Mirror Dimension (Auditore's Doom)

Earth Prime

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  1. Tharia
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    Annarita
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    Non ero morto. Non ancora almeno. Ma il fatto che avessi riaperto gli occhi, che avessi riconosciuto una finestra inondata da un temporale, che fossi riuscito a muovere le dita dei piedi erano chiari segni che la mia vita non era più in pericolo. Queste furono le prime deduzioni che si presentarono alla mia mente, mentre con la lingua tentavo di umettare le labbra secche e le mie iridi saettavano in lungo e in largo percorrendo una stanza – d’ospedale, era chiaro, ma così antiquata da risultare quasi finta – del tutto sconosciuta. Provai a spostare un braccio e non era andata tanto male, ma delle flebo e alcuni elettrodi mi impedirono di andare oltre. Era notte. La notte mi rendeva quieto, mi permetteva di respirare e di lasciare liberi i pensieri che, di solito, restavano ben ingabbiati in una logica ferrea creata dalle circostanze in cui ero sempre vissuto. La mia vita. Che strano concetto doveva essere adesso. Non sapevo dove fossi, né come ci fossi arrivato. Mi aspettavo di morire, ma non era accaduto. Avevo atteso la mia culla di morte, ma era rimasta ostinatamente vuota. Ero stanco. Sì, ecco, questa era una delle poche certezze che avevo in questo momento, sarei potuto tornare a dormire un po’, solo un altro po’. Fissai i rivoli d’acqua rigare la superficie della finestra e mi estraniai, tornando in una rassicurante oscurità.
    […]
    I giorni passarono, così come le settimane, e io fremevo per tornare in azione. Non ero mai stato un tipo da letto, né per ozio, né per piacere. Gli ozi e i piaceri erano appannaggio dei debosciati che non avevano alcuno scopo nella loro esistenza. Io avevo da fare, un gran da fare.
    Quando avevo riaperto gli occhi per la seconda volta, avevo trovato accanto a me Claudia e Jordan. Ciò che mi avevano raccontato aveva dell’incredibile, ma non per i motivi che si potevano immaginare. Ero vivo perché Claudia aveva voluto che sopravvivessi. Era stato Jordan a confidarmelo, con un’incredulità che sapeva di sospetto e sorpresa. Ma io non ne avevo ancora compreso il motivo. Ero una pedina sacrificabile, avrebbero dovuto proseguire senza di me, questo era il piano. Per questa ragione, dopo essere stato ferito dal leccapiedi di Giovanni Auditore, avevo creduto che la mia fine fosse ormai inevitabile. Il capolinea era ormai giunto. E invece no. Il fatto che neppure Jordan ne capisse il motivo era emblematico, oppure semplicemente non era disposto a confessarlo. Io, però, dovevo scoprirlo. Era diventato un pallino fisso, una sorta di tarlo che mi toglieva concentrazione e disciplina e no, non era da me.
    Nonostante i medici mi avessero raccomandato assoluto riposo, non ne potevo più di stare sdraiato o seduto, così quella mattina avevo deciso di alzarmi di mia iniziativa e andare verso la finestra dalla quale avevo visto diversi cieli sereni e alcuni temporali. In questa dimensione tutto sembrava rallentato, moderato… antico, persino il ritmo dell’incedere delle persone pareva seguire un ritmo tutto a sé. I tramonti erano dolci, così come le albe. I trasporti erano più o meno moderni, ma al pari dei nostri erano dei veri pezzi di antiquariato. Il cibo però era molto più buono. Non esistevano pillole e liofilizzati, ma il pane, l’olio, la pasta, le olive – quanto mi piacevano le olive? –, il vino, i pomodori. Non avevo assaggiato tutto questo per merito del servizio ospedaliero, ma solo grazie alla solerzia di Claudia. Una volta al giorno, riusciva a portarmi un pasto completo, ricco di sapori e sorprese di cui avevo perso quasi memoria. Anche nella nostra dimensione esisteva il cibo solido, ma per comodità si tendeva a ingerirlo solo nei grandi banchetti. Ecco cosa osservavo al di là di questo vetro: la gente, le macchine, la natura, vite frenetiche eppure ovattate in una routine lontanissima da quella a cui ero abituato. Sembravo uno scienziato al cospetto di esperimenti interessanti e la smania di toccarli con mano mi stava divorando… ma prima… prima doveva capire “perché” mi trovavo qui. Mi aggrappai all’asta della flebo, le gambe erano ancora malferme, perciò la presa si fece più salda sul metallo. Fu allora che udì la porta aprirsi e il famigliare odore di rosa e zenzero mi giunse alle narici: Claudia.
    La sua visita giornaliera era stata la mia di routine. I primi tempi, quando a malapena riuscivo a tenere le palpebre alzate, divorato dalla febbre, l’avevo percepita muoversi solerte per inumidirmi le labbra, per tamponarmi la fronte madida di fatica, infilare le dita tra i miei capelli, vezzeggiandoli con movimenti ritmici e ipnotici. Erano gesti inconsueti, fin troppo intimi, ai quali lei si concedeva certa che io fossi in preda al delirio della febbre. E così era, ma nulla mi era sfuggito. Tuttavia, non avevo osato dirle nulla, non dopo essermi piano piano ripreso, non dopo che lei era tornata a comportarsi “quasi” come prima. Era chiaro che non desiderava esporsi oltre misura, ma come potevo dimenticare il fatto che ero ancora vivo solo perché lei lo aveva voluto? Non ero bravo con i sentimenti, facevano parte di una educazione, di una cultura, di una dimensione a me totalmente estranea. Ma si trattava davvero di qualcosa del genere? Oppure stavo immaginando tutto?
    La vidi sgranare gli occhi per la sorpresa nel vedermi in piedi. La sua bocca dipinta di rosso rubino si trasformò in una “o” perfetta, poco prima di portare le mani proprio a coprire quella “o”. Che strana espressione aveva, il suo sguardo era scintillante e il suo corpo si mosse di slancio verso di me.
    “Sembri stare molto meglio!” mi disse con un torno particolare, non riuscivo a decifrare le vibrazioni che lo coloravano. “Ma non è forse troppo presto per alzarti?” chiese poi, mentre un’ombra di dubbio le offuscava le iridi luminose.
    “Mi sento bene, ma se continuo a stare sdraiato non recupererò mai le forze. L’emorragia interna è ormai totalmente riassorbita, gli organi hanno ripreso le loro funzionalità, adesso devo ritornare a muovermi per permettere ai muscoli di fare lo stesso…” spiegai, con la mia solita voce atona, priva di inflessioni, pragmatica. Poi tossicchiai un po’, non parlavo mai così tanto e la gola era subito diventata arida. Almeno credevo fosse per quello. La osservai spostare il peso da una gamba all’altra, dondolarsi un po’, puntare il pavimento col tacco a spillo, torcersi le dita in gesti nervosi. Era strana, era vicina, ma inquieta. “Sai per caso quando mi faranno uscire da qui?” chiesi, un po’ per spronarla, un po’ per toglierla da un impaccio che non riuscivo a inquadrare. Lei ne sembrò lieta e colse la palla al balzo.
    “Oh, ancora qualche giorno e poi ti sposteranno nel Reparto di Fisioterapia per la riabilitazione…”
    “Non c’è bisogno, quella la farò da solo. Vorrei solo andare via da qui al più presto…” dissi sincero, gettando un altro sguardo oltre la finestra, con il chiaro desiderio di essere già lì fuori. “E poi, abbiamo tante cose da fare, giusto? Posso essere d’aiuto!” specificai, tornando a guardarla subito dopo. Incrociai i suoi occhi scuri e cercai di penetrare i suoi pensieri, ma alla fine mi ritrassi. Non era così che avrei dovuto capire. Era assurdo per me farmi di questi scrupoli, ma c’era qualcosa che mi impediva di andare oltre.
    “Hai ragione! Farò in modo che ti diano le dimissioni al più presto e… potrai tornare a casa, sai la villa Auditore è un vero gioiello, non vedo l’ora di poterla mostrare…” E via così, un fiume di parole, di descrizioni, di entusiasmo. E io rimasi lì a fissarla, ipnotizzato, assurdamente perso in quella voce e in quel gesticolare esagerato.
    “Perché?” chiesi, tutto a un tratto. Claudia si bloccò di colpo, come se fosse stata addirittura schiaffeggiata. “Perché mi hai salvato la vita?” rincarai, come se la prima domanda fosse caduta nel vuoto, anche se sapevo benissimo che così non era stato. Eccola di nuovo quell’espressione smarrita che mai le avevo visto addosso, quel torcersi le mani, preda di un disagio sconosciuto. Ma non potevo davvero attendere ancora.
    “Non ne ho idea…” mi rispose dopo attimi infiniti, in un unico sospiro, arresa di fronte a una realtà che neppure lei comprendeva.
    Alzai un braccio e con un dito disegnai il profilo delle labbra dischiuse, dello zigomo perfetto, fino a soffermarmi sulla sua tempia liscia. Un tocco leggero, molto simile a una piuma che sfiora e non invade. E dovette percepirlo come tale, perché le sue iridi tornarono a incatenarsi alle mie… il disagio, solo una nota stonata sullo sfondo.
    “Sei una persona speciale, Claudia. Hai sangue freddo da vendere e la lucidità di una eccellente stratega. Ti ammiro per ciò che sei e sono onorato di poterti essere utile, di poter lavorare di nuovo al tuo fianco.” Era inutile continuare a indagare su un qualcosa che era ancora da definire, su un qualcosa di amorfo, senza colore, né nome. Tuttavia, era giusto che la mia riconoscenza e la mia lealtà arrivassero a destinazione senza alcuna ombra a offuscarle.
    Gli occhi umidi di Claudia, però, mi confusero.
    “Ne-ssuno… nes-suno mi aveva mai det-to cose del genere…” farfugliò in sillabe stentate. Speravo fosse una cosa positiva, ve l’ho già detto che non ci so fare con le emozioni, vero? Ma la verità no, quella era il mio pane quotidiano e non l’avrei negata per nulla al mondo.
    “Portami via da questa stanza e ti dimostrerò con i fatti le mie parole…” La fissai determinato, pronto a mantenere le mie promesse come non lo ero mai stato. Era lei a meritarlo prima di ogni cosa. Poi, sarebbe venuto tutto il resto.
     
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