Present Day #2020: Imperial Palace

Season 5

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    :Ezio:
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    Ogni tanto ne arrivavano... ma non erano mai volti conosciuti, e spesso diventavano velocemente ricordi vaghi, che non riuscivo a collegare a momenti o giorni precisi.
    Non questa volta. Sorrisi amichevolmente a una vecchia conoscenza, il Generale Thot. Avevamo affrontato insieme una delle missioni più difficili e importanti a cui avevo mai partecipato. Da quella, la mia vita aveva preso una direzione diversa. Che era... desiderata... avevo lottato per ottenere quanto avevo... ero con Pandia.
    E con lei avrei passato la mia vita.
    Soprattutto ora che avevamo una figlia... la nostra... bambina.
    Bella come lei, questo era chiaro.
    Sistemai meglio la lama celata sotto la manica della giacca di pelle: stavo uscendo dal Covo per... per incontrare un informatore... ?
    Ora non aveva importanza, lo avrei fatto più tardi.
    Riportai lo sguardo sui miei ospiti. Thot pareva spossato, come se portasse più della sua armatura, sulle spalle. Il suo viso tradiva un tormento profondo e pronto a superare ogni argine. Non erano da meno le due donne. La prima, poco più di una ragazzina, dai capelli di un colore particolarmente acceso. Pandia doveva avermi parlato di lei, si trattava di una sua compagna, una Guerriera dell'Impero Lunare, mentre l'altra... era un viso che forse avevo già incontrato, ma non ricordavo esattamente la circostanza.
    Sicuramente non era rilevante in questo frangente.
    “Venite, dobbiamo parlare” Li scortai verso la sala riunioni, ancora deserta a quell'ora del mattino. Presto sarebbero arrivati altri Assassini, qualcuno... ma per ora era tranquilla, era un luogo sicuro in cui parlare. Se erano qui, indubbiamente la questione era gravosa. Chi arrivava al Covo aveva un motivo pressante a cui badare, e io avevo il compito di aiutarli.
    “Devo sapere una cosa molto importante per potervi aiutare: cosa vi ha portati qui?”
    “Devo salvare il mio Compagno Alato, una Guerriera di nome Horus. E' rinchiusa nella prigione dell'Abisso, senza averne alcuna colpa”
    Inclinai la testa, perplesso e stupito. Non ricordavo niente del genere, riguardo il mio amico. Avere un Compagno Alato era una prerogativa dei marziani, e lui non lo era, lui era un fedelissimo degli Imperatori... ma aveva importanza per me?
    “La prigione è soggetta ad una regola inviolabile. Non è una semplice legge stabilita da un dio o da un essere superiore, ma un principio ineludibile dell'universo. In quel punto preciso, il vuoto potrebbe creare una reazione a catena, che impatterebbe su tutto il resto. La prigione non è una semplice punizione per chi vi è rinchiuso, è più che altro un'assicurazione che in quel punto non venga mai a crearsi una certa condizione, ovvero l'assenza di vita. Deve garantire il rispetto di uno dei principi fondamentali del cosmo”
    Respirai a fondo. Le espressioni dei tre non cambiarono di una virgola, quasi non avessero sentito la mia spiegazione. Ma probabilmente già conoscevano queste informazioni, e avrebbero continuato nonostante il danno che potevano creare. Erano pazzi, se davvero pensavano di poter salvare questa persona senza incorrere in tutto il resto. Distruzione, annientamento, rovina e morte, per tutti gli esseri viventi... chi meritava così tanto da causare un'ecatombe assoluta e incontrollabile?
    “Lei sta soffrendo pene peggiori della morte, io devo salvarla”
    “Pene peggiori della morte! La Profezia contiene questo indizio, e si sta avverando!”
    Mi girai verso la Guerriera che aveva parlato. I suoi occhi erano tremendi, carichi di speranza feroce e determinazione irriducibile ma... non sarebbe bastato. Scossi la testa.
    “La prigione non è un luogo di tortura. Sai perché chi è rinchiuso lì subisce un destino così tremendo? Perché è una sua scelta. Sono le sue paure, i suoi dubbi, i rimorsi a tormentarlo. Non è un'inezia passare la propria esistenza in un nulla infinito, ma siamo noi stessi che ci infliggiamo i dolori peggiori...”
    Incrociai le braccia al petto, abbassando e calcando il tono di voce per cercare di spezzare la loro audacia sconsiderata.
    “Andatevene finché siete in tempo. E' chiaro che questo posto non è per voi...”
    Sentivo come una pressione sulle tempie aumentare. Sapevo che si stavano avvicinando. Erano implacabili, squali che una volta assaggiato il sangue della preda, non si sarebbero accontentati né arresi. Non avrei potuto fare altro, in quel momento, per loro.
    “No. In qualsiasi inferno sia Horus in questo momento, siamo venuti qui per liberarla”
    Alzai il mento, mentre ricevevo le sue parole con una smorfia di pietà e dispiacere.
    “Io ho cercato di avvertirvi...”
    Udii il vento, come un lamento che arrivava da profondità siderali, aumentare di violenza, di volume. Ora, davvero, era troppo tardi per loro. Avevano avuto la possibilità di evitare quello che sarebbe successo, ma adesso i loro inseguitori erano troppo vicini per cercare di eluderli.
    Il muro di pietra della sala cominciò a mostrare delle crepe, che si andavano allargando come una ragnatela. Poi esplose, come se un maglio lo avesse colpito con violenza dall'esterno. Rimasi fermo, immobile. Io non rischiavo nulla, ma dovevo capire quali fossero le intenzioni di quegli esseri. Per qualche secondo, la polvere alzata mi impedì di vedere e, di conseguenza, di capire ma poi, come se si materializzasse in carne vera e metallo vero, distinsi la copia identica di Thot.
    C'era solo lui.
    Riguardava solo lui.
    Dopo un attimo di stupore, il piccolo gruppo si preparò ad attaccare il nuovo arrivato, l'ombra con le sembianze del Generale, ma io mi ero spostato prontamente davanti alle due donne, bloccandole.
    “Non potete intervenire in questo scontro, nessuno può affrontare lo spettro che è stato mandato dalla Regina. Lui deve portare a termine un compito, ha un messaggio da trovare e lo dovrà ricevere solo da chi è stato scelto. Se dovessimo intervenire, continuerà ad attaccare fino alla vostra morte. Dovete lasciare che Thot combatta da solo!”
    Mi assicurai che avessero capito quanto fosse grave il mio avvertimento. Poi parlai a Thot in tono perentorio e distaccato.
    “Per quale motivo sei qui?”
    “Te l'ho già detto, voglio liberare una persona che è importante per me, per tutti noi!”
    Misi le mani sui fianchi. Era testardo, orgoglioso e... irragionevole. Lo spettro si avventò su di lui con una forza e una potenza micidiali. Per quanto fosse possente, aveva poche speranze di poter resistere più di qualche minuto. Alzai la voce, scandii con forza le medesime parole:
    “Per quale motivo sei qui?”
     
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    Annarita
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    :Thot:
    “Per quale motivo sei qui?”
    Continua a ripeterlo, ma la mia risposta era chiara, limpida, reale. Perché non si decideva a credermi?!
    Non credevo che una situazione di per sé già tragica sarebbe potuta peggiorare ulteriormente in così pochi istanti. Rivedere Ezio, Pandia e la loro bambina era stato un colpo al cuore. Uno strano formicolio mi aveva invaso, ma credevo che avrebbe avuto più risonanza dentro di me. In fondo, Pandia si poteva considerare il mio primo vero amore. Certo, prima che il nostro universo finisse, ero venuto a patti con il fatto che lei non era mai stata innamorata di me, che amava un Assassino di nome Ezio Auditore, che scalpitava per crearsi una vita con lui e… non con me. Ero venuto a patti, sì, ma come avevo fatto a ricucire il mio cuore così in fretta? Era la nuova vita in cui ero stato catapultato ad avermi cambiato nonostante tutto, senza che me ne accorgessi? Erano stati i sentimenti del vecchio Thot a plasmarmi? I dubbi mi assalirono, ma furono fugaci, consistenti quanto una nuvola estiva. Ciò che avevo dentro era troppo dirompente per essere una semplice derivazione di quanto provava un altro essere… simile ma non uguale a me. Io ero marziano di origine, ma non ero mai stato un nobile. La mia sola famiglia era stata l’Impero Lunare. L’unica persona che avevo creduto di amare non mi aveva mai corrisposto. Le sorelle che sapevo di avere non mi conoscevano affatto come fratello. Avrei potuto continuare all’infinito e descrivere “quanto” io e lui eravamo diversi e lo saremmo sempre stati.
    “Vuoi dire che non sei il mio... Campione? Lui dove è?” Le parole di Horus tornarono a tormentarmi. Non ero lui, l’avevo davvero ingannata? Ero forse un masochista attratto dagli amori impossibili? Oppure, semplicemente, non ero degno di amare? Stavo perdendo tutto ciò in cui avevo creduto con così tanta forza… perché? Ero forte, ma mi sentivo debole. Ero combattivo ma mi sentivo un pavido. Ero parco delle mie convinzioni ma mi sentivo vuoto, dannatamente vuoto. Cosa mi stava succedendo? E perché riflettevo su affari inutili quando avevo una missione tanto importante da portare a termine? Una missione… sì… dovevo… dovevo salvare…
    HORUS. Il suo nome vibrò nei miei pensieri come un diapason enorme, stordendomi e riportandomi alla lucidità al contempo. Non ero da solo come avevo creduto, ero nel bel mezzo di una feroce battaglia con uno… spettro! Serrai la mascella talmente forte che sentii scricchiolare l’osso. Fissare il mio stesso riflesso, combattere contro di esso, tenere a mente che non ero davvero io, fu molto… molto difficile. Era uno spettro, un divoratore di paure, si deliziava con i miei dubbi e il mio dolore. Ma non volevo… non volevo essere il suo banchetto.
    “Hai permesso che la portassero via!” Una nuova voce rimbombò nella mia testa, un milione di spilli vi entrarono dentro bruciando come lava incandescente. Quella voce aveva le mie sembianze, ma era totalmente diversa. Non ero io, non lo ero mai stato. Non era il mio riflesso, non lo era mai stato. Uno spettro? Ne ero davvero sicuro? Quell’essere era il Thot di Horus, il suo vero Campione, colui che l’aveva amata molto prima di me, forse con maggiore intensità. Colui che l’aveva lasciata andare per non farla soffrire, che l’aveva allontanata per evitarle una condanna a morte. “Hai rubato la mia vita e il mio amore, dovresti sparire, soccombere, tornare da dove sei venuto!”
    “Non l’ho scelto io! Non è colpa mia!” urlai, cercando di staccarmi dalla presa ferma del mio alter ego. Mi serrava il viso, le tempie, la testa con dita che parevano artigli. Se avesse potuto mi avrebbe fatto a pezzi, dilaniato come una fiera affamata, e ero certo che – in qualche altro modo – lo stesse davvero facendo. Mi sentivo sanguinare.
    “Ti sbagli! È tutta colpa tua. Se ci fossi stato io al suo fianco lei non avrebbe mai ceduto alla trappola, si sarebbe fidata di me, mi avrebbe raccontato tutto e insieme avremmo sconfitto il dio oscuro… Tu… tu sei solo un estraneo, un errore di calcolo, rovini tutto quello che tocchi…” Mi stava pugnalando? Stava aprendo le mie carni infilandoci dentro le dita per bearsi del mio dolore? Avevo davvero rovinato la vita di Horus solo con la mia presenza…?
    “Non volevo, non volevo… io non l’ho scelto…” Il mio tono, però, era molto meno convincente e adirato. Non ne ero più così sicuro. Non avevo scelto di perdere tutto, ma ciò non cambiava il fatto che avevo trasformato in menzogna un rapporto reale… Adesso potevo percepire il sangue che sgorgava dalle ferite a fiotti, portandosi via ogni certezza e lasciando solo strazio…
    “Devi andartene, impostore. Devi soccombere e lasciarmi il posto che mi appartiene di diritto. Devo andare a salvare la mia Horus, solo con me potrà essere felice…” Horus. Horus. Horus. Quel nome stava svanendo dalla mia testa, tentavo di afferrarlo con dita invisibili, ma percepivo le lettere perdere il loro significato… poi un’eco lontano si insinuò nella mia coscienza, era debole ma mi arrivò chiaro.
    “Per quale motivo sei qui?” Ezio Auditore. Continuava a chiedermi perché ero venuto in una dimensione tanto brutale, ma io… non lo sapevo più, lo avevo dimenticato. Oppure no? Mi sforzai di tamponare le ferite, ero troppo concentrato su di esse per ragionare con lucidità. “Per quale motivo sei qui?” Ancora lui? Perché continuava a distrarmi? Non avevo tempo per stare dietro a simili assurdità. Stavo morendo dissanguato e non sapevo come chiudere quella dannata ferita… “Per quale motivo sei qui?” Basta!
    “Zitto, zitto, zitto, maledetto! Non lo so… non so perché sono qui… sto morendo, non lo vedi il sangue? Non lo vedi il mio assassino? Poi il silenzio. Un silenzio che pesava più come assenza fisica che assenza di suoni. Thot era di fronte a me e mi fissava, soddisfatto. Mentre la figura di Ezio spuntava al margine della mia coscienza e mi guardava con occhi delusi, anzi no… affranti. Sapeva che sarebbe finita così, sapeva che quella sarebbe stata la mia risposta? Ma era davvero quella giusta? A cos’altro avrei dovuto pensare se non alle mie mani insanguinate e al dolore che mi scavava le viscere… c’era, c’era qualcos’altro, di molto più importante, ma cosa?
    Fissai a mia volta il mio alter ego, senza rifletterci su, per un motivo che non riuscivo a spiegarmi, lo colpii in viso con un pugno violento. Quando le nocche si spaccarono mi resi conto di non aver indosso la mia armatura di Moon Knight. Anche la ferita era aperta sull’addome senza protezione del metallo indistruttibile. Non andavo mai in missione senza, era la mia seconda pelle da quando avevo salvato la vita della Principessa Pandia ed ero diventato un fedelissimo degli Imperatori. Era il mio scudo, il mio vessillo, mi ci aggrappavo ogni volta che mi sentivo perso. Era il mio scopo. Combattere per una causa onorevole e non più su commissione. Ero un soldato, ero fiero di esserlo. Dov’era finita? Una rabbia cieca iniziò a impossessarsi di me, mentre una strana ma potente consapevolezza si faceva strada tra il dolore intenso e i fumi di ricordi perduti. I miei ricordi. Il ricordo. Dovevo afferrarlo, lo sapevo bene. Ma sentivo le braccia così deboli, le gambe così pesanti… eppure era lì, tanto vicino…
    Il mio alter ego non sanguinava, si stava avvicinando di nuovo… per finirmi. Voleva me… voleva cibarsi del mio dolore. I suoi occhi scuri diventarono rossi come rubini e allora capii. Non lo avrei lasciato vincere, non sarei stato il banchetto di uno schifoso spettro succhia-paure.
    Lo colpii ancora, questa volta al petto, scatenando la sua ira.
    “Essere inutile, devi soccombere…” La mia voce non era la mia voce. Né quella del vecchio Thot. Il mostro stava cedendo, ero io a farlo vacillare? Oppure qualche dio benevolo aveva avuto pietà di me? Non aveva importanza, perché avevo capito cosa dovevo fare. Ero stanco, svuotato, ma percepivo una fiamma ardere di nuovo… Il ricordo, ecco qual era la mia àncora.
    “Per quale motivo sei qui?” Ezio Auditore mi fissava adesso con una luce diversa sul volto, era eccitato, sorpreso, mentre la sua voce si faceva sempre più incalzante, ritmica.
    “Per Horus… sono qui per salvarla… Devo riportarla a casa, con me…” C’era di più, lo sapevo. Dovevo dirlo, lo spettro non mi avrebbe lasciato andare altrimenti. Ma cosa avrebbe comportato? Aveva davvero così tanta importanza. “Perché, perché io la amo. Con ogni parte di me stesso, con ogni fibra del mio cuore rotto… Non è molto, lo so, ma è la verità…” Il sorriso di Ezio fu un regalo inatteso, ma non feci in tempo a vedere altro intorno a me perché mi sentii risucchiato in un oblio nero pece, dove persino gli occhi color rubino dello spettro furono inghiottiti come stelle morenti.
    […]
    Quando ripresi conoscenza, il mio primo istinto fu di tamponare il terribile squarcio che ricordavo di avere sull’addome. Ma quando lo feci ritrovai la mia armatura da Moon Knight al suo posto e nessuna traccia di sangue. Mi girava la testa, avevo la nausea, ma ero vivo…! Ero riuscito a superare quella che doveva essere una prova, ma adesso ero solo. Toccai l’orecchio in cerca dell’auricolare, ma dovevo averlo perso durante la colluttazione, anche se non sapevo come e dove si fosse verificata: era stato tutto nella mia mente? Non ne avevo la più pallida idea. Mi rimisi in piedi e mi guardai attorno mentre riflettevo sul da farsi, ma il buio mi circondava e pareva volermi di nuovo fagocitare. A un certo punto però, una flebile luce attrasse la mia attenzione… la seguii, incurante di eventuali ostacoli o pericoli di fronte a me. Quel bagliore mi chiamava come se fosse un canto melodioso, dentro di me sapevo che lì avrei trovato ciò che stavo cercando anche se non osavo ammetterlo ad alta voce.
    E non mi sbagliavo.
    Alla fine del tunnel oscuro la luce divenne accecante, ma fu solo un attimo. La devastazione che mi si parò davanti ebbe la forza di frantumare gli ultimi pezzi di cuore rimasti nel mio petto.
    Horus era rinchiusa in una cella sospesa, fatta di sbarre nere cosparse di aculei. Era rannicchiata in un angolo buio, il capo tra le ginocchia, le braccia ad abbracciare delle gambe scarne. Indossava una leggera veste, ma non era sufficiente a coprire le costole sporgenti, i gomiti e le caviglie spigolose.
    Mi avvicinai di slancio, afferrando le sbarre e tirandole come se avessi un dio malvagio in corpo. Sentii le spine penetrare i palmi e allungarsi oltre la mia carne. Urlai per il dolore, che non era solo fisico.
    Questo non era nella mia mente, questo non era opera di uno spettro, questa era la dannata realtà.
    “Horus, amore mio, mi senti? Horus, sono qui… sono venuto per portarti via… Horus…” Lei non si mosse di un solo centimetro e io ebbi il terrore che tutto il viaggio fosse stato inutile.
    Scossi con maggior forza quella maledetta prigione, incurante degli aculei che perforavano le mie mani. Urlai ancora e ancora. Chiamavo il nome tanto amato. Invano.
    Era lontana da me con la sua anima, non mi ascoltava, non si fidava, non sarebbe tornata da me… Avevo rovinato tutto… Forse lui avrebbe potuto salvarla: non ero il suo Campione e non lo sarei mai stato.
     
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    Roberta
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    :Iuventas:
    Quello che stavamo vivendo, si stava sempre più trasformando in un incubo. Sapevamo perfettamente di essere entrati in un dedalo di dimensioni. In un luogo proibito e ricco di ostacoli, che come artigli ti raschiavano l’anima, per rubartene un pezzetto. L’Assassino Ezio Auditore era lì per dissuaderci dal proseguire lungo il nostro cammino. Doveva conoscere molto bene la dimensione in cui ci trovavamo, perché a sentirlo parlare, pareva avesse pagato a caro prezzo egli stesso le conseguenze della sua permanenza in quel posto. Seppur, con ogni evidenza, la coppia che si era formata qui, doveva in qualche modo aver lenito i loro cuori, che invece erano distanti fisicamente nella realtà. Stavo farneticando. Molto probabilmente l’Ezio e la Pandia che avevo davanti agli occhi non avevano nulla a che vedere con i loro omonimi sulla Terra. La dimensione che stavamo attraversando era tutta un sogno, e i personaggi che incontravamo potevano benissimo essere proiezioni di volontà astratte, o addirittura residui di un passato mai avvenuto e forse desiderato. Nulla aveva senso.
    In quel momento, solo la nostra missione aveva la priorità. Salvare Horus era vitale, non ce ne saremmo andate senza di lei. Nessuno di noi tre lo avrebbe permesso. Per quanto Ezio continuasse a presentarci i lati più oscuri e negativi di quel mondo e le nefaste conseguenze che le nostre azioni avrebbero potuto generare, noi non vacillavamo, restavamo fermi sulle nostre decisioni e sui nostri intenti. Horus al primo posto.
    Era lei una parte della profezia. Colei che avrebbe vissuto una sorte peggiore della morte. Era prigioniera nel tempo non tempo e spazio non spazio; un limbo privo di forma e di sensi. Condannata ad un’eternità di nulla infinito. Non l’avremmo lasciata in balìa delle sue paure e dei suoi sensi colpa, che l’avrebbero torturata senza sosta, per sempre. Inorridii al solo pensiero di una simile sorte. Mio fratello era stato chiaro e aveva espresso la mia volontà, come quella di Senu: saremmo andati avanti, con o senza il suo aiuto.
    Poi, all’improvviso, la stanza dalle pareti di nuda pietra iniziò a tremare. I muri si scalfivano e una sottile polvere scorreva giù fino al suolo. Enormi crepe si aprivano, come squarci nella carne, un boato assordante mi costrinse a tapparmi le orecchie e l’infido pulviscolo mi entrò nelle narici, quasi soffocandomi. Resistetti con tutte le mie forze e poi, sollevai le palpebre, che avevo abbassato per proteggermi gli occhi dalle schegge impazzite che volavano sopra le nostre teste.
    L’unico realmente conscio di quanto stava per accadere era Ezio, ma nonostante la consapevolezza si fosse fatta largo sul suo volto, la sua espressione era un misto di sgomento e rassegnazione. Sapeva cosa o chi sarebbe sopraggiunto di lì a breve. Ancora non li potevo vedere, ma dei lamenti assordanti graffiavano le mie orecchie, come unghie stridule su una superficie perfettamente levigata.
    Subito dopo, una parete cedette di schianto ed io, che mi trovavo molto vicina, fui sbalzata all’indietro come se fossi stata colpita dall’onda d’urto di un’esplosione. L’impatto fu doloroso e la sofferenza rischiò di accecarmi per un momento. Senu fu subito al mio fianco e mi aiutò ad alzarmi.
    Toth pareva quasi in trance, continuava ad osservare un punto ben preciso nella nuvola di polvere, il suo viso era una maschera di incredulità ed Ezio scuoteva il capo sconsolato. Seguii i loro sguardi e mi trovai d’innanzi un fantasma, non poteva essere altro che un’illusione ottica, un essere incorporeo, ma per quanto lo sperassi, quello spettro con le medesime sembianze di mio fratello, era dannatamente vero, enorme e identico a lui. Un brivido gelido mi corse lungo la colonna vertebrale e il respiro mi si mozzò nella gola. Cosa diavolo era quell’essere?!
    Senza esitazioni e ignorando una potente fitta di dolore alla spalla sinistra, avanzai verso il nemico. Non avrei lasciato Toth a combattere da solo. Anche Senu era muta e attonita, ma decisa quanto me a battersi con forza e decisione. Il nostro cammino però fu sbarrato dall’Assassino che si piazzò tra noi e i due duellanti gemelli.
    “Non potete intervenire in questo scontro, nessuno può affrontare lo spettro che è stato mandato dalla Regina. Lui deve portare a termine un compito, ha un messaggio da trovare e lo dovrà ricevere solo da chi è stato scelto. Se dovessimo intervenire, continuerà ad attaccare fino alla vostra morte. Dovete lasciare che Thot combatta da solo!”
    Era stato più chiaro dell’acqua cristallina di un torrente, eppure perché quelle parole mi apparivano senza senso? Perché il mio unico desiderio era di mandare al diavolo la Regina, disintegrare il suo Spettro e distruggere quella dimensione che creava solo un enorme sofferenza? E allo stesso tempo, perché non riuscivo a muovermi? Volevo con tutte le mie forze andare avanti, pormi al fianco di mio fratello e combattere coprendogli le spalle, eppure ero ancorata al suolo, come se i miei piedi si fossero fusi al pavimento di pietra.
    Intanto, aveva avuto inizio uno violentissimo scontro. Lo spettro si accaniva con tutte le sue forze, pestava, urlava, imprecava e continuava a ferire.
    Non potendo muovere un solo muscolo, paralizzata da mani invisibili, mi concentrai sull’accesa “conversazione” che i due Toth stavano avendo. Mi parevano parole senza senso e sconnesse dalla realtà. Chi si credeva di essere quel fantasma “rubafacce”? Perché si arrogava diritti sulla nostra Horus quando era solo frutto di un’illusione data dal mondo di cui eravamo vittime? E la cosa che mi sconvolgeva nel profondo era quanto mio fratello fosse provato e distrutto dalle sue parole. Lui “gli credeva”. Lui temeva in fondo al suo cuore che le parole che lo schiavo della Regina gli stava sputando contro, potessero avere un fondo di verità. Lo potevo leggere nei suoi occhi terrorizzati, nel suo volto sgomento.
    Se Ezio aveva ragione, se davvero quella schermaglia rappresentava una prova da superare, affinché Toth prendesse atto di sconosciute verità, allora, per un attimo, temetti seriamente che lo Spettro potesse avere la meglio. Il vero Toth era come prosciugato. Quell’essere gli stava rubando ogni certezza, ogni scampolo di vita vera e vissuta. Stava cedendo. E mentre lui gemeva per il dolore e si dimenava per ferite sanguinanti che noi non potevamo vedere, Ezio continuava a pronunciare la stessa identica frase, come un mantra: “Per quale motivo sei qui?” Sembrava il macabro ritornello di una filastrocca che faceva da sottofondo alla sofferenza infinita di mio fratello.
    Allora non resistetti più, mi sentii pervadere da una forza che non credevo neppure di possedere. Percepii distintamente un’energia potente scoppiare dentro di me e quando provai, per l’ennesima volta, a staccare i piedi dal suolo, ci riuscii. Era come se l’incanto si fosse rotto e la bolla che mi teneva prigioniera si fosse spezzata. Colta da un improvviso capogiro, persi lo slancio che avevo preso per avanzare verso Toth, la cui anima stava per essere risucchiata in un baratro senza fine. Ezio mi afferrò per il petto con un braccio e mi tenne ferma. Io scalpitavo e mi dimenavo come una forsennata. Non ero più disposta a vedere mio fratello soffrire, lo avrei aiutato, con ogni mezzo. Ma la morsa dell’Assassino era invalicabile e la frustrazione si impossessò del mio corpo.
    “Avanti Toth, non dargliela vinta! Fai vedere chi sei a quel fantasma scolorito. Non ha nemmeno la metà della tua forza, del tuo valore, dei tuoi sentimenti. Resisti. Combatti!” urlavo con quanto fiato avevo in gola, ma ero certa che non poteva sentirmi e forse per questo gridavo sempre più forte fino a raschiarmi la gola. Lui era nel suo inferno personale e solo con la sua immensa determinazione e forza di volontà, avrebbe trovato il modo di venirne fuori e superare quella maledetta prova. “Ce la puoi fare, fratellone!” pensai convinta.
    All’ennesimo domanda di Ezio, che fino a quel momento non aveva ricevuto la giusta risposta, un urlo disperato si levò dal petto di Toth e le parole che uscirono dalle sue labbra mi colpirono come una pugnalata nell’addome.
    “Per Horus… sono qui per salvarla… Devo riportarla a casa, con me… Perché, perché io la amo. Con ogni parte di me stesso, con ogni fibra del mio cuore rotto… Non è molto, lo so, ma è la verità…”
    Quella dichiarazione tanto accorata fu in grado di gelarmi il sangue nelle vene e scaldarmi il cuore al tempo stesso. Avevo intuito qualcosa nell’ultimo periodo, avevo capito che mio fratello stava tramando qualcosa che non avrebbe ammesso neppure di fronte a se stesso, ma io lo sentivo… e quello che avevo percepito era semplicemente Amore.
    Il rispetto tra Campione e Compagno Alato è massimo, addirittura viscerale. Le sensazioni che si provano e che si manifestano sono simbiontiche, gemelle, in piena fusione, ma in lui c’era qualcosa in più e adesso ne avevo la piena conferma.
    Parve che quelle frasi pure e senza schermi avessero spezzato un sigillo e aperto un portale oscuro, una fenditura nelle tenebre.
    Toth era lontano da me, stordito e quasi incosciente. Provai ad avvicinarmi, ma all’improvviso, tutto intono a noi iniziò a scomparire ad una velocità allarmante: Ezio, la stanza di pietra del covo degli Assassini, persino lo spettro malefico si era volatilizzato.
    Senu era al mio fianco, feci appena in tempo ad afferrare la sua mano, e senza che potessimo opporci, fummo risucchiati nel buco nero che si era formato di fronte a noi.
    Subito dopo, o dopo un’eternità, non ero in grado di percepire lo scorrere del tempo, mi ritrovai sbalzata con forza e ruzzolando andai a sbattere contro un ostacolo che non riuscii a identificare nel buio che mi circondava. Non ero sola, udii un gemito di dolore e riconobbi la voce di Senu. Per fortuna, almeno lei era sana e salva e al mio fianco.
    “Stai bene? Sei ferita?” le chiesi senza poterla neppure scorgere, poi, d’un tratto una luce fioca, quasi grigia illuminò la sagoma del mio corpo e quella della madre di Horus. Era vicina a me e si stava sollevando da terra. Mi avvicinai concitata, abituando la vista a quella nuova labile fonte di luce. Mi guardai intorno. “Toth non c’è…!” constatai sconsolata… “Ma dove può essere finito!” Sperai con tutta me stessa che ovunque fosse arrivato, trasportato dal portale oscuro, stesse bene.
    “Vieni, proviamo ad avanzare in quella direzione e cerchiamolo” disse Senu, indicando il bagliore bianco sporco ad una certa distanza da noi. “Speriamo solo che non sia finito in una dimensione diversa dalla nostra. Altrimenti, sarà quasi impossibile rintracciarlo”
    La osservai mentre diceva queste parole e un’espressione molto lontana dalla riprovazione e l’astio, che avevano accolto mio fratello al loro primo incontro, era presente sul suo volto. Potevo scorgere reale preoccupazione e palpabile ansia. Come… una madre in pensiero per il figlio. Ma avrei potuto benissimo essermelo immaginato. Horus continuava ad essere dispersa in quel maledetto mondo multidimensionale e Senu poteva star benissimo pensando a lei.
    La seguii con il tarlo del dubbio e con una certezza recondita nel mio cuore.
    Dopo un tempo che mi parve infinito fummo prossime alla luce, che man mano che ci avvicinavamo, diventava sempre più accecante e quando ci trovammo a pochi passi dall’apertura, fummo di nuovo attratti da un’irrefrenabile forza magnetica che ci catturò e ci sputò fuori “dall’altra parte”.
    Il nulla cosmico ci diede il benvenuto, ma avevamo la percezione del suolo sotto i nostri piedi, anche se non potevamo vederlo e l’ansia dell’ignoto mi avvinghiò le viscere. Non avevo idea di quanto potesse essere “tangibile” il vuoto. Sembrava quasi solido e camminarvi attraverso, sembrava come muoversi in un pantano.
    Dopo aver percorso pochi metri, un urlo disumano attirò la nostra attenzione. Sollevammo lo sguardo e, come se fossimo di nuovo stati trasportati contro la nostra volontà, mi ritrovai ad osservare una scena agghiacciante.
    Mio fratello Toth era avvinghiato alle sbarre di quella che sembrava una prigione. Era immensa e nera come la pece. Immersa nel nulla e sospesa a mezz’aria. Corsi a perdifiato. Mi sembrò quasi di volare su quel suolo che adesso aveva perso consistenza. Sembrava qualcosa di irreale, ma non me ne curai. L’unico mio pensiero era raggiungere Toth, capire come stava, comprendere cosa stesse accadendo.
    Quando arrivai, vidi che non era in sé. Lo chiamai a gran voce ma non riusciva a sentirmi. Era immerso nel suo mondo e non faceva altro che strattonare quelle sbarre ricoperte di aculei. Il sangue scorreva copioso dalle sue mani e dalle sue braccia e la sua voce raschiava quasi le corde vocali.
    Percepii un’immensa disperazione e io stessa piansi, colpita dalla sua sofferenza e dal profondo dolore che proveniva da dentro la cella. Le lacrime si riversarono dai miei occhi come cascate involontarie. Non le avevo comandate di venir fuori, ma allo stesso non riuscivo a fermarmi. Horus era in uno stato pietoso, era il fantasma della donna forte e caparbia che conoscevo. Temetti che non fosse lei, ma una profonda consapevolezza mi disse che non mi sbagliavo.
    Le urla strazianti di Toth mi infilzarono le orecchie e il cuore. Adesso capivo tutto, potevo comprendere il suo senso di urgenza per quella missione, il suo essere oppressivo e ossessivo, i suoi sentimenti e i suoi eccessi. Ora, era tutto dannatamente chiaro.
    Ancora preda di un pianto convulso, che forse quell’atmosfera oscura e tetra, contribuiva ad aumentare mi fiondai alle spalle di mio fratello e lo abbracciai con tutta la forza di cui ero capace, per placare la sua sofferenza, e riportarlo alla realtà, che non era più idilliaca di quello che stava vedendo e vivendo, ma dovevamo agire in fretta. Dovevamo ritrovare la lucidità che quel luogo maledetto ci aveva rubato e trovare il modo di portare a termine la nostra missione.
    “Adesso basta Toth! Non serve a nulla dimenarsi e urlare. Fermati… torna da noi, torna da Horus. Lei ha bisogno di te! Dobbiamo portarla fuori di qui. Devi salvarla!” gridai a mia volta per sovrastare la sua voce e tentare di penetrare nella sua testa ottenebrata dallo tormento interiore e fisico che stava subendo. Lo strinsi forte a me, volevo oltrepassare l’armatura, la pelle, la carne per arrivare al suo cuore, e strapparlo dalle infauste braccia della follia.
     
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    Ad assistere a quella sofferenza, il mio coraggio vacillò. Credevo di essere pronta a tutto, che nella mia lunga vita avessi provato abbastanza dolore da esserne temprata. La corazza non la mostravo perché era dentro di me, proteggeva la mia anima. Le avversità mi colpivano comunque, come la prigionia della mia valorosa figlia, ma io resistevo sempre. Ero un faro in mezzo alla tempesta. Ero lo scoglio a cui si aggrappava il naufrago.
    Questo pensavo di me. Ero sempre stata all'altezza delle mie aspettative, e quando subivo le conseguenze delle mie scelte estreme, non mi ero mai lamentata. Horus aveva acquisito da me il lato più rigoroso del suo carattere.
    Però anche gli animi più saldi potevano vacillare, quando la prova era immane. Dopo un viaggio ai limiti della ragione, dove tutto era sfuggente, enigmatico, pericoloso e terrificante, alfine eravamo giunti alla nostra meta. E avevo trovato la mia piccola combattente in una condizione orribile. Aveva ragione la profezia, quando parlava di lei: stava subendo un destino peggiore della morte.
    Non mi meravigliai che il Generale Thot fosse già lì. La battaglia con il mostro lo aveva quasi ucciso, annichilendo del tutto la sua anima, facendogli pagare un prezzo proibitivo per concedergli di superare la prova. Come un dio capriccioso, che gioca con il destino degli esseri inferiori. Le sue grida di dolore strappavano l'anima, in un modo che anche il mio cuore si sarebbe mosso a pietà, se ne fossi stata capace.
    Sua sorella si prese cura di lui, lo riportò alla ragione. Poco alla volta, lui smise di artigliare le sbarre che confinavano Horus, e le spine gli lasciarono segni orribili su mani e braccia. Non intervenni perché non volevo farmi coinvolgere dal suo dolore. Sarei rimasta oggettiva e spassionata il più possibile, per compiere la missione.
    Lentamente, il Generale si rialzò da terra, dove era scivolato quando aveva perso l'appoggio delle grate. Aveva riacquistato un barlume di ragione. Non provavo simpatia per lui, nonostante quello che avevo visto e sentito. C'erano parti non chiare nel rapporto tra lui e mia figlia e volevo sapere.
    Mi guardò, faceva affidamento su di me. Ero il faro nella notte tempestosa. "Dobbiamo capire come abbattere questa prigione. Io da qui non me ne vado senza di lei..." Lui aveva rinunciato: le spalle basse, le ferite, il sangue che macchiava l'armatura argentata dimostravano che aveva tentato e fallito.
    Annuii e mi avvicinai alla prigione. Gli aculei che si erano agitati fino a poco prima come organismi viventi si erano ritirati senza lasciare traccia. Appoggiai le mani dove poco prima l'uomo aveva appoggiato le sue e... non successe nulla, non venni aggredita o respinta.
    Era Horus che si difendeva inconsciamente, che si proteggeva da colui che era venuta per salvarla.
    Ero incerta e smarrita. Chiamai più volte il nome di mia figlia. Provai ad allungare una mano all'interno per toccarla, ma la prigione sembrava viva, perchè per quanto apparisse angusta, comunque non lasciava che nessuno toccasse il suo ostaggio.
    Horus era così vicina, eppure irraggiungibile.
    Mi girai verso i miei compagni, sconfitta a mia volta: "Mi dispiace ma neanche io riesco a penetrare la sua barriera. Forse nessuno può farlo..."
    "Non ci credo. Ci deve essere un modo! Siamo arrivati fin qui quando tutti ci dicevano che non sarebbe stato possibile... eppure..."
    Strinsi le labbra per non inveire contro di lui. Quanto era insensato il suo ragionamento? Ammettevo che se eravamo arrivati fino a quel punto, molto del merito era suo, ma i nostri desideri non avrebbero abbattuto qualsiasi ostacolo solo perché erano importanti e vitali per noi. Forse, eravamo giunti al limite delle nostre capacità.
    Però dovevamo tentare ancora, e dovevamo farlo per Horus.
    "Siamo venuti qui tutti con un obiettivo comune, ma con motivazioni profondamente diverse. Voglio capire le tue!"
    Le mie parole erano insieme un'accusa e un ordine. Era lui la chiave di tutto, ne ero certa, e quindi pretendevo delle spiegazioni sulle parole del suo aggressore mostruoso.
    "Confermo ciò che ho detto allo spettro, amo Horus, con tutti i limiti del mio cuore, ma non posso reprimere ciò che sento. Sono qui per lei... per riportarla a casa, tra i suoi cari, al mio fianco... se lo vorrà ancora..."
    Ancora quelle parole, quei sentimenti, che suonavano così sbagliati, detti da lui. Non era un mio giudizio, era il tono con cui si professava innamorato. Come se si punisse. Strinsi ancora di più le braccia incrociate al petto. Sporsi in avanti il mento, aggressiva. Quest'uomo mi irritava, e dovevo comprenderne la ragione.
    "Non capisco. Perché non dovrebbe volerti più? Ti ha scelto come suo Campione!"
    Il Generale si prese un lungo momento prima di rispondermi, e quando lo fece, lanciò occhiate preoccupate verso sua sorella. Stava confessando un segreto che aveva protetto da tutti. In questo, era così simile alla mia piccola. Costretti entrambi a custodire macigni nel cuore. Forse erano questi stessi ostacoli che li avevano allontanati.
    "Non sono il suo Campione, non sono il Thot che ha scelto. Sono stato catapultato da un'altra dimensione e sono qui da qualche mese ormai..."
    Osservai Iuventas. Era palesemente sconvolta dalla confessione. Invece di accusarlo o rimproverarlo, gli sfiorò il braccio, in un muto gesto di affetto e comprensione.
    "E Horus lo sa...?" Il mio tono era freddo e impietoso, non provavo pietà per la sua disperazione. Pensavo solo a mia figlia e a quello che poteva aver vissuto vicina a lui.
    "Sì lo sa. Prima di essere rinchiusa in questa maledetta prigione gliel'ho confessato..." Non aveva neanche il coraggio di sostenere il mio sguardo. Anche perchè vi avrebbe trovato solo disprezzo e riprovazione. Ma non mi importava nulla di lui. E anche se fosse crollato ai miei piedi implorando un perdono, non avrei esitato a rifiutarglielo. Non ero più un faro nella notte, ero la tempesta che sferzava la luce. Biasimo e collera si erano fatti strada nell'anima e nella voce.
    "Ed è per questo che lei non vuole tornare? E' per questo che ora si tortura, in questa prigione... E' solo per questo?" L'ultima frase l'avevo urlata. Il Generale pareva quasi piegarsi sotto la violenza delle mie emozioni. Il suo tono era incerto, supplichevole, annientato.
    "Sì... credo di sì... per questo sono inutile qui... tutto ciò che ho fatto è inutile... Provate a parlare con lei, forse la vostra voce la farà tornare indietro. Vi supplico, dopo ci sarà tutto il tempo per le accuse e le recriminazioni ma ora... ora tutto diventa secondario..."
    Feci alcuni passi nella sua direzione, lanciando un'occhiata di avvertimento a Iuventas. Non volevo che si immischiasse in tutto questo. I suoi occhi erano agghiaccianti, capivo che mi stava odiando ma non mi importava. Forse sapevo come liberare Horus, nonostante il prezzo da sostenere. Avvicinai il viso a quello di Thot, inchiodandolo con lo sguardo.
    "Non servirà tentare di nuovo, il risultato sarà lo stesso, se proverò io. Ma qualcun'altro potrebbe avere maggiori possibilità"
    Vidi la costernazione sul viso del Generale, ma poi annuì. Si avvicinò di nuovo alla gabbia. Nuovamente le spine si mossero minacciose, però lui non se ne curò, vi affondò le mani già martoriate. Il suo corpo tremò per il dolore, ma rimase fermo, a testa bassa, concentrato. Poco alla volta, la sua postura cambiò, diventò più eretta e composta. Quando alzò il viso, l'espressione rigida e orgogliosa, senza alcuna traccia di angoscia, non lasciò dubbi su chi fosse la persona lì presente.
    Nel frattempo, le spine si erano ritirate. Sentii gli occhi che mi bruciavano per le lacrime trattenute. Eravamo riusciti a entrare in contatto con Horus, a raggiungerla nel suo incubo, a comunicarle la nostra vicinanza. Ci era riuscito il suo Campione. La porta della cella scattò con uno schiocco che rimbombò come uno sparo nell'immensità del vuoto circostante.
    Non mi curavo del male inflitto al Generale con la mia richiesta. Il Generale... che non era tale. Che era un impostore. Costui aveva ripreso il controllo della sua volontà, cacciando il Campione di Horus appena la prigione si era aperta. Ora però non c'era il tempo di preoccuparsi delle conseguenze e delle implicazioni che ne derivavano. Dovevamo pensare a Horus.
    Mi precipitai dentro, prima ancora che loro potessero muovere un muscolo. Presi tra le braccia mia figlia, che sembrava solo un sacco pieno di ossa, tanto era emaciata. La chiamai, la rassicurai sottovoce... possibile che neanche una volta che la sua prigione si era dischiusa, avremmo potuto liberarla davvero? Che il nostro sacrificio fosse stato vano?
    La strinsi tra le braccia spasmodicamente. Era arrivato il momento.
    Feci un cenno ai due perché si avvicinassero per prenderla e liberarla. Thot pareva meno vivo e presente a se stesso dello spettro che aveva combattuto, ma si affrettò a ubbidire. Sollevò Horus da terra, e notai quanto fosse combattuto tra il desiderio di portarle conforto e la paura di non esserne degno. Però, alla fine, si mossero. Uscirono ignari dalla prigione, distratti dalla preoccupazione per le condizioni di mia figlia. Ricacciai il pianto nel petto. Non potevo fare altro per lei, se non affidarla alle persone che la amavano. Per quanto potesse essere contorto e scellerato il sentimento che provavano per lei.
    Iuventas si girò verso di me, confusa: "Senu vieni, dobbiamo andare via subito!"
    Però, aveva già lasciato la cella, e in quel momento, qualcosa era successo. La prigione, come riconoscendo il suo nuovo occupante, aveva cominciato a cambiare, ad adattarsi. Sentivo il tocco della sua essenza non umana nella mia mente, che si spandeva e prendeva possesso della mia anima. La toccava, la esplorava, la... invadeva. Repressi l'urlo che mi avrebbe squassato. Quello che stavo subendo io, lo aveva subito Horus.
    Scossi la testa alla domanda di Iuventas. "La prigione senza la mia Horus, rimarrebbe vuota. L'universo verrebbe distrutto. Forse, non riusciremmo neanche ad uscire da questa dimensione, moriremmo sacrificandoci per niente. Ma almeno, così, mia figlia non sarà più prigioniera"
    Era tutto quello che potevo fare. Fissai intensamente Thot: "Non so quello che avverrà. Non so neanche se Horus tornerà mai ad essere la donna che amiamo. Ma so che se c'è una possibilità che ciò avvenga, ho il dovere come madre di fornirgliela. Te la affido, chiunque tu sia. Io la amo e se tu la ami anche solo la metà di quello che affermi, forse potrai compiere il miracolo"
    Respirai con fatica, poi aggiunsi: "Chiedete scusa a Bayek per me..."
    Mi appoggiai alla parete, e una parte di me si arrese alla presenza che premeva per impossessarsene. La lasciai entrare, le aprii la mia anima come la città assediata spalanca le porte all'esercito assediante. L'ingresso della prigione si chiuse con violenza. "Andate via" Li esortai prima di farmi avvolgere dall'oscurità impenetrabile.


    Edited by Illiana - 3/10/2020, 16:24
     
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    Insieme a Partenope rimasi in apprensione tutto il tempo, mentre controllavamo i dati biometrici di Thot, Iuventas e Senu. Inutile dire che l'ansia era alle stelle, come per Phobos che insieme a noi era un continuo svolazzare avanti ed indietro. Non era mai stata separata dal suo Campione e questo la stava facendo impazzire. Io cercavo di mantenere la calma, per permettere a Partenope di essere lucida, ma ero ovviamente in ansia. Non potevo negare che un nodo al cuore mi stava facendo soffocare, perchè Iuventas era una delle mie sorelle e mai mi sarei perdonata se qualcosa fosse successo a lei. Per tutto il tempo il mio sguardo era stato fisso sui monitor quanto sulla porta del laboratorio aspettandomi da un momento all'altro vedere Vesta comparire, ma questo non accadde.
    Come era possibile che non avesse saputo di tutto il caos in atto? Come era possibile che non si fosse precipitata in laboratorio quando, ormai, era divenuto il nostro punto d'incontro ogni qualvolta succedeva qualcosa? Tutto quello mi ferì e mi fece arrabbiare. Dov'era mentre noi, Guerriere, eravamo unite in una missione tanto delicata?
    Solo l'allarme derivante dai dati biometrici di Thot mi fece distrarre dai miei pensieri. Erano alle stelle e mentre Phobos era volata vicino a noi, Partenope stava cercando di capire se ci fosse qualche errore oppure...
    "Che succede?" le chiesi apprensiva.
    “Non lo so i dati di Thot sono impazziti... Oh mio Dio!”
    "Che succede!? Partenope parla!" la incitai. Insomma si trattava di una delle persone a cui più tenevo e rispettavo e non solo per il suo ruolo o per essere il fratello di Iuventas, ma perchè era l'uomo a cui dovevo la Guerriera che oggi ero.
    “Sta sanguinando, anzi credo addirittura abbia un'emorragia...”
    “Guardate anche i dati di Iuventas!” urlò Phobos indicando il nome del suo compagno sullo schermo, era divenuta improvvisamente umana e spasmodica ci indicava con il dito anche gli sbalzi improvvisi nei suoi dati biometrici.
    “Ha paura, è agitata... sta subendo un forte stress!”
    "Vorrei vedere se suo fratello sta morendo! Partenope tirali fuori!"
    “Ma non sono ancora arrivati a...”
    "NON MI INTERESSA! TIRALI FUORI!" urlai. Non volevo farlo, ma si trattava dei nostri compagni ed io ero stata perentoria se le cose si mettevano male, li tiravamo fuori, tuttavia nemmeno il tempo di agire, che improvvisamente tutti gli allarmi cessarono e i dati biometrici tornarono nella norma. Tirammo tutti un sospiro di sollievo ed accordai di proseguire, tanto che solo pochi minuti dopo (per noi erano passati poco più di mezz'ora) furono fuori.
    Phobos corse ad abbracciare Iuventas, Partenope soccorse Horus in uno stato pietoso, mentre io corsi da Thot poggiandogli silenziosa una mano sul braccio per capire come stesse. Fu velocemente un susseguirsi d resoconti e constatazioni sullo stato di saluto del Compagno Alato quanto di chiedersi dove fosse Senu, mentre io scorsi con la code dell'occhio l'apparizione di mia sorella sulla soglia del laboratorio. Ci guardava confusa e preoccupata, mentre io mi congedai dal gruppo per prenderla malamente per un braccio e trascinarla fuori dalla stanza.
    "Ma si può sapere dove diavolo eri finita? E' scoppiato il fini mondo e nessuno sapeva dove trovarti!" scoppia assolutamente fuori di me. Delusa ed arrabbiata dalla sua assenza.
    "Non ero da nessuna parte, e poi chi mi ha cercata?" mi chiese confusa dal mio atteggiamento aggressivo.
    "Io in primis, appena è successo questo caos ti sono venuta a cercare, ma non eri nei tuoi alloggi... io... io..." sospirai passandomi una mano tra i capelli. Era come se, da un po' di tempo ormai, avessi a che fare con un'estranea.
    "Non ti riconosco più...ultimamente sei distaccata, assente. Immaginavo che appena avresti saputo della liberazione del Dio saresti corsa qui, ma no... eravamo solo io, Iuventas e Partenope... e... avevamo bisogno di te...!"
    Era un'accusa? Forse! Possibile che sembrava essere scesa dal pero? Che non si rendesse conto della gravità della situazione?
    Lei si mise immediatamente sull'attenti rispondendo stizzita "Non ero da nessuna parte... solo non ho pensato che vi sareste riunite proprio in questo momento!"
    Ed eccola continuare con quel suo modo sprezzante, scostante e disinteressato che mi faceva impazzire.
    "Comunque non ti preoccupare ci abbiamo pensato noi, Thot è appena tornato ed è riuscito a salvare Horus, che tra parentesi NON sta bene. Senu è rimasta al suo posto ed il Dio è libero pronto ad attaccarci!" la misi al corrente velocemente anche se chissà forse sapeva già tutto.
    "Ora che pensi di fare? L'Impero è in allarme ed infatti già Haytham è dovuto correre via... deve organizzare le sezioni, sono scattati controlli in ogni angolo della galassia!"
    La vidi stringere i pugni. Chiaro segno che qualcosa che avevo appena detto non le era piaciuto.
    "Penso che noi Guerriere dovremmo discutere tutte insieme di quali dovrebbero essere le prossime mosse... dovremmo coordinarci tra di noi e poi con Selene..."
    "Cosa vorresti dire che collaborare con i Templari sia sbagliato? Lo facciamo tranquillamente con i Moon Knight! Siamo tutti dalla stessa parte ed ad essere onesta queste tue continue rimostranze verso Haytham non le capisco... posso comprendere le motivazioni di Iuventas e Partenope, ma le tue? Sei mia sorella, pensavo fossi felice per me..."
    "Cerere, stai esagerando! Non ho detto niente di tutto questo! Ma prima di collaborare von i Moon Knight o i Templari, dobbiamo ricordarci noi di essere un gruppo!"
    Era chiaro che lei stesse perdendo la calma, seppur il suo torturarsi i pugni voleva essere un vano tentativo di calmarsi, peccato che io non avevo intenzione di farlo.
    "Ammetto che ci sono stata delle problematiche ultimamente tra noi a fronte anche dell'agire di Iuventas e Partenope, ma quando noi abbiamo chiarito tu dov'eri? Forse non te ne stai rendendo conto, ma sei tu ultimamente quella che non c'è mai... che non fa gruppo!"
    Vesta sgranò lo sguardo prima di spostarlo al soffitto quasi fosse divertita da ciò che avevo appena detto.
    "Non è come dici tu... ho solo bisogno di un po' di tempo per riflettere..."
    "Su cosa esattamente?" ora ero io quella divertita e forse non dovevo, ma proprio non riuscivo a capirla. Non riuscivo ad accettare di essere costantemente tagliata fuori dalle vite di chi amavo, ancor più se si trattava di mia sorella.
    "Vesta una volta parlavamo, da quando abbiamo smesso di farlo?"
    Lei mi fissò a lungo, combattuta. Poi abbassò lo sguardo e sussurrò "Da quando hai tu altre cose per la testa?"
    Ora ero io quella offesa. Serrai la mascella e mi trovai ad assentire con fare nervoso "E rieccola battere sempre sullo stesso chiodo! Pensavo fossimo andate oltre... pensavo stessimo parlando d'altro!"
    "Tu sei andata oltre, ma lasciando un sacco di questioni irrisolte alle spalle..."
    "Giusto giusto la colpa è sempre mia, perchè tu non sbagli mai vero? Tu vai sempre capita..."
    Non volevo alzare il tono di voce, ma faticavo a trattenermi. Io le volevo bene, ma mi ero stancata di vederla fare costantemente la vittima. Era una vita che cercavo di farle capire quanto valesse, quanto non le servisse comportarsi così, ma lei ci ricadeva sempre.
    "Ti ho sempre sostenuta, ti ho sempre protetto, ti ho sempre capita, SEMPRE! Ma tu non puoi capire me!"
    "Oh, io cerco di farlo, ma è difficile! Tu non ascolti nessuno, tanto meno me! Pensi di essere al di sopra di ogni critica solo perché sei la nostra leader, ma ogni tanto dovresti fermarti e considerare che anche noi potremmo aiutarti!"
    Ora era lei ad urlarmi in faccia e lo stava facendo con tutto il dolore che sapevo provasse, uno però che faticavo a comprendere.
    "Come giudicandomi? Perchè oggettivamente ultimamente non avete fatto altro!"
    "Nessuna ti giudica! Le altre vorrebbero che tu valutassi meglio le tue scelte, quanto a me... vorrei che tu non dimenticassi che sono tua sorella!"
    La vidi combattere tra sè e sè. Voleva piangere, ma non mi avrebbe mai dato soddisfazione di vederla così, ma era anche arrabbiata, quanto lo ero io e si sapeva no? Quando l'ira prende il sopravvento spesso si fanno o si dicono cose che non si verrebbero fare e dire.
    "Ma non sei venusiana!" ed eccola lì uscirmi una frase che mi rimangiai subito dopo. Mi morsi la lingua e cambiando espressione, mi sporsi verso di lei. Sapevo quanto la feriva quel tasto ed il mio tentativo continuo e vano di farle capire cosa significasse per me trovare il vero amore mi aveva portato a quella tremenda frase.
    "S-Scusami. P-Perdonami, sai che non volevo dirlo... S-Sono stata presa dall'ira, non lo penso, sono stata una sciocca... S-Scusami..."
     
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    "Ma non sei venusiana!" Quanto male potevano fare le parole? Impossibile quantificare un abisso. Fissavo mia sorella come se stentassi a riconoscerla. Avevamo litigato altre volte, con i nostri caratteracci accadeva spesso che ci urlassimo di tutto per sfogarci, ma questa era un litigio mortalmente serio, potenzialmente rovinoso.
    Non considerai neanche per un secondo il suo tentativo di scusarsi: sapevo che la mia origine era un biasimo imperdonabile, e lei aveva detto solo ed esclusivamente la verità, l'ovvio. Ero sbagliata. Ero malata.
    Però, nonostante questo, la mia rabbia nei suoi confronti stava crescendo e diventava ingestibile. Da troppo tempo rimuginavo sui torti che mi faceva, sull'inadeguatezza che provavo davanti al suo sguardo esigente e critico. Volevo che considerasse anche le ragioni che avrei tirato fuori a breve, non avrei lasciato stare questa volta. Ci saremmo dovute chiarire definitivamente, perché non pensavo di essere solo io dalla parte del torto.
    "Così è questo che pensi di me? Che non sono alla tua altezza?" Alzai la voce e aggrottai lo sguardo, adirata.
    "Non volevo dire questo lo sai!" Mi rispose accorata. "E' per quello che mi è successo... e che vorrei che tu capissi... Sono felice e vorrei solo condividere questa gioia con chi amo ma è difficile quando hai tutti contro... quando hai la tua famiglia contro!"
    Ignorai il suo tentativo di sviare il discorso, di farmi dimenticare che ormai sapevo con certezza che in lei albergavano le stesse accuse che mi imputavano tutti. Questa volta mi sarei sfogata e non mi sarei fermata al pensiero che lei, forse, era una delle poche persone che mi aveva mai accettata.
    "Invece è proprio questo che vedi in me! Uno scherzo della natura, che non è niente di definito, ma solo adatto ad essere criticato... mi sei stata vicina forse perché avevi bisogno di qualcuno che ti facesse da comprimario... vuoi essere sempre al centro dell'attenzione, e non mi raccontare della tua tristezza nel sentirti additata, perché non sai neanche che cosa vuol dire, sentire il disprezzo degli altri sulla tua pelle, tutti i momenti, tutti i giorni della tua vita!"
    Al nominare la mia pelle, con un gesto istintivo tirai con decisione la manica verso il polso. Ringraziai di non indossare la mia divisa da Guerriera, che lasciava il mio corpo più visibile che non il morbido vestito che stavo indossando. Ero ossessionata dall'idea che qualcuno si accorgesse dei segni relativi alle mie azioni inconfessabili. I miei partner non erano sempre beneducati come avrebbero dovuto essere, e la volta precedente mi avevano lasciato addosso molti segni. Non mi stavo lamentando. Come ogni volta, avrei giustificato i lividi con le mie attività da Guerriera.
    Quando Cerere mi aveva cercata, non avrebbe mai potuto trovarmi per il semplice motivo che tenevo ben segreto il luogo dove trascorrevo molto spesso il mio tempo. Inizialmente era solo un passatempo divertente, che mi concedevo pensando fosse un modo innocuo per soddisfare le mie esigenze, ma poco alla volta era diventato indispensabile, una dipendenza che sentivo l'impulso di soddisfare anche ogni giorno.
    "Hai ragione forse non so cosa vuol dire sentire il disprezzo come tu lo hai provato, ma so cosa vuol dire essere sulla bocca di tutti! L'imprinting è la cosa più bella che potesse accadermi e sai benissimo che ero convinta che mai e poi mai lo avrei provato, ma è successo, ma con chi non va bene per Venere e non va bene per tutti gli altri!"
    Già, questo maledetto imprinting. Ero arrivata ad odiare anche solo il sentirlo nominare. Una specie di marchio di qualità, per i venusiani, che non potevano dirsi tali fino a che non lo ricevevano, e alle volte, la sfortuna voleva che non accadesse mai nella loro vita. Quanto aveva temuto di non potersene fregiare, Cerere stessa?
    "Da quando ti importa cosa pensano gli altri? Davvero sorella, da quando sei così influenzabile da qualcosa che non sia il tuo tornaconto immediato?" La irridevo per nascondere il mio dolore, lo stesso che possedevo tuttora io. "Non vedevi l'ora di parlarmi del tuo imprinting, di sbattermi in faccia quanto io, la povera bastarda, ben difficilmente lo avrò, dato che sarebbe incredibile che mi spetti in sorte il dono che contraddistingue i venusiani da tutti gli altri!"
    Cerere fece una smorfia sprezzante: "Sai che ti dico? Fa' quello che ti pare! Vuoi credere a questo! BENE! Mi sono stancata dei tuoi capricci e dei tuoi piagnistei! Vuoi odiarmi, perfetto fallo! E' ciò che ti viene meglio!"
    "Ma ti ascolti? Parli sempre di te! Di quanto sei additata, di quanto sei stanca! Di quanto ti annoio!" Ero esasperata, quasi logorata fisicamente del suo egoismo. Alla fine, tutto si riduceva alla sua persona, persino i malesseri degli altri erano visti come una scocciatura che la riguardava personalmente. E, in quest'ottica, la discussione con me la stava irritando.
    Era per questo che non mi stupii di vederle fare un passo indietro e poi dirigersi verso il laboratorio. Si era stancata di parlare con me! Riteneva che la discussione forse terminata e come al solito gestiva lei tirannicamente il nostro rapporto! Ma io non potevo accettare che ancora una volta qualcuno mi rifiutasse, mi girasse le spalle, disgustato. Allungai una mano e la afferrai per il braccio, ma lei si rigirò, scrollandosi di dosso la mia presa.
    "Il mio egocentrismo non ti è nuovo, come a me non è il tuo... ma mi sembra che non abbiamo più nulla da dirci ormai..."
    Ecco quello che temevo. Rifiutata anche da lei. Sentii un nodo rosso incandescente risalire su per la gola, una fiammata divampare nel cervello. Ero furibonda e lasciai libera la mia collera, senza pensare a nulla, solo a farla fluire. Le riafferrai il braccio, glielo strinsi con violenza e gridai: “Non è giusto! Non puoi trattarmi così!”
    Non mi accorsi di quello che feci fino a che non vidi la smorfia di dolore sul viso di Cerere. Lei urlò e io lasciai il suo braccio, su cui spiccava un segno gonfio e sanguinante, quello del mio tocco fiammeggiante. Avevo scatenato il potere incendiario su... mia sorella! La avevo ferita, ustionata gravemente!
    Non riuscii a reagire per l'orrore se non in un solo modo. La guardai impietrita, mentre si stringeva il braccio colpito. Poi, confusa e colpevole, fuggii dalla stanza senza cercare di scusarmi, senza provare a giustificarmi.
    Corsi alla cieca fino a che mi ritrovai fuori dalla costruzione, fuori dalle mura del palazzo. Non mi fermai davanti a nessun ostacolo, non riuscii neanche a sentire quello che mi diceva la gente, neanche capivo se parlava a me. Avevo agito d'impulso, non pensai di ritornare indietro per spiegarmi, per capire quali fossero le condizioni di Cerere. Rivedevo solo la ferita profonda, la sua pelle rovinata... per sempre.
    Mi diressi come un automa all'aerostazione, dove salii su una navicella. Volevo rifugiarmi nell'unico luogo sicuro che conoscevo. La Casa di Piacere in cui trascorrevo molto tempo. Avevo iniziato a frequentarla per riempire il vuoto e la mancanza di certezze che provavo dentro di me. Nessuno lì conosceva la mia identità; avevo scelto un posto mediocre e squallido perché a differenza degli altri simili su Venere, accettava donne da ogni parte dell'universo, e i miei capelli rossi passavano inosservati, mentre il mio viso era celato da una maschera. Precauzione quasi inutile. Chi avrebbe pensato che una Guerriera fosse anche una donna di piacere? Da semplice cliente, infatti, ero diventata una delle étere. La mia doppia vita mi pesava, ma ancora peggio sarebbe stato rinunciarvi. L'arte amatoria era la sublimazione dell'essere venusiano, e per me andava bene viverla in qualsiasi forma avessi potuto consumarla.
    Persa nei miei cupi pensieri, non mi ero accorta di non aver inserito il pilota automatico, e che quindi senza prendere alcuna decisione lucida mi ero diretta sulla Terra. Il tragitto tra la Luna e il Pianeta Proibito era talmente breve che già ero entrata nella sua atmosfera, e le terre emerse erano visibili a occhio nudo.
    Realizzai che un viso si era intrufolato nei miei pensieri, e mi attraeva come una promessa inattesa. Il viso di Pandia.
    Era lei ormai l'unica persona su cui potevo fare affidamento per un consiglio. Sapevo dove trovarla, le altre ragazze erano già venute qui per aiutarla nella missione vietata dagli imperatori.
    Io l'avevo avversata da subito, ma ora... ero troppo confusa, troppo in balia delle mie paure, dei rimorsi, per considerare anche le questioni di principio.
    Volevo fare chiarezza nella mia vita e capire se ero ancora degna di essere una Guerriera, di rivestire una simile responsabilità. Oppure, se avessi fatto meglio a sparire per sempre. Solo con Pandia avrei potuto confidarmi, parlarne. Lei mi avrebbe ascoltata anche se non le avessi raccontato la verità su tutto. Non potevo farlo.
    Spinsi la leva d'accelerazione e inserii le coordinate necessarie per il paese Germania.
     
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