle spine, ma era così ansioso di conoscere la mia risposta, che stava quasi per impazzire ed io provai una tenerezza infinita per quell’uomo grande e grosso eppure così innamorato, sentendomi enormemente fortunata ad essere io la donna dei suoi sogni. Posi fine a quella dolce tortura con un bacio appassionato. Lo strinsi tra le mie braccia, quasi volessi fondere la mia pelle alla sua, il tempo, lo spazio, l’aria non esistevano, solo le nostre labbra incollate in un assenso tacito, ma eloquente.
    Per l’ennesima volta aveva deciso lui per entrambi, e come sempre io sarei stata lì consentirglielo. Lo amavo troppo e mai mi sarei separata da lui, non volontariamente almeno.
    Scacciai quel velo di tristezza che minacciava di inquinare un momento tanto idilliaco e indossai l’anello di fidanzamento più grande che avessi mai visto. Era tornato il solito Edward, quello che non badava a spese e che voleva il meglio per la sua adorata futura moglie.
    Ci incamminammo verso l’enorme portone della chiesa e vi entrammo di volata, tentando di sfuggire alla cascata di pioggia che ci avrebbe inzuppato come stracci se non avessimo indossato i nostri preziosi soprabiti.
    Tra i banchi dell’edificio sacro vuoto incontrammo un sacerdote impegnato ad accedere alcune candele. Edward si precipitò da lui tenendomi per mano. E con gli occhi che brillavano gli comunicò le nostre intenzioni. Quando l’uomo iniziò a parlare di documenti e certificati, il mio bel pirata sfoderò uno dei suoi sorrisi più smaglianti, di quelli che mi riscaldavano il basso ventre ogni volta che lo osservavo, e sventolò alcuni fogli sotto al naso incredulo del sacerdote.
    Ma quando aveva fatto tutto questo? Io “non esistevo” neppure… mi aveva parlato che avrebbe voluto autenticare i miei documenti di identità, ma non avevo idea se l’avesse fatto o meno. Adesso ne avevo la certezza. Aveva organizzato tutto senza farmene parola e compresi definitivamente che doveva essere stato questo il motivo del suo stress e del suo nervosismo.
    “Invece di tenermi nascosta la verità e sobbarcarti tutto il lavoro, avremmo potuto affrontare questa cosa insieme…” gli dissi sottovoce guardandolo intensamente.
    Approfittando del momento di assenza dell’uomo di chiesa, che era andato in fretta e furia a “organizzare il matrimonio” su indicazioni di un Edward molto persuasivo, ricambiò il mio sguardo e mi abbracciò con forza.
    “Non ero sicuro di volerlo, non ero sicuro lo volessi. Alla fine, ho fatto tutto spinto da un’euforia incontrollata e so per certo che mai me ne pentirò e tu? Sei certa di questo passo? Non sei obbligata…” Stava di nuovo tergiversando afflitto dall’agitazione. Voleva darmi un’ultima occasione di tirarmi indietro qualora avessi avuto qualche dubbio, ma l’unico ad arrovellarsi era soltanto lui.
    Lo allontanai un poco da me, per poterlo guardare in volto.
    “A me va benissimo così, davvero! Solo che se me ne avessi parlato ti saresti risparmiato un sacco di grattacapi e angosce inutili” gli sorrisi con tutto l’amore che gli portavo…
    In quel momento, giunsero il prete e altre due persone, che scoprimmo in seguito essere la donna che aiutava a mandare avanti la chiesa e il falegname che stava ultimando alcune riparazioni nella canonica. Servivano due testimoni per presenziare alla cerimonia e il sacerdote li aveva “procurati”. Non avevamo bisogno di altro.
    Poco dopo, una vera nuziale identica a quella di Edward, ma più sottile, accompagnava il mio anello di fidanzamento sull’anulare sinistro. La funzione era stata rapida ma intensa. Avevo il cuore che mi batteva a mille e non facevo altro che sorridere, come se non lo avessi fatto per tutta la vita e in futuro non avrei avuto più occasione per farlo.
    Edward mi portò a casa, per fortuna il temporale ci aveva concesso una tregua e mio marito non perse l’occasione di mantenere l’usanza di attraversare la soglia con la neo sposa sospesa tra le sue braccia. Non importava che già vivessimo lì da tempo, non importava che fossi incinta. La tradizione andava rispettata! Ridemmo come pazzi e ci godemmo quel nostro angolo di felicità coronandolo in camera da letto, dove mi donai al mio pirata con tutta me stessa. Come se fosse la prima volta, come se fosse l’ultima e l’amore che provavo per lui mi parve potesse uscire dal mio corpo e disegnare fuochi d’artificio sul soffitto.
    Era tutto perfetto, e sarebbe rimasto indelebile nella mia mente e nel mio cuore, anche quando sarei stata lontana, anche quando il dovere avrebbe di nuovo bussato alla mia porta e io avrei dovuto rispondere alla chiamata, ma adesso eravamo solo lui ed io, anzi con un terzo pezzo di noi in arrivo. Facemmo l’amore a lungo, con passione, con dolcezza, con l’anima e col fisico. Avrei detto di sì altre mille, un milione di volte se ciò mi avesse aiutato a fermare il tempo per farmi vivere quel magico momento in eterno.
    […]
    Erano passati mesi dal nostro arrivo in Inghilterra e anche dopo il matrimonio la nostra vita si era svolta senza particolari scossoni. Lui si occupava della Compagnia commerciale insieme al suo braccio destro, il signor Birch ed io delle mansioni relative alla gestione della casa e delle mie ricerche.
    Alla fine, Edward mi aveva convinta. Saremmo andati al ricevimento organizzato da una delle famiglie più in vista di Londra. Da quando “mio marito”, l’ex pirata Edward Kenway si era stabilito nella city, erano fioccati numerosi inviti a party, ricevimenti e feste patrocinate da questo o da quel riccone imbellettato. Fino ad ora, ero riuscita ad evitarli quasi tutti. Solo a qualcuno era andata poiché impossibilitata a rifiutare. Purtroppo, anche in quell’occasione, non avrei potuto sottrarmi. E avevo accettato con più facilità, solo perché avevamo saputo che sarebbero stati presenti alcuni dei maggiori esponenti dell’Ordine Templare di Londra e non avremmo perso questa occasione d’oro per farci un’idea dei nemici della Confraternita.
    Per Edward era necessario conoscere i suoi avversari e io lo avrei sostenuto con ogni mezzo. Volevo che fosse protetto e che agisse sempre in sicurezza. Quindi, quale migliore protezione del “conosci il tuo nemico”?
    Nessuno sapeva della sua seconda vita, dunque, avremmo potuto indagare e osservare senza dare nell’occhio.
    Indossai un abito di velluto nero stile impero. Una fascia di smeraldi delimitava il mio seno ormai prosperoso e dava inizio alla stoffa che ricopriva morbida il mio ventre e i fianchi. Le spalle erano coperte da un pellicciotto verde, abbinato alle scarpe e a una borsetta pressoché inutile, ma doverosa. Non amavo mettermi in tiro con trucco e acconciature elaborate, ma volevo essere sempre all’altezza della situazione accanto al mio sposo. Una domestica mi aiutava nel mio intento e tutta la fatica che facevo, soprattutto con un pancione di otto mesi, era ripagata dallo sguardo estasiato di Edward, che ogni volta che mi vedeva scendere dalla scalinata nel patio di casa, si precipitava ad aiutarmi e mi osservava come se fossi il più raro e prezioso dei tesori, e secondo il metro di giudizio del pirata che era stato, dovevo ritenermi davvero soddisfatta.
    Quella sera, la sua reazione non fece eccezione. Era come se non vedesse le mie curve all’altezza dei fianchi e dell’addome. Noi gioviane non prendevamo peso come le umane in maniera uniforme, ma la pancia cresceva parecchio ed eravamo costrette a subire dei mal di schiena allucinanti, perché la colonna vertebrale non sopportava il peso sproporzionato del ventre.
    Edward pareva non essersi accorto di quel “cambiamento”. Per lui ero sempre la sua solita Nike e questa cosa la adoravo.
    Mi prese per mano e mi accompagnò fino alla carrozza, aiutandomi a salire. Non aveva detto una parola fino a quel momento. Si avvicinò al mio orecchio e in un soffio mormorò: “Stasera i tuoi occhi brillano più degli smeraldi che indossi…”
    Lui non era prodigo in frasi sdolcinate o in smancerie smielate, preferiva dimostrare il suo amore, che confessarlo a parole, ma quando mi inchiodava con quelle frasi di pura ammirazione restavo sempre stupita e lusingata. I suoi piccoli gesti e le sue premure erano un balsamo per i miei sentimenti, ma quando andava oltre la sua natura di rude pirata mi spiazzava ogni volta e apprezzavo ancora di più quei rari momenti.
    Adesso seduti l’uno di fianco all’altra, lo baciai, sfiorandogli le labbra con la lingua umida.
    “Ti amo” gli dissi in un sussurro. Lui mi passò un braccio intorno alle spalle e mi strinse a sé in un chiaro segnale di possesso.
    “Anch’io.” Per essere coerenti con il suo carattere, non diceva neppure molto spesso “ti amo”, ma io non avevo bisogno di sentirglielo dire… il suo amore lo sentivo e lo percepivo sulla mia pelle, il resto erano solo parole, che io volevo pronunciare per ricordargli che sarei sempre rimasta marchiata a fuoco nel suo cuore.
    Il ricevimento era sontuoso come la villa in cui era ospitato. Il salone da ballo era enorme e addobbato con migliaia di candele e festoni, i buffet imbanditi di ogni tipo di dolciume, vivanda e bevanda. Una piccola orchestra suonava pezzi di sottofondo e l’atmosfera era serena e rilassata. Non adoravo confrontarmi con questo tipo di gente, mi sembravano tutti bravi attori di teatro, con i loro sorrisi fasulli e le loro storie altisonanti.
    Edward veniva spesso preso di mira da questo o da quel nobile, o borghese arricchito, incuriositi dal suo passato e sempre con una domanda pronta, per sapere, per scavare nella sua vita. Il mio amato marito era prodigo di sorrisi – altrettanto finti – e di storie piratesche che sarebbero potute sembrare rocambolesche e gonfiate ad uso dell’ascoltatore, ma che solo io sapevo essere vere fino all’ultimo dettaglio più folle. Conoscevo Edward e lo avevo visto in azione. In battaglia era una furia e i suoi nemici tremavano al suo cospetto. Quei bambocci stuccati sorridevano soddisfatti dell’aneddoto, ma ignari della vera identità di colui che avevano d’innanzi.
    Il capitano Edward Kenway era stato un pirata spietato ed era un Assassino fedele alla causa. Era un marito invidiabile e presto sarebbe stato un padre senza eguali. Era tutto questo insieme e nessuno meglio di me comprendeva la perfezione del suo essere, incluse la sua sfrontatezza, la sua arroganza e la sua voglia di fare sempre tutto da solo, tenendomi all’oscuro delle sue geniali idee, con la sola frase a conclusione: “devi solo dire di sì!.”
    La voce di Edward interruppe il corso del miei pensieri e mi indicò alcune persone.
    “Vedi laggiù? Mi sono informato… è Rupert Ferris, un ricco capitalista, membro dell'Ordine dei Templari al servizio del Gran Maestro Starrick. È specializzato nella gestione delle fabbriche e dei magazzini di tutta Crawley.”
    Potei osservare un uomo tarchiato con barba brizzolata e sguardo truce. Non mi piaceva per niente. Intanto Edward continuava a parlare. “E quella donna, in fondo, è Lucy Thorne: studiosa e ricercatrice, è anche lei una Templare e si occupa della ricerca e dello studio di manufatti antichi, e anche di quelli giovani tra le altre cose. Da quando non sono più ‘gli addetti ufficiali’ al recupero delle reliquie, si sono messi in testa di volerle studiare e di tentare di ricavarne quanto più possibile!” concluse con tono sprezzante.
    Un moto di rabbia mi colpì senza che potessi fermarlo. Ero scombussolata e un forte senso di nausea mi avvolse. Odiavo quando sentivo parlare di oggetti giovani trattati come merce di scambio e di guadagno.
    Edward mi strinse un braccio e mi sostenne, intuendo al volo il contenuto delle mie riflessioni. “Stai tranquilla, per quanto ne so, al momento, qui a Londra non sono in possesso di nessuna reliquia di Giove. Ne hanno sentito parlare dai colleghi del Sud America, e vorrebbero averle tra le mani, ma è ancora una chimera per loro e faremo in modo che restino tale”
    Il suo calore mi aiutò a superare quel momento di collera mista a disgusto. Mi offrì un bicchiere di champagne e tentai di rilassarmi un po’.
    Mi indicò ancora qualcuno, elencandomi le loro gesta e mi resi conto che Edward, come Assassino a Londra, avrebbe dovuto fare davvero un grande lavoro. I ricchi spopolavano e depredavano gli indigenti che diventavano allora sempre più poveri. Ammiravo la sua volontà di unirsi alla Gilda inglese e sbaragliare i tiranni del commercio e dell’industria coatta.
    All’improvviso ebbi un forte capogiro e percepii il tatuaggio sotto al seno ardere, come se un piccolo incendio avesse avvolto la mia pelle. Appoggiai una mano sul ventre e mi accasciai, colpita da dolorose stilettate. Edward, che era al mio fianco mi aiutò a non crollare di schianto al suolo…
    “Cos’hai? Nike… rispondimi…” mi chiese sottovoce, più preoccupato che mai.
    No, non poteva succedere davvero, non poteva succedere adesso, era troppo presto. No, ti prego!
    Gli invitati accorsero in massa per vedere cosa stesse accadendo.
    “State lontani, fatela respirare!” quasi ringhiò Edward verso di loro. Questi si allontanarono un po’, rimanendo comunque inquieti.
    “Il bambino, Edward…!” dissi in un soffio. Il dolore era troppo forte e mi impediva di parlare, addirittura di articolare pensieri di senso compiuto.
    “Cos’ha il bambino? Sta male? Stai male… ti porto subito da un dott…” lo interruppi afferrandogli un braccio, preda di una fitta allucinante e urlai la mia sofferenza. Il simbolo della fertilità continuava a bruciarmi la pelle e si assommava alle doglie ormai incombenti.
    “Il piccolo sta per nascere!” dissi con assoluta certezza… Come poteva pensare prima al fatto che stesse male e non alla cosa più ovvia, come la sua nascita?! Era sempre il solito disfattista. Non che quel momento fosse idilliaco, adesso, ma ci avrei ripensato in seguito…
    Edward si rese conto della notizia che gli avevo appena dato e un’espressione raggiante, ma preoccupata allo stesso tempo si dipinse sul suo viso. Mi prese in baccio, sollevandomi come se fossi una piuma. Mi aggrappai alla giacca e appoggiai la fronte al suo petto. La sofferenza quasi mi accecava, ma dovevo essere forte, dovevo resistere ancora un po’ e poi avrei potuto abbracciare mio figlio e tenerlo stretto al mio seno.
    “Andiamo tesoro… ci penso io a te, andrà tutto bene, te lo prometto!” mi disse in un orecchio, prima che un altro urlo “disumano” fuoriuscisse dalla mia bocca per sugellare quel giuramento solenne.
    “Io sono qui tra le tue braccia… Vedi di mantenere la promessa Capitano Kenway, il nostro bambino ci aspetta!”
     
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    :Edward:
    Stavo fissando la porta di legno scuro della nostra camera da letto come se fosse un nemico. La detestavo perché rappresentava l'ostacolo insormontabile tra me e quello che stava succedendo al di là.
    Ovviamente, quel pezzo di legno non ne aveva nessuna colpa. Ma tanto bastava per trovare il modo di sfogare la mia preoccupazione, la mia impazienza e anche, la mia inquietudine. Non ero abituato a circostanze che comprendevano bambini, partorienti e simili. Erano troppo lontani dal mondo in cui avevo vissuto, dove gli uomini hanno incarichi e doveri ben diversi che non stare a casa ad occuparsi della prole. Però, anche se fosse stato il contrario, con Nike non avevamo mai parlato di questo momento, troppo presi da noi stessi, dai progetti e dai doveri che riempivano le nostre giornate.
    Il tragitto dalla festa fino alla nostra dimora era stato precipitoso, avevo condotto io personalmente la carrozza per la paura che un'andatura o un sobbalzo troppo violento potesse complicare le cose, ma al contempo temendo che un passo troppo lento sarebbe stato insufficiente per raggiungere in tempo la nostra casa.
    Avevo manifestato la mia agitazione con modi bruschi e irritati con chiunque, dagli invitati alla festa che erano troppo curiosi ai valletti che non erano abbastanza veloci a liberare la strada per permetterci di partire, mentre Nike sembrava così tranquilla e padrona di se stessa che quasi mi domandavo chi davvero stesse per avere un figlio.
    Solo qualche minuto prima che si chiudesse in camera, mi aveva rassicurato che non avrebbe avuto bisogno di nessuno che la assistesse, che le donne del suo popolo erano in grado di cavarsela da sole e che sarebbe stato più sicuro per noi se nessun terrestre avesse assistito al parto,
    Ad occhi estranei ora sarei apparso distaccato e quasi noncurante.
    Mi appoggiai al muro con le braccia conserte, in posizione rilassata; era quello uno dei volti che mostravo al mondo, dell'uomo talmente sicuro di sé da essere presuntuoso e insolente, abbinato al personaggio ambizioso e privo di scrupoli che aveva fatto fortuna con i suoi affari in passato non sempre limpidi.
    Non era trascorso poi molto tempo da quando quella porta si era chiusa, davanti alle mie domande e alle mie offerte di aiuto. Una mezz'ora, forse neanche. Tendevo l'orecchio per captare ogni più piccolo indizio di quello che stava succedendo, un segno che potevo utilizzare come appiglio, come scusa per entrare e superare il divieto che aveva imposto Nike prima di entrare.
    Silenzio. Tranquillità. Potevo udire rare carrozze passare sulla strada con uno sferragliare quasi irritante di finimenti.
    “Edward... è tutto a posto?”
    “Signor Kenway, possiamo fare qualcosa per lei o per la signora?”
    Trasalii. Distolsi lo sguardo dalla porta per trovare, schierati in silenziosa attesa, una buona parte dei dipendenti dell'abitazione: i nostri camerieri personali, Consuelo, le donne della cucina e il maggiordomo. Forse avevo fatto troppo baccano rientrando, ma avevo sempre pensato che certi momenti contrastavano con il silenzio e la cautela.
    Eppure, Nike era stata chiara: “Lasciami sola e non preoccuparti. Abbi cura solo di mandare via tutti, che nessuno sia presente. E' importante!”
    Feci un cenno brusco nella loro direzione: “Tornatevene tutti quanti a dormire, è un ordine!” E ripresi la mia personale veglia. Non mi piaceva il cliché del marito che passeggiava nervosamente davanti alla stanza ma perdio, ero a un soffio dall'esserlo! Avrei preso a pugni il muro, per l'impazienza. Un buon bicchiere di rum mi avrebbe calmato, ma non riuscivo a distogliere più di qualche secondo, forse solo per battere le palpebre, gli occhi da quella soglia, men che mai allontanarmi.
    Ad un tratto, vidi filtrare da sotto la porta una debole luce verde. Mi raddrizzai e ritenni che quella fosse un'ottima ragione per entrare, al diavolo tutto!
    Mi mossi con gesti cauti e facendo la massima attenzione a non causare alcun scricchiolio o fruscio rivelatori. Misi dentro la testa, e quello che vidi mi lasciò senza fiato, togliendomi ogni pensiero valido o sensato dalla mente.
    In mezzo alla stanza, in controluce davanti alle candele accese, c'era Nike. Indossava solo una camiciola corta e leggera, che alla luce era diventata trasparente, e il suo corpo spiccava netto e come disegnato su una superficie liscia. Le sue forme erano cambiate, avevano perso la rotondità delle ultime settimane, erano tornate sottili e armoniose come quando la avevo conosciuta, quando si era impossessata dei miei desideri per sempre.
    La sentii ridere sommessamente: “Sei arrivato giusto in tempo per conoscerlo, Edward”
    Si girò verso di me, per mostrarmi la forma che teneva tra le braccia. Mi avvicinai con lentezza, e quando risposi, dovetti prima mandar giù un pericoloso ammasso di emozioni che premevano contro la gola, schiacciandola. “Conoscerlo? E' un maschio?”
    Un neonato perfetto, con la piccole mani strette a pugno e i piedi grinzosi, gli occhi chiusi e l'espressione beata. Notai di sfuggita che anche il simbolo verde sotto al suo seno stava sbiadendo. Una profonda gioia mi esplose in petto. Prevalse quella sul sollievo e sull'orgoglio maschile. Avevo un erede, un figlio al quale insegnare tante cose sul mondo, sull'onore, sull'amore, sul coraggio, sugli ideali degli Assassini.
    “Come lo chiameremo? La domanda di Nike, fatta con un tono calmo, mi spiazzò non poco. In mesi che avevamo avuto di tempo per decidere, mi accorgevo che non era una decisione che avevo ponderato. Il nome era importante, poteva segnare un destino, agevolare o avversare fortune e caratteri. Nessuno nella mia famiglia spiccava per buona stella o intraprendenza, a parte il sottoscritto, quindi non avrei certo scelto il nome di mio padre o di mio nonno, come molti facevano.
    Nel frattempo, lei si avvicinò e con delicatezza mi mise tra le braccia mio figlio. Sentii la bocca diventare secca d'un colpo, e la testa diventare leggera, senza più peso alcuno.
    Mio figlio.
    Nostro figlio.
    Nike pareva divertita, osservandomi. Sicuramente, stavo vivendo un'emozione che non potevo paragonare ad altro che mi fosse già capitato. L'amore per quel piccolo essere, lo stupore della sua esistenza avevano superato ogni barriera di cinismo e durezza che mi caratterizzavano. Lei si allontanò per prendere un oggetto dal suo contenitore di gioie.
    “Come ti chiamerai? Dovrà essere un nome speciale, come te...” Dissi parlando con dolcezza e impaccio, nel timore di spaventarlo. Avvicinai il viso per posargli un lieve bacio sulla fronte.
    Mi tornò in mente un ricordo di anni lontani, una storia raccontata da un marinaio che si vantava di aver girato il mondo in lungo e in largo.
    “Lo chiameremo Haytham. Haytham Kenway sembra davvero un nome importante”
    Nike mi guardò con un lieve sorriso sulle labbra. Conosceva molte culture e lingue umane, quindi commentò: “Haytham significa giovane aquila in arabo...”
    “Esatto. L'aquila è il simbolo del nostro Ordine. Credo proprio che sarà di buon auspicio”
    Lei annuì, i suoi occhi che splendevano come stelle. Alzò le mani e notai che reggeva una piccola collana, con un pendente più simile ad un comune sasso che ad un ciondolo sofisticato. Una piccola pietra lucida e trasparente come uno smeraldo, con una sottile montatura in metallo.
    “Haytham. Questo è il dono che tua madre ha per te!” La sua voce era bassa e solenne. “Questo ciondolo rappresenta uno dei rituali più importanti per la nostra cultura. E' il dono che una madre fa al suo primogenito. E' un simbolo talmente importante che è l'unico oggetto che possiedo dei miei genitori, che non ho mai conosciuto. E ora spetta a te, Haytham”
    I nostri sguardi si incatenarono sopra nostro figlio. Contenevano mondi, universi, promesse, paure, speranze, insicurezze ma soprattutto amore. Non erano necessarie altre parole.
    (...)
    Allungai il braccio, come spinto da una necessità incontrollabile. Per una frazione di secondo, un'eco spiacevole risuonò nel mio cervello, e sentii l'insicurezza e la paura di trovare di nuovo il vuoto tra le lenzuola. Invece, toccai la sua schiena, vicino a me. Nike era distesa su un lato. Dai rumori attutiti che udivo, immaginai con facilità cosa era in atto. Era piena notte, e tutte le luci erano spente. Solo la luminosità esterna della città permetteva di intravvedere alcuni particolari della stanza, dei mobili e della culla di Haytham.
    Mi avvicinai a lei, facendo aderire il petto alla sua schiena. Poggiai la testa sulla mano, il gomito puntato sul materasso. La sua voce mi salutò sommessa e intenerita: “ Non ti volevamo svegliare!”
    Feci passare l'altro braccio sopra il fianco di Nike, e con la mano sfiorai il capo di Haytham. Un lieve rumore soddisfatto accompagnava il suo succhiare dal seno.
    “Non mi avete svegliato. E non mi sarei mai perso tutto questo per nulla al mondo”
    “Ha quasi finito di mangiare, questo angioletto...”
    Feci scivolare giù la camicia da notte dalla spalla di Nike, distribuendo tanti baci leggeri sulla sua spalla nuda, risalendo su per il collo, giungendo al lobo e poi allo zigomo. La sentii sospirare di piacere, mentre girava il viso per ricevere il mio bacio sulle sue labbra.
    Un piccolo schiocco secco sancì il termine della poppata.
    “Ottimo, piccolo Kenway. Mangi come un lupo e cresci come un fulmine!”
    Decretai soddisfatto, prendendolo dal piccolo spazio tra il corpo e il cuscino in cui lo aveva sistemato sua madre per allattarlo. Appoggiai la schiena ai cuscini e adagiai mio figlio sul torace. Sorrisi appagato, mentre Nike appoggiava la guancia sulla mia spalla.
    Avevo l'amore, la ricchezza, la fama, uno scopo onorevole nella vita.
    Avevo combattuto per ottenere ciò che volevo. Ero soddisfatto. Durante il giorno lavoravo per difendere tutto questo, e la notte ricevevo come ricompensa momenti di pura gioia.
    (...)
    Entrai nello studio a mattinata inoltrata. Era un giorno di festa, quindi la scrivania dove di solito il mio dipendente svolgeva il suo lavoro era vuota. Mi guardai intorno.
    Oltre alle due scrivanie in legno scuro, nell'ufficio tenevamo solamente i registri delle commesse e l'archivio dei contatti che facevano capo alla mia attività commerciale. Gli altri documenti, quelli confidenziali e pericolosi, erano custoditi nella stanza segreta dietro la libreria.
    Era tutto in ordine, l'ordine maniacale in cui lasciava ogni cosa Reginald. Io, per mio conto, passavo davvero poco tempo in quella stanza, preferendo incontrare clienti, fornitori e alleati in altre sedi più informali. Nella stanza da gioco, fornita di un ampio tavolo, sedie e poltrone imbottite e un armadio con bicchieri e un'ampia scelta di liquori, intrattenevo i miei ospiti con giochi d'azzardo e scommesse, dove ingenti fortune passavano di mano nel volgere di pochi istanti e ricchi contratti venivano stipulati con strette di mano. Nel contempo, l'alcool scioglieva lingue troppo legate e segreti ben nascosti sfuggivano a cervelli offuscati.
    Non di rado missioni della Confraternita di Londra partivano grazie a informazioni carpite in questa maniera. Capitava di rado che anche io partecipassi a tali missioni, ma erano sempre di breve durata, per evitare che passassero troppi giorni senza che riuscissi a vedere la mia famiglia. Il giuramento che avevo prestato agli Assassini rappresentava sempre un obbligo e un valore basilare nella mia vita, ma l'amore che nutrivo per la mia famiglia non mi avrebbe mai portato a trascurare mia moglie e mio figlio.
    Era quasi un anno che ci eravamo trasferiti a Londra, e in questi mesi Adéwalé era già venuto una volta a trovarci e a controllare lo stato del nostro progetto di espansione e rafforzamento della Confraternita inglese. Aveva portato notizie dei suoi confratelli e messaggi di Ah Tabai per il suo omologo, un uomo poco avveduto e altrettanto insufficientemente ardito, con cui mi ero trovato a scontrarmi già diverse volte: il mio ascendente all'interno dell'Ordine stava crescendo, e presto si sarebbe presentata una resa dei conti tra noi due.
    Dopo la nascita di Haytham, anche Nike aveva ripreso attivamente il suo ruolo di Giudice Supremo. Si recava di tanto in tanto su Giove, per controllare la situazione e affrontare le crisi che minacciavano l'assetto istituzionale, ma per il diverso modo di scorrere del tempo una mezza giornata sulla Terra equivaleva ad alcune settimane di presenza sul suo pianeta dove poteva sedare dispute, ottemperare impegni e doveri, mantenere i rapporti con i sacerdoti, i peggiori cani da guardia che potessero esistere. Quando rientrava era sempre affaticata e una ruga di preoccupazione le solcava la fronte, ma bastava che prendesse in braccio Haytham o abbracciasse me che questa spariva.
    Pensavamo di aver trovato un equilibrio, pensavamo di aver afferrato e stretto forte tra le mani la chiave del paradiso. Avevamo fatto di tutto perché ciò si avverasse, perché era troppo prezioso il bene che proteggevamo.
    Mi avvicinai alla finestra, come colto da un dubbio. Osservai il giardino curato, con le panchine in pietra bianca dove Nike passava le giornate di sole a far giocare Haytham, il viottolo di ciottoli candidi che collegava il cancello con il portone del palazzo. Tutto era tranquillo e mi innervosii per aver ceduto alla debolezza dell'ansia.
    D'improvviso, scorsi un movimento inatteso e repentino, e uno svolazzare di gonne verde, dello stesso colore del vestito che indossava Nike quel giorno, uscita per delle commissioni.
    Era lei, infatti. Stava correndo.
    Notai immediatamente, anche da lontano, la sua espressione sgomenta; provai un tuffo al cuore che quasi mi piegò le gambe. Erano passati cinque mesi dalla nascita di Haytham. Mesi in cui avevamo cercato di assaporare fino in fondo ogni istante che passavamo insieme, con il tormento che ciò che ci minacciava potesse allungare gli artigli sulla nostra famiglia in qualsiasi istante.
    Non volevo credere che il momento fosse arrivato.
     
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    Roberta
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    :Nike:
    Stavo vivendo il periodo più bello della mia lunghissima, “eterna” vita. Non avevo parole umane per descrivere la potenza delle emozioni che provavo. Tenere tra le braccia un bambino, il mio bambino era un privilegio che non mi apparteneva. Come Giudice Supremo, non mi era concesso di avere una famiglia, un partner e tanto meno dei figli, perché tutta la mia persona doveva essere concentrata e devota a servire il mio pianeta.
    E invece…
    L’incontro fortuito con Edward, quando ero quasi morta, sulla sua nave, aveva stravolto la mia intera esistenza. Non avrei mai pensato che il fato mi avrebbe perseguitato per farmi innamorare del ragazzino, adesso divenuto un uomo, che moltissimi anni prima avevo salvato dalla morte.
    Sembrava uno scherzo pianificato dal destino, ma non ero stata in grado di sottrarmi alle sue spire, perché mi ero innamorata perdutamente, mandando al diavolo tutte le leggi che avevano regolato la mia vita, fino a quel momento. Edward mi aveva aiutata a crescere come donna, come amante, come madre. Mi aveva concesso la gioia di donare la vita, e per questo gli sarei sempre stata grata.
    Cullare Haytham, seguire la tradizione gioviana di regalare il ciondolo di famiglia al mio primogenito, mi avevano fatto allontanare dalla realtà. Vivere delle emozioni tanto forti mi avevano fatto dimenticare, anche se per poco, i doveri, le preoccupazioni, l’ansia. Eravamo solo noi tre e nessun altro. Io e il piccolo eravamo la luce negli occhi di Edward. Non si perdeva un solo istante delle nostre vite e io facevo lo stesso; respiravo in lui, esistevo per lui e per nostro figlio. Ma sapevo che non sarebbe durata per sempre, anche se avrei fatto qualsiasi cosa per assicurarmi un giorno in più, un’ora in più al loro fianco.
    Lo capivo quando tornavo sul mio pianeta a svolgere le mansioni che mi spettavano. La situazione era molto precaria, e ogni volta facevo fatica a tranquillizzare i tre Sacerdoti che mi vedevano andare e venire senza una spiegazione chiara. Negli ultimi tempi, avevo cominciato a temere che mi facessero seguire, ma ero sempre stata molto attenta. Nessuno dei loro scagnozzi aveva mai saputo dove vivessi o con chi. Sapevano che ero una grande appassionata della cultura terrestre e che il pianeta blu mi aveva stregato con i suoi usi e costumi, ma non si capacitavano del perché sentissi il bisogno di vivere così tanto tempo quaggiù.
    Solo abbracciando il piccolo Haytham e baciando appassionatamente il mio Edward, trovavo la forza di andare avanti e continuare a vivere il nostro angolo di felicità.
    Una mattinata di sole si stagliava all’orizzonte degli edifici che circondavano il nostro palazzo. Non erano gli stessi raggi solari di Great Inagua, ma me li facevo bastare e dopo giorni di pioggia intensa, erano come l’acqua nel deserto per me. Avevo avvisato Edward che sarei uscita per recarmi al mercato rionale. Quella volta alla settimana, se il tempo me lo consentiva, non me lo perdevo mai. Mi ritagliavo un paio d’ore per passeggiare tra le bancarelle e assorbire i profumi e le atmosfere trafficate dei mercanti e degli acquirenti. Ovviamente non andavo a comprare provviste, quando ce n’era il bisogno, se ne occupava una delle signore assunte in casa. Ero lì, solo per me, per osservare, per curiosare. Edward ormai non si opponeva più a queste mie “fughe”, ma in un primo momento, avevo dovuto lottare per fargli capire che non volevo nessuno al mio seguito, che me la sarei benissimo cavata anche da sola.
    Quel giorno, lasciai Haytham alle amorevoli cure della balia che se ne occupava in mia assenza. Sapevo che anche Edward lo avrebbe raggiunto presto, dopo aver sbrigato alcune incombenze di lavoro. Indossai un abito primaverile color verde smerando, che lasciava scoperto il décolleté e la mia pelle ambrata, ma copriva per intero le braccia, fino ai polsi. Disertai volontariamente l’ombrellino e mi immersi nelle strade fangose di Londra.
    Molte persone erano già intente a contrattare, scegliere, acquistare merci di ogni tipo, le bancarelle erano ben fornite e i mercanti, ottimi urlatori, si affannavano a proporre i loro prodotti.
    Osservai, curiosa ed estasiata, l’umanità scorrermi a fianco e pensai che su Giove non avrei mai potuto vivere o vedere nulla del genere. Non solo perché ero il Giudice Supremo, ma anche perché i prodotti alimentari si procuravano in dei magazzini sotterranei, organizzati e tecnologicamente avanzati, con pochissime persone a coadiuvare il tutto. C’era senza dubbio il contatto interpersonale, ma non aveva nulla a che vedere con tutto questo che riempiva i miei occhi e la mia anima.
    All’improvviso, sentii un brivido gelido corrermi lungo la schiena, guardai dritta di fronte a me, e vidi le mie più grandi paure prendere vita, condensandosi in delle figure a me ben note. La realtà dei fatti si materializzò e mi colpì come un pugno in pieno stomaco.

    L’atmosfera della cabina era accogliente, resa tale dal mobilio, il pavimento, le pareti, completamente ricoperti di legno scuro. Faceva ancora caldo, ma l’aria frizzantina portata dal mare riusciva a mitigare quelle giornate afose e a volte asfissianti.
    Come ogni sera, mi trovavo seduta alla toeletta, che Edward aveva fatto istallare solo per me, e mi spazzolavo i capelli, ma quella volta c’era qualcosa di diverso. Erano giorni che mi arrovellavo su una questione che mi stava particolarmente a cuore, ma sapevo che parlarne al mio pirata, sarebbe stato un inferno, avrebbe rischiato di rovinare tutto. Ero nervosa, e i miei movimenti a scatti tradivano il mio stato d’animo.
    Edward si avvicinò, abbassandosi alla mie spalle, iniziò a baciarmi sensuale, sfiorando il collo con la lingua fino a raggiungere il lobo sinistro, mi baciò sulla bocca facendomi reclinare leggermente il capo nella sua direzione e strappandomi un mugolio esasperato di piacere. Adoravo quando mi faceva perdere in un altro mondo con le sue arti amatorie, ma quella sera ero un fascio di nervi, che avrei voluto distendere, ma che proprio non riuscivo a fare. Lui comprese al volo che qualcosa non andava nel verso giusto e fermò quella dolce tortura.
    “Stasera sembri distante. Ti stai forse stancando troppo? Il viaggio in mare è lungo...” disse con un accenno di agitazione nella voce.
    “Non sono stanca, sai che adoro viaggiare per mare. La verità e che sono preoccupata, Edward!” Ecco, finalmente glie lo avevo confessato. Lui mi guardò rassegnato e fece un lungo sospiro. Ero rammaricata del dover rompere quella tenera quiete che si era creata tra noi e che sapevo, lui ne stava godendo di ogni goccia, ma questo discorso non poteva attendere oltre.
    “Non riusciremo a fuggire abbastanza lontano, vero? Troppe vendette, troppi rischi...” disse amareggiato. Aveva compreso al volo la fonte della mia preoccupazione. Eravamo consapevoli che le nostre esistenze portavano con sé mille pericoli e rivalse.
    “Esatto... adesso non siamo solo io e te, che siamo perfettamente in grado di difenderci. Dobbiamo proteggere nostro figlio, e abbiamo così tanti nemici…” risposi addolorata. All’improvviso, un tarlo maledetto si insinuò nella mia mente, portandomi a credere che tutto ciò che avevo fatto fino a quel momento: amare Edward, dare alle luce un figlio, in barba alle ferree tradizioni del mio pianeta, fosse stato un puro atto di egoismo.
    “Londra è lontana, ma non ci potrà proteggere da tutto... Dobbiamo prevedere un modo per mettere in salvo te e nostro figlio qualora ci fossero dei problemi” parlò con convinzione, riportandomi alla nostra discussione.
    “E per proteggere anche te...” gli dissi sorridendo triste, osservandolo nello specchio che avevo di fronte. Alzò un sopracciglio, contrariato.
    "Io difenderò voi!" Sempre altruista, il mio grande amore, quando si trattava di me e del bambino che portavo in grembo. Non pensava mai a se stesso o al suo benessere.
    “Devi rassegnarti, mio valoroso pirata” mi alzai dalla seduta davanti alla toeletta e mi voltai per guardarlo dritto in volto, che presi dolcemente tra le mani. "Dovrai prendere in considerazione il fatto che potrei anche essere io a difendere voi. Non sai di cosa sono capaci i Sacerdoti. E mi auguro che tu non lo scopra mai."
    Edward fece una smorfia, infastidito, scostandosi di poco dal mio tocco. Sapevo benissimo che non era facile per lui accettare che per una volta, non avrebbe avuto il controllo esclusivo della situazione. Per una volta avrebbe dovuto lasciare un po’ di spazio anche a me. Ma la mia opera di convincimento era ancora all’inizio. Mi avrebbe dato battaglia…
    "Non ho paura di loro. Ho sfidato intere flotte e irriso potenze militari molto superiori della Jackdaw... Affronterò anche loro, se oseranno minacciare la mia famiglia!" Eccolo, all’arrembaggio.
    "So benissimo che per noi, saresti in grado di distruggere qualsiasi nemico, ma non voglio che corri rischi. Hai già i tuoi ‘avversari’ da tenere a bada. I Sacerdoti sono gioviani e hanno delle abilità che vanno ben oltre la tua immaginazione. È mio preciso dovere affrontarli in prima persona" Lo fissai con occhi determinati per stigmatizzare la mia ferrea volontà.
    "Sono così forti? Perché dovrei temerli?" Il solito testardo!
    "I Sacerdoti sono esseri spietati e senza scrupoli quando vedono minacciate le tradizioni millenarie di Giove. Le guardie che comandano sono più forti, più veloci di qualsiasi essere umano! La tua volontà e la tua determinazione sono portentose, ma potrebbero non essere sufficienti!" Sperai di aver fatto breccia nella sua corazza di valoroso combattente. Parve riflettere con attenzione sulle mie parole.
    "Quindi... cosa pensi di fare?"
    "Ho bisogno di sapere che quando arriverà quel momento, e spero che sarà il più lontano possibile, tu e il piccolo potrete trovare rifugio in un luogo sicuro, dove nessuno potrà trovarvi!" Compresi all’istante che la mia risposta aveva scatenato un furia cieca, che Edward, in un primo momento, tentò di contenere, ma che esplose in tutta la sua potenza una attimo dopo, come la deflagrazione di una bomba.
    ”Mi stai dicendo che dovrei... nascondermi? NO! Non mi rintanerò in un buco buio come un sorcio! Non mentre tu combatterai per la nostra sicurezza! Chi pensi che io sia?" concluse quasi ringhiando. Si allontanò del tutto da me e cominciò a camminare nervosamente per la cabina. Potevo percepire l’umiliazione che provava, l’ira profonda dell’impotenza. Nascondersi per non affrontare la battaglia era una cosa infamante per lui. Lo osservai, addolorata della sua reazione più che prevedibile, ma non ero disposta ad accettare condizioni diverse da quelle che avevo posto. Non avevo intenzione di rischiare le loro vite.
    "Non ci sarà alcuno scontro, Edward. Se faremo come dico, non dovrò neppure combattere. Quello che voglio sopra ogni cosa è che i Sacerdoti non sappiano mai di voi, altrimenti avrebbero un'arma di ricatto contro di me, lo capisci? O peggio, vi potrebbero uccidere. E io preferirei morire piuttosto che vedervi in pericolo!"
    Edward si fermò di colpo dal suo maniacale andirivieni e mi guardò fisso. Stava tentando di non scoppiare di nuovo, di non colpirmi con una nuova ondata feroce. Potevo notare la sua mascella contratta e i pugni serrati lungo i fianchi.
    "Ti faresti portare via? Pensi che si calmerebbero se collaborassi con loro? E poi?”
    "Non possono fare diversamente. È me che vogliono. Il Giudice Supremo nel posto che gli spetta e che gli compete! Niente più fughe... Solo così riuscirò a placare la loro ira e tenervi al sicuro... per sempre!" pronunciai le ultime parole con un nodo in gola. Sapevo benissimo a cosa sarei andata incontro, ma Edward non l'avrebbe accettato.
    "Per... sempre? Cosa vorrebbe dire? Che non si accontenteranno di rimetterti al tuo posto come un loro burattino? Che sarai sempre loro ostaggio?"
    Mi sentii ferita dalle sue parole, ma conoscevo la sua anima e l’amore che mi portava. Non era contro di me che gridava il suo dolore.
    "Non sono un loro burattino. È il mio ruolo, Edward! Sono il Giudice Supremo di Giove e tutto ciò che ho fatto fino ad ora, per la nostra tradizione è deprecabile! Sono stata io a cedere, a infischiarmene delle maledette regole del mio pianeta, perché ti amo, perché mi hai rubato il cuore. E potrebbe arrivare il momento in cui dovrò affrontare le conseguenze delle mie scelte!"
    "Ma non puoi ignorare tutto ciò che abbiamo, ora. E non puoi chiedermi di rinunciarci a mia volta..." Poi continuò a denti stretti, rabbioso. "Quanto tempo dovrai aspettare perché si calmino, ‘i tuoi Sacerdoti’? E cosa cambierà tra noi? Dovrò attendere che ti liberi dai tuoi impegni per vederti? Tuo figlio vedrà sua madre ogni tanto?"
    Ogni singola frase era come una stilettata rovente nel petto, dovevo solo trovare il coraggio di confessargli quale sarebbe stato il mio, il nostro amaro destino.
    Guardai il pavimento in legno sotto i miei piedi, sarei voluta sprofondare piuttosto che pronunciare quelle parole che mi raschiavano la gola e l'anima.
    "Non ci sarà un tempo da stimare... Non ci sarà un ritorno. Quando e se accadrà ciò che temo, non potrò più stare al vostro fianco!" sfiorai con una mano il ventre già rotondo. Avrei voluto urlare, piangere e disperarmi, ma non potevo aggiungere altra sofferenza a quella del mio amato sposo.
    Vidi Edward sgranare gli occhi incredulo, mi afferrò per le spalle stringendo con forza: "Mi lasceresti per sempre? Rinunceresti a tuo figlio?" Mi scrollò disperato: "Dimmi che non lo farai! Troveremo una soluzione diversa!"
    "Non c'è un'altra soluzione... I Sacerdoti scoprirebbero della vostra esistenza, prima o poi… e allora potreste... morire" dissi l’ultima parola, bloccando in gola un singhiozzo inconsulto. Non avevo il coraggio di guardarlo in volto. Non volevo marchiare nella mia mente la sua disperazione.
    "Maledizione!" Edward mi lasciò andare e riprese a girare per la stanza, come una fiera in gabbia, afferrò un grosso posacenere di vetro posto sul comò e lo scagliò contro la parete. Si passò una mano nei capelli con frustrazione, il suo sguardo conteneva fiamme ardenti. Poi, ritrovando una calma che non gli apparteneva affatto parlò: "Come faremo?"
    Anche se mi stava dando le spalle, dopo aver poggiato le mani sull’ampia scrivania, io compresi quanto dolore gli fosse costato pronunciare quella semplice frase.
    "Quando arriveremo nella nostra casa a Londra, dovrai far costruire una stanza segreta, di cui solo io e te saremo a conoscenza. Nessun altro. Quello sarà il vostro rifugio, qualora dovessero arrivare i Sacerdoti. Dovrai portare il nostro piccolo al sicuro!" conclusi con un filo di voce, strinsi con dita tremanti il ventre, come a voler abbracciare il nostro bambino. Il solo pensiero di lasciare lui e l’uomo che amavo, mi procurava uno strazio indicibile.
    "Faremo come dici tu... È evidente che non ho scelta... Dovrò lasciarti andare per salvare nostro figlio. E considerarti persa per sempre.” La sua voce era rassegnata, ma ancora pregna di collera. Odiava dover affrontare circostanze senza via d’uscita e sapeva bene che in questo caso non ce n’erano…
    Sentivo la morte nel cuore. Mi ero concessa all'amore senza pensare alle conseguenze, ma adesso che c'era di mezzo un bambino, il nostro bambino, non potevo più far finta che questo idillio sarebbe durato per sempre. Non sarei mai stata una simile incosciente.
    Mi avvicinai a Edward da dietro, avevo bisogno del suo calore, della sua pelle fusa con la mia; lo abbracciai forte come se avessi dovuto lasciarlo in quel momento. Volevo imprimerlo nella mia mente e nel mio cuore.
    "Il nostro piccolo e tu, i miei tesori più grandi, venite prima del mio egoismo e della mia stessa vita." affermai convinta.
    Lui scrollò la testa sconsolato, si voltò nella mia direzione e finalmente mi strinse con vigore, ancorandomi al suo petto. Non avrei voluto essere in nessun altro posto, poi…
    “Devi giurarmelo sul tuo onore e sull’amore che provi per noi…” dissi quasi senza fiato, immersa nel suo profumo. “Devi giurarmi che quando arriverà il pericolo, tu ti atterrai al nostro piano e ti metterai al sicuro insieme a nostro figlio. Non avrà altri che te…” Lo sentii sospirare con forza e poi pronunciare due sole parole:
    “Lo giuro!”


    Arrivai a casa trafelata, ansante. Dovevo parlare con Edward. Dovevamo muoverci in fretta. Mi diressi verso il suo studio, ignorando le espressioni attonite dei domestici. Incrociai il mio sposo nel corridoio, mi stava venendo incontro. Il volto era lo specchio del mio: preoccupazione pura.
    “Cosa succede? Ti ho vista rientrare sconvolta” mi chiese. Come sempre era un ottimo osservatore.
    “Dov’è Haytham? Dobbiamo prenderlo con noi… Sono qui, Edward. Arriveranno presto.”
    Edward si trasformò in una statua di sale, aveva capito a chi mi riferivo.
    “Haytham è nella sua stanza con Mary… I Sacerdoti di Giove sono venuti a prenderti?” domandò quasi apatico, conoscendo perfettamente la risposta.
    “Sì, ci saranno di sicuro anche loro. Al mercato ho visto la loro Guardia personale. Ne ho contati cinque, ma non so quanti siano in totale.” La Guerriera che c’era in me, stava cominciando a catalogare tutte le informazioni utili per elaborare una strategia. “Vieni, dobbiamo andare!”
    […]
    Udii delle urla provenire dal piano di sotto. Mi trovavo nel ballatoio al primo piano e mi precipitai per le scale. Conoscevo la causa di quel tripudio di rumori concitati ed era mio compito intervenire. Giunta alla base della scalinata, notai il corpo riverso della cuoca, Louise. Mi accovacciai e mi resi conto che non era morta, ma era solo svenuta. Mi allontanai da lei con passo nervoso, e vidi il maggiordomo, James, purtroppo senza vita, appoggiato con la schiena alla parete del patio d’entrata. L’enorme portone era quasi divelto e da fuori entrava la piena luce del primo pomeriggio. No, no, no… nessuno doveva morire. Una furia silente mi montò nel petto. Dovevo porre fine a quello scempio.
    Attraversai l’anticamera del salone e feci un profondo respiro. Sapevo chi c’era al di là dell’arco a ogiva che stavo per attraversare… potevo percepirne l’essenza, che era identica alla mia. Nell’angolo più vicino a me c’era una domestica in lacrime, china sul corpo esanime del nostro cocchiere. Una guardia dei Sacerdoti stava per infierire su di lei, per mettere fine alla sua esistenza. Aveva una spada sollevata in aria, pronta a colpire.
    “Adesso basta!” dissi con voce tonante e afferrai il braccio del boia improvvisato. Liberai il mio potere e una scarica elettrica ad alto voltaggio lo colpì, mettendolo fuori gioco. “Sacerdoti di Giove, richiamate i vostri cani… ponete fine a questa carneficina senza senso, o mi costringerete a scatenare la mia ira!” parlai con decisione, avrei voluto urlare, ma non era mio costume lasciarmi andare alle emozioni al cospetto dei tre Sommi del Tempio.
    “Volete proteggere questi infimi terrestri?” chiese uno di loro con disprezzo.
    “Ah, è vero… ormai vivete con loro da tempo… vi siete mescolata agli umani, avete dimenticato i vostri obblighi su Giove, per abbeverarvi alla cultura di questi parassiti…Eresia!” affermò scioccato un secondo Sacerdote.
    “Tacete! Non sono mai venuta meno ai miei compiti. Ho sempre atteso le mie mansioni con diligenza. In tempi di guerra e di pace, ho mantenuto l’ordine e protetto il mio pianeta. Non avete nessun diritto di giudicare il mio operato. Piuttosto, voi, che vi macchiate di sangue innocente. Vergognatevi… prevalere con la forza su esseri indifesi. Dov’è finita la vostra morale? La filosofia del giusto che andate predicando? Vale solo per me… per il vostro Giudice Supremo? Voi siete al di sopra della Legge?”
    “Siamo intervenuti perché le leggi e le nostre tradizioni sono state trascurate. È stata già un’eccezione che la nostra Guida diventasse una Guerriera e che viaggiasse per il Sistema a combattere guerre non nostre; ma adesso… si è superato ogni limite. Addirittura la Terra, pianeta di nessun interesse e di misero livello. Cosa mai vi avrà attratto tanto? È esecrabile che il Giudice di Giove se ne vada a spasso senza un valido motivo, abbandonando il Tempio, la sua casa!” continuavano ad infierire e un dolore sottile e ardente mi avvolse il petto, al pensiero di cosa mi aveva “attratto tanto”, l’amore, la felicità, un marito, un figlio…
    “Adesso ne ho abbastanza delle vostre elucubrazioni! Non ho nulla da spiegare. Non vi devo alcuna giustificazione. Ritiratevi. Io verrò con voi. Basta morti, basta sotterfugi e squallidi mezzucci. Lasciamo in pace questa gente, ne ha già viste troppe…” Più parlavo e più il cuore mi sanguinava. Ma doveva farlo, doveva allontanare i Sacerdoti da quella casa, da quel frammento di Terra, lontano da Edward e dal piccolo Haytham. Solo così sarebbero stati finalmente al sicuro.
    “E così sia, Giudice. Sarete al nostro fianco, al vostro posto, dove è giusto che siate. Abbiamo tante questioni da discutere e da risolvere sul nostro pianeta. Nulla a che vedere con questi terrestri…” intervenne l’unico dei Sacerdoti che non aveva ancora aperto bocca.
    Tirai mentalmente un sospiro di sollievo e annuii… Mi fecero strada, uno dietro l’altro. Li seguii in silenzio per raggiungere la navicella e rientrare su Giove.
    Avevo raggiunto il mio scopo, ma sentivo un’angoscia straziante, come se una parte di me si stesse strappando via, per rimanere incollata a quelle pareti, a quella scalinata, alle due persone rimaste di sopra… sane e salve.
    Un passo, e poi un altro… Un respiro e un altro ancora… Il ricordo di un bacio appassionato, la leggera pressione di una manina sul mio dito, il profumo speziato di sandalo e patchouli, unito a quello di aloe e vaniglia del mio bimbo.
    L’anima spezzata, il cuore in frantumi, era questo che sentivo e che non sentivo, mentre guardavo dritto davanti a me, mentre camminavo a testa alta nel tiepido pomeriggio di Londra, senza una lacrima pur avendone una cascata appena sotto le ciglia; senza un fiato, pur avendo una voglia matta di urlare, senza più l’amore, perché i miei tesori, li avevo appena lasciati prigionieri di una stanza segreta, nel palazzo alle mie spalle.
     
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    :Edward:
    ”I Sacerdoti di Giove sono venuti a prenderti?” Conoscevo già la risposta, Nike la aveva scritta in faccia, in lettere nitide che le segnavano l'espressione. Rimaneva calma e costruttiva perché aveva uno scopo preciso che la aiutava a non cedere al dolore.
    “Vieni, dobbiamo andare!”
    Salimmo i gradini della scalinata di legno in pochi secondi, corremmo lungo il corridoio ed entrammo nella stanza di nostro figlio. La balia lo stava facendo giocare con delle palline colorate. Era già così sveglio, così curioso anche se così piccolo, il nostro bambino... Quando entrammo, Mary ci guardò con ansia.
    “Mary, per oggi non abbiamo più bisogno dei tuoi servizi. Esci da casa passando per la cucina sul retro e non farti vedere da nessuno. Gira alla larga dai guai!”
    La ragazza mise Haytham nella culla e si allontanò con un breve saluto e un inchino sbrigativo. Non fece domande, bastava la risolutezza e la premura che le avevamo messo addosso per farle comprendere che non si trattava di una semplice richiesta, che si preannunciava un pericolo grave.
    Quando fummo di nuovo soli si creò un silenzio pesante, plasmato dal timore di percepire rumori allarmanti e dal bisogno di udirli per capire quanto tempo avevamo ancora a disposizione prima di...
    “Forse sei riuscita a seminarli, e staranno ancora girando per Londra alla ricerca della nostra casa... magari non la troveranno mai!” Cercai di incoraggiare entrambi, con un sorriso stentato.
    Nike scosse la testa, gli occhi che fissavano un punto indefinito. Strinse le labbra, vagliando la mia ipotesi. Chissà quali strumenti incomprensibili e onniscienti possedevano su Giove, per rintracciare qualcuno. Conoscevo un minimo la loro tecnologia, e al confronto quella umana sembrava un gioco per bambini. Ogni tanto lei mi parlava del suo pianeta di origine, mi raccontava come vivevano e quale erano le loro tradizioni, la lingua, la struttura sociale. Sembrava tutto pazzesco e soffocante, pregno di regole e codici da ricordare e rispettare. Facevo fatica a pensare che lei apparteneva a una cultura così distante e incomprensibile.
    “No... saranno qui tra poco...” Sussurrò sconfortata.
    “Possiamo ancora ripensarci. Possiamo fuggire o nasconderci tutti e tre nella stanza segreta!"
    Non avevo meditato quelle parole. O meglio, non sapevo di averle sempre avute in testa, e ora, davanti alla possibilità che il nostro mondo ci venisse strappato in una manciata di minuti, la discussione avuta con lei prima ancora di arrivare a Londra non sembrava più così vincolante o tassativa.
    Lei mi prese il volto tra le mani, avvicinandolo il suo. Era seria, mortalmente seria, e forse anche un po' sbalordita dalla mia proposta.
    "Sai benissimo che non è possibile! Per quanto vorrei restare al vostro fianco, i Sacerdoti non si arrenderanno mai e vorranno farmi pagare questo affronto ad ogni costo! Non dovranno sapere di voi! MAI!"
    Le presi le mani nelle mie. Al solo pensiero che questa poteva essere l'ultima volta che la toccavo, un animale feroce minacciava di liberarsi dal suo antro cupo. Mi morsi le labbra per non perdere il controllo, poi risposi abbassando la voce, badando a tenere il tono basso perché il bambino non si impaurisse: "Potremmo mettere al sicuro Haytham, e preparare a difenderci in qualche modo. Con i tuoi poteri, pensi di non poter combattere contro dei rammolliti? E le guardie, perché non dovrebbero ubbidire a te, più che a loro? Sei il Giudice Supremo!"
    Nike quasi si strappò dalla mia stretta. Aveva chiuso i pugni, che ora erano lungo i fianchi, le braccia rigide, il busto lievemente proteso verso di me.
    "Ingaggiare un combattimento significherebbe causare delle vittime. Non abbiamo al nostro fianco un esercito, ma solo domestici inermi. La Guardia personale dei Sacerdoti subirebbe delle ripercussioni molto gravi se disubbidisse ai loro ordini. Prima di rispondere a me, risponde direttamente a loro!"
    A quel punto, ogni mia speranza, ogni mia idea di tentare l'impossibile crollò. Ma invece di accettare la sconfitta, mi sentii minacciato, esposto, come se tutto quello che avevo raggiunto nella mia vita, negli ultimi anni, mi venisse strappato di dosso come fosse un vestito elegante che portava via la maschera, la parte migliore di me, quella che avevo costruito grazie al suo amore e alla fiducia nel Credo. In un batter di ciglia, ero di nuovo il pirata egoista, crudele e prepotente. Il mio tono si trasformò in un ringhio aggressivo e velenoso: "Non mi importa di nessuno! Tu e Haytham siete le persone più importanti del mondo e non voglio rinunciare a nessuno di voi! Scappiamo piuttosto, accetterò di essere il codardo che fugge di fronte alle minacce! Tutto, pur di avervi vicino!"
    Le misi le mani sulle spalle. Strinsi la presa. Ero spregevole: mentre la stavo pregando di poterla tenere vicino a me, nel contempo avrei voluto farle male per costringerla a cedere, ad accettare un compromesso, a rinunciare alla sua integrità, al suo senso del dovere. Nel mio cuore c'erano in parti uguali tormento e furore.
    Ma, come sempre, Nike non perse il suo rigore né la sua virtù. Stava combattendo per salvare le persone che amava, ed era lo stesso bisogno mio, solo che lei poteva scegliere come farlo mentre io, anche se avessi voluto, non ero in grado di concretizzare il sacrificio a cui lei si offriva. Ecco quale era il vero problema.
    "Proprio perché voi siete le persone più importanti per me, non possiamo scappare; non vi costringerò ad una vita di fuggitivi, con la costante ansia di essere trovati e uccisi" Si interruppe per riprendere fiato, mise una mano sulla gola, come se fosse così serrata da non far passare neanche l'aria. "Non saresti mai un codardo, lo so che vuoi difendere la tua famiglia, ma consentimi di farlo a mia volta. Non avreste scampo e io mi farei ammazzare piuttosto che vedere voi in pericolo"
    Perché solo lei poteva avere il controllo della situazione, mentre io dovevo accettare passivamente che il pericolo passasse e nulla di più? Non ero nella condizione di poter decidere della mia vita!
    Aprii la bocca per tentare ancora una protesta per quella infamia ma, come il rintocco di una campana a morte, udimmo un suono metallico, secco, provenire dalle finestre che davano sulla strada principale. Erano arrivati, quantomeno al cancello con la riproduzione della Jackdaw.
    Strinsi i denti, avvilito e furibondo. D'impulso, andai da Haytham e lo presi in braccio. Non vedevo neanche quello che avevo intorno, sentivo solo come un ritornello poche parole che si ripetevano all'infinito nella mia testa.
    Per non scattare dalla rabbia, le pronunciai sottovoce: “Non posso, non posso proprio accettare tutto questo..."
    Nike si avvicinò velocemente e fece passare le sue braccia intorno al mio corpo, stringendo me e Haytham dentro il suo abbraccio. La voce le tremava nel tentativo di nascondere i singhiozzi. Parlava velocemente, ma scandendo le parole, come se fossero quelle conclusive. I rumori si stavano avvicinando velocemente. Ci furono esclamazioni, ordini, urla e confusione, tutti segnali estremamente inquietanti.
    "Ti amo con tutto il mio cuore Edward. Ti ho amato dal giorno che ti ho visto sulla tua nave. E il ricordo di te bambino cocciuto e testardo mi accompagnerà per sempre!"
    Poi si rivolse a nostro figlio, come se potesse capire il significato delle sue parole: “E tu, piccolino... sei la luce della mia vita. Mi hai dato la forza di capire che nulla è impossibile in questo universo. Essere tua madre è stato meraviglioso e ti porterò per sempre nel mio cuore, che adesso perderà due pezzi, ma che sarà sereno sapendovi al sicuro. Vi amo!”
    Tornò a guardarmi negli occhi che, nonostante la commozione, bruciavano di rabbia. Lei la lesse e indurendo il tono, mi condannò alla sua volontà con poche, tremende parole: "Edward... mi avevi giurato che quando sarebbe arrivato questo momento, avresti protetto Haytham e te stesso. Solo così potrò continuare a vivere in pace. Ti prego... non rendere le cose ancora più difficili!"
    Inspirai bruscamente, sgranando gli occhi, poi abbassai la testa, sconfitto. Non potevo rifiutarmi di obbedire, mi ero impegnato a farlo. Avevo giurato!
    Mi maledissi per la mia fesseria e a quel punto, sbottai: "Maledizione! Manderei anche alle ortiche il mio onore, per non dover rinunciare a tutto questo!"
    Ci fissammo per un lungo momento. Nike non mi rispose, non ce n'era bisogno. Il mio era solo un tentativo testardo ma inutile. Aveva ragione lei, e stavo sprecando gli ultimi, preziosi istanti a combattere contro il vento, neanche fossi un mulino.
    Mi sentii sprofondare in un mare nero. Tentai di respirare ancora una volta e perciò la baciai. Ci baciammo con passione e disperazione, un'ultima volta. Un'ultima volta insieme, un'ultima volta.
    Nike si asciugò con il dorso della mano una lacrima.
    "Tu sei un uomo d'onore e lo sarai fino in fondo. Lo so! Sarai sempre con me, Edward... e anche tu, mio piccolo tesoro!”
    Baciò un'ultima volta anche Haytham sulla fronte, poi uscì di corsa dalla stanza.
    I rumori erano ormai in casa, erano al piano di sotto, erano sempre più violenti. Uscii anche io nel corridoio, e vidi più solo la schiena di Nike che scendeva la scala di corsa, dirigendosi verso il salone all'entrata.
    Erano da lì che erano entrati, i bastardi! Avrebbero sicuramente incontrato qualcuno del personale di servizio, e allora... sperai che fossero riusciti a mettersi in salvo.
    Fui ad un passo dal precipitarmi giù anche io per fronteggiare i gioviani, o anche solo per vedere la faccia che avevano, ma una piccola mano sul mio mento mi riportò al mio malaccetto giuramento. Abbassai lo sguardo su mio figlio, che mi guardava con i suoi occhi fiduciosi e inconsapevoli.
    Mi diressi a passi veloci verso la biblioteca, che si trovava al piano terra, usando una piccola scala di servizio. Per una pura coincidenza non incontrai nessuno sul mio percorso, o forse gli intrusi avevano accentrato su di loro l'attenzione e la preoccupazione di tutti.
    Davanti alla porta della biblioteca trovai Consuelo, in lacrime, terrorizzata. Aveva sentito la confusione improvvisa e aveva avvertito il pericolo grazie all'istinto di una persona che era nata e cresciuta in un mondo molto più rischioso di quello placido di Londra, dove la violenza era differente e più latente. La sua voce conteneva note isteriche e stava aumentando rapidamente di volume. E probabilmente non aiutava a calmarla l'ira che io manifestavo.
    “Edward! Mio dio, sta succedendo il finimondo! Sono entrati degli uomini pericolosi, e hanno ucciso James e forse anche Louise! Ci uccideranno tutti!”
    Aveva preso a strapazzare la sua veste inamidata; non era mai riuscita ad abituarsi davvero alla vita signorile e compassata del vecchio continente, e più di una volta mi ero chiesto il motivo per cui ci aveva seguito fin qui, abbandonando il marito e il mondo che conosceva e che la proteggeva. Se avesse continuato ad urlare, le guardie o i sacerdoti la avrebbero udita, e avrebbero scoperto anche il segreto che Nike stava tentando di proteggere con la sua stessa vita.
    Non potevo lasciarla lì, mandandola incontro a una morte orribile e al rischio che ci tradisse. Non ebbi alcuna esitazione. La afferrai per il gomito, sibilandole un ordine, e la trascinai nella biblioteca, chiudendo la porta dietro di noi.
    Aprii il passaggio segreto ed entrammo nella stanza: lo scaffale che la occultava ritornò al suo posto, attutendo nel contempo i rumori esterni... o erano cessati? Nike era riuscita a fermare la violenza e la vendetta dei suoi sudditi?
    Mi ero appoggiato alla parete di legno: nello spazio buio, protetto, c'era a malapena il posto per alcuni scaffali e un tavolo, su cui era poggiato un candeliere. Consuelo accese tutte le candele a disposizione, per alleggerire l'atmosfera soffocante. Aveva ancora gli occhi arrossati e il fiato spezzato, ma stava riprendendo il controllo, fortunatamente. Non desideravo occuparmi anche di lei, anzi a dirla tutta, la tolleravo a fatica.
    Dopo alcuni minuti, si mise a osservare l'ambiente; su un mobile erano poggiati le cose più importanti e pericolose, che avevamo deciso di nascondere per sicurezza: il martello Mjiolnir e gli appunti delle mie missioni da Assassino, con i contatti e l'elenco dei miei confratelli in Inghilterra, la posizione dei templi e altre costruzioni aliene... tutto quello che sapevo, e che dovevo tenere lontano dagli occhi dei nostri nemici, i Templari.
    Consuelo guardò con scarso interesse il manufatto e il resto, non essendo a conoscenza di quello che realmente rappresentavano, poi la sua attenzione si fermò su un oggetto appoggiato al muro e coperto da un drappo, che sollevò. Sotto era nascosto un dipinto, che avevo commissionato due mesi prima ad un pittore molto ricercato tra la ricca borghesia londinese.
    Rappresentava la mia famiglia. Era una moda molto diffusa tra la classe abbiente il farsi un ritratto che celebrasse la fortuna di una famiglia. L'artista aveva saputo cogliere l'essenza di mia moglie in maniera stupefacente: Nike era ritratta meravigliosamente, gli occhi verdi che brillavano di gioia, con Haytham in braccio e io alle sue spalle. Avevamo discusso a lungo sull'opportunità di una simile opera ed era stata fonte, incredibilmente, delle uniche litigate che avevamo davvero avuto nel nostro matrimonio.
    Io desideravo molto un quadro che testimoniasse un periodo per noi felice, mentre lei sosteneva che sarebbe stata una prova inconfutabile dell'esistenza di un rapporto proibito, se i sacerdoti lo avessero visto. Quindi, alla fine aveva accettato di posare per il ritratto alla sola condizione che lo avremmo tenuto nascosto. Ed infatti, ecco lì il quadro, che solo a vederlo era un pugnale infuocato che squarciava le mie viscere.
    “Coprilo immediatamente!” Le ordinai con la voce gutturale e minacciosa.
    Ero sul punto di cedere a qualche istinto negativo. La testa pesava come piombo, la disperazione e il dolore riempivano e ottundevano tutti i sensi. La vista si andava oscurando, l'udito si affievoliva, le braccia non mi appartenevano più. Solo i miei pensieri erano vivi, perché solo quelli si agitavano in tutto il buio che mi circondava.
    Avevo perso Nike, la donna che amavo. Lei era come morta per me. Era stata cristallina nel prepararmi al peggio: per il nostro bene e la nostra sicurezza, come anche della sua, non avrebbe più potuto lasciare il suo pianeta, ancor meno venire sulla Terra per rivederci ancora. I sacerdoti avrebbero esercitato il più stretto controllo su di lei e sul suo operato, addirittura non poteva escludere che sarebbe stata seguita da delle spie, una volta ripreso il suo posto a capo del popolo gioviano. Forse, potevano anche imporle di rinunciare al suo ruolo di Guerriera. Era una situazione che dire delicata sarebbe stato un eufemismo. Per questo e altri motivi, la nostra separazione sarebbe stata definitiva e irreversibile.
    Forse sarebbe meglio la morte, mi ritrovai a pensare irragionevolmente. Con quella, avrei trovato un modo per rassegnarmi e vivere i giorni futuri, ma non se l'avessi saputa viva, raggiungibile in qualche modo che non immaginavo, eppure così lontana. Era una beffa, uno scherzo che mi riempiva di odio verso i suoi simili e verso tutto ciò che si frapponeva. La rabbia era pronta a mordermi ancora più ferocemente, se mi soffermavo troppo sul vuoto che aveva lasciato dentro di me la sua partenza.
    In uno stato febbrile di angoscia e smarrimento avevo stretto Haytham troppo forte tra le braccia, fino a che non sentii le mani di Consuelo che me lo sottraevano. Non mi ero accorto che mio figlio si stava agitando e scalciava, lanciando piccoli strilli di fastidio.
    “Dallo a me, questo piccolo marmocchio. Ha bisogno di qualcuno che lo rassicuri. Si è accorto che non stai bene, Edward e così lo fai agitare, più che calmarlo!” Si mise a passeggiare per la stanza, mentre lo cullava e canticchiava delle filastrocche a bassa voce, la sua bocca che sfiorava, sorridente, la testa rotonda e dai fitti capelli scuri.
    La lasciai fare. Forse aveva ragione. Io ero troppo preso dal mio strazio per pensare ad altro. Nike stava per abbandonare la sua casa, la sua famiglia, me.
    Scossi la testa, contrariato e fremente. Cosa era l'onore di un uomo, e quanto poteva pesare un giuramento, se questo lo condannava irrimediabilmente? Con uno scatto rabbioso, riaprii la porta nascosta, imprecando come un sacrilego in una chiesa.
    Non sarei vissuto con un buco al posto del cuore, non era umanamente possibile. Se non combattevo per quello che amavo, cosa mi restava nella vita? L'onore? A cosa serviva l'onore se eri morto dentro?
    Haytham era al sicuro, io avevo fatto ciò che dovevo, ovvero proteggere mio figlio. Ma non bastava. Mi precipitai nel corridoio, lo percorsi correndo a perdifiato, raggiunsi l'entrata e poi continuai la mia ispezione nelle altre stanze. Esplorai tutta la casa, ma quello che trovai fu sempre lo stesso: distruzione. Come se delle cannonate avessero abbattuto le pareti e le porte. E poi... cadaveri. Quelli dei domestici, tutti quanti. Giacevano all'entrata, in cucina e al piano di sopra, nelle camere in cui si erano rifugiati. Persino Mary era morta. Era stata colpita alla schiena, mentre si allontanava dal cortile posteriore. Alcuni sembravano essere stati giustiziati, e questo aveva una sua logica agghiacciante. I gioviani non avevano voluto lasciare testimoni. Gli unici che erano sopravvissuti al loro passaggio eravamo solo noi tre, rifugiati nell'antro segreto.
    Urlai di rabbia perché mi ero deciso troppo tardi a uscire fuori dal mio nascondiglio, a disubbidire a Nike, per amore suo. Se mi fossi deciso prima, forse li avrei ancora trovati e avrei potuto fermarli. Avremmo combattuto insieme, io e Nike, ci saremmo liberati delle guardie e lei avrebbe costretto i sacerdoti alla ritirata, ad accettare le sue condizioni, dato che sarebbero stati inermi nelle nostre mani.
    Invece no.
    Ecco quello che rimaneva delle mie scelte, della mia vita. Una casa distrutta, un cuore a pezzi, una vita senza alcuna attrattiva. Urlai ancora e mi accanii su quanto mi trovai per le mani.
    Sentivo che sotto i miei piedi si stava aprendo una voragine, e non volevo fare altro che buttarmici dentro per non dover pensare a come avrei vissuto da questo giorno sciagurato in avanti.


    Edited by Illiana - 27/10/2020, 20:25
     
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    Un dolore lancinante mi avvolse le tempie e pareva che volesse farle esplodere. Ero seduta sul mio trono, intenta a presiedere le udienze di cause “civili” dei miei sudditi. Ero lì da ore che mi parevano interminabili e la mia testa stava per scoppiare, satura di reclami, litigi e tentativi di rabbonire il mio giudizio.
    Mi massaggiai la pelle pulsante del capo e feci in modo di concludere in fretta quel particolare caso.
    “Per oggi le udienze terminano qui. Tutti coloro che sono in attesa, potranno tornare tra due giorni!” tuonai con voce ferma.
    Infilzai con la sguardo i Sacerdoti che avevano sorvegliato la seduta e mi allontanai dall’aula, dai miei sudditi, da loro!
    Da anni ero impegnata in un braccio di ferro senza esclusione di colpi. Da quando ero tornata su Giove “in pianta stabile”, per lungo tempo non mi avevano tolto gli occhi di dosso, costringendomi a vivere quasi segregata tra i miei doveri e le mie stanze. Con tutto il dolore che portavo dentro per la gravissima e straziante separazione subita, in un primo momento, non avevo avuto la forza di reagire. Passavo le mie giornate come un automa. Mangiavo, camminavo e svolgevo i miei compiti per inerzia. Come se la vita non fosse più vita e viverla fosse divenuto un fatto del tutto trascurabile. Ero dimagrita molto e la mia pelle, di solito, naturalmente abbronzata, aveva assunto una colorazione cinerea, perfetto specchio della mia anima. Dopo dieci interminabili anni passati nell’apatia più totale, crogiolandomi nella consapevolezza di non avere più un futuro, di non avere più un presente, ma vivendo i ricordi più dolci e soavi del passato, mi sono ridestata.
    Ho cercato la mia vendetta e ho voluto iniziare a creare la mia giustizia. Mi sono resa conto che annullando la mia persona e la mia volontà, concedendomi supinamente alla vita che i Sacerdoti avevano ben confezionato per me, non rispecchiava ciò che ero, ciò che volevo. Erano stati loro la causa di tutto il mio dolore e sfogarlo interamente su me stessa, non avrebbe avuto senso. Allora ho iniziato ad aprire gli occhi, ad aguzzare l’ingegno. Vedendo centinaia di cose, che fino a quel momento erano rimaste celate al mio interesse di Giudice e di persona.
    Avevo da sempre tentato di modificare aspetti portanti che sostenevano le colonne della nostra tradizione millenaria, ma il mio agire era sempre stato debole e sottoposto a costanti revisioni e ostacoli. Ma dopo quel maledetto periodo passato a soffrire e subire, ho deciso che avrei indossato un pugno di ferro e avrei sostenuto la mia guerra. Era l’unico modo che avevo per non morire, per non soccombere all’immane sofferenza della perdita, che mi lacerava il petto e mi soffocava ogni singolo attimo della mia giornata.
    I miei bersagli principali erano proprio i tre Sacerdoti, ben più antichi di me, che rappresentavano, in sostanza, le fondamenta del sistema gioviano, unendo la parte spirituale, con i riti religiosi e di culto, e quella “temporale” che li coinvolgeva in decisioni di tipo strategico e di interesse civile. Io, come Giudice Supremo, ero soggetta al loro “consiglio” prima di fare delle scelte di qualsiasi tipo, sebbene fossi formalmente esclusa dal campo religioso, ero anche ampiamente limitata nel mio ambito di competenza. Proprio per questo, ben quattordici anni fa, ho decretato che questa situazione doveva cambiare. In qualche modo ci sarei riuscita.
    Oggi, potevo considerarmi una pioniera del mio tempo per le riforme che avevo iniziato a portare in vigore e per le feroci battaglie ideologiche che avevo intrapreso con la bigotta tradizione dei Sacerdoti.
    Ho agito in maniera sostanziale sul Codice Penale e Civile del mio pianeta. Introducendo procedure e pene più giuste e più eque rispetto alle colpe. Ho suddiviso le categorie delle carceri, separando i detenuti in base alla gravità del reato commesso. Prima, tutti erano nello stesso luogo, come tutti venivano giudicati sommariamente alla stessa maniera, senza tenere conto di attenuanti o motivazioni.
    Per ottenere questi risultati, avevo ingaggiato uno scontro senza esclusione di colpi con il potere sacerdotale che mi aveva osteggiato in ogni mia azione, ma ciò che riguardava il “Giudizio Supremo” faceva parte di me e non avevano potuto ostacolarmi all’infinito. L’ho spuntata. Sapevo che ero ancora ai piedi di una ripida montagna, irta di pericoli e di insidie, ma non mi sarei arresa. Avevo ancora un sacco di cose da fare per rendere il popolo gioviano all’avanguardia non solo a livello tecnologico, ma anche da un punto di vista morale ed etico.
    A che cosa serviva possedere navicelle avanzate o sistemi tecnici e computerizzati in ogni settore se poi, mancava il sentimento e lo spirito veniva relegato in un cantuccio del corpo, privo di luce?
    Se vivere sulla Terra per innumerevoli anni, mi aveva insegnato qualcosa, era proprio questo. L’essere umano era un insieme di componenti meravigliose, e la loro potenziale fusione poteva dare vita a qualcosa di eccezionale. Un essere completo, dove la ragione non prevaleva sullo spirito e l’anima aveva libero sfogo. Ovviamente, anche sul Pianeta Blu avevano tanta strada da fare per raggiungere la perfezione, ma questa era la base che tutti insitamente possedevano.
    Fin da tempi immemori, il sistema religioso che reggeva il mio pianeta era fondato su divinità potentissime, alle quali si offrivano sacrifici animali per lodarli e assicurarsi la loro benevolenza. Non avevo mai condiviso questa pratica barbara e senza senso.
    Tutti i riti religiosi venivano officiati dai Sacerdoti accompagnati da ancelle bellissime, eteree. Queste erano donne vergini, che venivano sottratte alle famiglie fin da bambine, cresciute e istruite a compiere i loro doveri di vestali. Vivevano segregate in un’ala del tempio e non avevano modo di uscire, di vivere come tutti. L’unico scopo era quello di servire i nostri dèi. Cosa c’era di più brutale di questo? Quanto succedeva con il Giudice Supremo, avveniva anche con loro… per quale motivo chi svolgeva dei compiti al servizio del pianeta Giove, doveva votare l’intera esistenza alla causa, privandosi della famiglia e di farsene una propria…?
    Cosa avevo fatto io per evitare tutto ciò? Nulla! Ero cieca. Chiusa e soggiogata dalle usanze imposte dalla tradizione. Adesso, però, ero completamente diversa. Essere moglie, essere madre mi aveva cambiata fin nel profondo. L’amore che avevo imparato a provare e che ancora era rinchiuso in un angolo del mio cuore, mi ha resa più sensibile e anche più giusta! Di questo aveva bisogno il mio popolo: di giustizia vera! Così, ho manifestato la mia ferma intenzione di dedicarmi ad ogni aspetto che riguardava il mio pianeta e i miei sudditi e nessuno mi avrebbe fermata. Tanto meno i Sacerdoti. Ero solo all’inizio, ma il tempo non mi mancava e neppure la fermezza e la perseveranza.
    Congedati tutti i presenti feci un cenno al più fidato delle mie guardie personali. Lui sapeva che doveva seguirmi. Avevamo un appuntamento fisso al quale non potevamo mancare.
    Ci dirigemmo fianco a fianco, senza aprire bocca, senza un saluto, guardando fisso davanti a noi, alla palestra che era stata adibita per me. Alla fine di giornate sfiancanti, avevo sempre bisogno di sfogare la mia rabbia e la mia frustrazione, tenute ingabbiate per tutto il tempo.
    Il gioviano al mio fianco non era una semplice guardia, ma era un valoroso combattente e un fedele amico. Era l’unico con cui parlavo del mio amore per la Terra e delle mie esperienze passate, perché anche lui, un tempo ci aveva vissuto all’epoca dei Vichinghi. Ovviamente non gli avevo rivelato di Edward e Haytham, non perché non mi fidassi di lui, probabilmente un giorno gliene avrei parlato, ma era un argomento che proprio non riuscivo ad affrontare. Anche solo quando mi immergevo nei ricordi, la sofferenza era così forte da strapparmi l’anima dalla carne, raccontare della loro esistenza sarebbe stato come ammettere ad alta voce di avere davvero abbandonato i tesori più grandi della mia vita. Continuavo a ripetermi che me ne ero andata per salvarli, per proteggerli dall’ira dei Sacerdoti; ma dentro sentivo di aver fallito, di essere una madre degenere e una moglie ingrata. Mio figlio sarebbe cresciuto lontano dalle mie amorevoli braccia, Edward avrebbe continuato a vivere senza i miei baci e le mie carezze. Ed io, mi trovavo “prigioniera” dei miei doveri e di un vile ricatto morale che mi straziava il cuore. Ogni volta che ci pensavo mi si mozzava il respiro in gola e una collera cieca mi invadeva.
    Stinsi i pugni fino a conficcarmi le unghie nei palmi e sbiancare le nocche. Dovevo sfogarmi. Dovevo combattere.
    Eivor mi guardò intensamente. Aveva capito fin da subito che mi portavo dentro un segreto inconfessabile e che mi stava logorando giorno dopo giorno. Era al mio fianco da dieci anni e ormai aveva imparato a starmi vicino con una discrezione e una comprensione lontani da ogni normale concezione. Era la mia roccia senza neppure saperlo. L’àncora alla quale mi aggrappavo per non farmi trascinare dalla corrente dell’oceano di emozioni contrastanti che mi invadevano. L’oceano… il blu… i suoi occhi.
    “Basta! Non ti voglio pensare. Se ti penso cedo, se ti penso crollo, se ti penso muoio!” imprecai mentalmente stremata…
    Oltre ai pugni, strinsi anche le palpebre e mi obbligai a concentrarmi sullo scontro che sarebbe avvenuto di lì a breve.
    Nel frattempo, avevo indossato la mise da combattimento e lo stesso aveva fatto Eivor. Era un colosso di quasi due metri e mi sovrastava di parecchi centimetri, nonostante non potessi considerarmi bassa. Sapevo che il suo stile di combattimento era implacabile. La sua furia e irruenza si scontravano con la mia rapidità e scioltezza.
    Non c’era bisogno di parlare. Solo con gli occhi diedi il via al combattimento. Mi lanciai all’attacco e scaricai su di lui una valanga di montanti, di calci rotanti e di affondi. Lui schivava, incassava, ma non attaccava a sua volta. Lo odiai con tutta me stessa, perché conoscevo le motivazioni che lo spingevano a non reagire. Io ero lì a caricarlo come un toro inferocito di fronte a un telo rosso ed Eivor si limitava a difendersi e a parare.
    Una collera cieca mi colse e iniziai ad urlare con tutto il fiato che avevo in corpo.
    “Fatti sotto, attaccami! Colpiscimi! Reagisciii!” lo afferrai per il bavero della giacca di morbido tessuto che indossava e lo scossi con forza.
    Eivor mi raccolse le spalle in una presa solida e mi costrinse a tornare in me.
    “Non potrei mai colpirti, Nike. Non quando combatti con tanta rabbia e tanto dolore dentro…! Per me non sarebbe equo, lo sai!” mi rispose con la sua espressione calda e comprensiva.
    “Ma io sono nel pieno delle mie facoltà” ancora portavo avanti la mia causa. Mi serviva, dannazione! Volevo che combattessimo ad armi pari, perché diavolo non lo capiva?! “Perché ti ostini a dirmi il contrario?” gli chiesi, adesso con tono rassegnato e meno isterico.
    “Non lo sei. Lo capisco dal modo in cui ti muovi, dal modo in cui affondi i tuoi colpi. Non sei lucida; potrei sfruttare un sacco di tuoi punti deboli, battendoti in due mosse e so che non è ciò che ti serve in questo momento” disse convinto.
    “E di cosa avrei bisogno, sentiamo?!” lo sfidai alzando il mento nella sua direzione e indurendo lo sguardo.
    “Tu vuoi sfogare la tua rabbia. Vuoi esorcizzare i tuoi demoni. Vuoi fuggire da un immenso dolore e un senso di colpa che ti sta divorando.” Rimasi a bocca aperta… il fiato mozzato nei polmoni. “Ma come…” Interruppe i miei pensieri.
    “E per fare tutto ciò devi sfiancare il tuo corpo. Devi essere così piena di fatica per non riflettere o ricordare… per questo mi limito a difendermi, così tu puoi continuare ad attaccare…”
    La sua voce era glaciale e calda allo stesso tempo. La logica del suo ragionamento non faceva una piega e questo mi fece scontrare con la cruda realtà che avevo dinnanzi. Era vero… quando combattevo contro di lui non badavo alla tecnica, alla certezza della riuscita. Ero più simile a una fiera affamata e disperata. Ero davvero così vulnerabile ai suoi occhi? Quella consapevolezza mi fece sentire nuda e fragile. Non lo potevo permettere! Mi allontanai da lui con un violento strattone.
    “Non lo fare, Eivor! Non analizzare ogni mia mossa. Non lo sopporto!” gli dissi puntandogli addosso un minaccioso dito indice.
    “Non ti sto analizzando, Nike. Ho solo risposto alle tue domande. Non agisco mai a caso. E tu lo sai…” Non riuscivo ad ascoltarlo. Il suo placido modo di impartire lezioni di vita ed emettere sentenze mi scorticava i nervi. O forse ero troppo orgogliosa per accettare che aveva dannatamente ragione.
    Non gli risposi perché… lo sapevo bene: ogni sua parola, ogni sua azione era ben mirata a colpire me, a farmi aprire gli occhi. Ma io ero ben conscia di averli serrati. Mi sarei sigillata le palpebre con della cera, se mi avesse aiutato a non sentire più tutto quel dolore.
    Lo guardai con un’intensità incendiaria e poi feci dietro front. Mi incamminai verso l’uscita a passo di carica, non voltandomi indietro neppure una volta. Non avrei vinto quella battaglia lottando e negando l’evidenza dei fatti.
    Dieci minuti più tardi ero sotto il getto bollente della doccia. Appoggiai la fronte alle piastrelle levigate dell’enorme box e abbassai le palpebre. Un leggero formicolio sotto pelle mi avvisava che la scarica di adrenalina che avevo avuto durante lo scontro, non si era esaurita del tutto. Strinsi i pugni e la mascella scricchiolò. Iniziai a colpire con la base dei palmi chiusi le mattonelle nero e verde smeraldo accanto al mio viso. Una, due, tre, infinite volte e flash del passato mi assalirono a tradimento, come una cascata di chiodi roventi. Un bacio di Edward, un sorriso di Haytham, una carezza di Edward, una manina morbida di Haytham. L’amore… l’addio… la mia anima in frantumi…
    Urlai fino a raschiarmi le corde vocali, colpii le piastrelle, adesso con le nocche che pian piano si insanguinavano; il fluido scarlatto si mischiava all’acqua e veniva lavato via con estrema facilità. Pregai che l’acqua bollente potesse portarsi via tutto il mio strazio e la mia sofferenza. Ma nulla… erano sempre lì, seppelliti sommariamente e venivano alla luce ad ogni fugace immagine che si affacciava nella mia mente. Maledetti ricordi… amati ricordi.
    Vi amo… siete fusi al mio cuore. Non vi dimenticherò mai!


    Edited by SydneyD - 28/10/2020, 17:38
     
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