New Templars Order Origins

Earth Prime

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    Uno spigolo puntava dietro la schiena procurandomi un fastidioso dolore riflesso quando respiravo. E proprio quell'azione era insolita e difficoltosa, manco non fosse naturale per un essere umano, farlo...
    "Ben tornato tra i vivi, monsieur Germain"
    Aggrottai le sopracciglia, riaprendo gli occhi. La luce nella porzione di cielo che intravvedevo era aumentata e calcolai che fosse mattina inoltrata.
    Non riconoscevo dal timbro la voce che mi aveva riscosso: era calma, quasi distaccata, ma aveva pronunciato il mio nome senza alcuna esitazione, con un lieve accento straniero.
    Ero disteso per terra, su una superficie dura e più o meno liscia che mi faceva da giaciglio. La bocca troppo asciutta per articolare in maniera comprensibile le parole.
    "Pensavo di essere morto... l'Assassino mi ha trapassato il petto e..." Mossi la testa debolmente, per scacciare la confusione. "... non era un sogno"
    "Non siete pazzo. E' andata proprio così... uccidere la sua amata non vi ha fatto entrare di certo nelle sue grazie" Ravvisai nel tono dello sconosciuto un sarcasmo pesante, ma non me ne curai, perché un moto di indignazione e sdegno mi invase la mente, dandomi nel contempo l'energia necessaria per muovere le membra pesanti e sollevare le spalle dalla superficie dura.
    "La De la Serre era una traditrice! Ha complottato contro l'Ordine ed era qui con un nostro nemico! Io ho fatto solo quello che era giusto!"
    Guardai negli occhi per la prima volta l'uomo che era seduto quasi di fianco a me, in atteggiamento rilassato e imperscrutabile. Non era giovane, pareva avere più o meno la mia età, e gli abiti di buona fattura possedevano delle note che confermavano ulteriormente il sospetto che non fosse francese. Lo sguardo era penetrante, con una sfumatura che non riuscivo a definire se curiosità o sollievo.
    "Sì, in effetti ho seguito un po' tutta la scena madre, non siete affatto male come spadaccino e i vostri ideali non smentiscono la scelta della Chiave..."
    Ignorai il compiacimento nel vedere riconosciuti i miei meriti ma non riuscii a non pensare che costui sapeva parecchie cose su di me e sulle vicende che mi avevano coinvolto. Aprii la bocca per manifestare le mie domande, ma costui mi fermò con un cenno, intimandomi di attendere il termine del suo discorso. Una punta di fastidio mi attraversò il petto: non comprendevo il motivo o la fonte di tale degnazione.
    "Purtroppo l'Assassino aveva dalla sua la rabbia per una perdita importante. Ma, alla fine, poco importa, siete qui no?” Colse la mia smorfia di impazienza e sembrò leggermi nel pensiero. “Chi sono io? Haytham Kenway... Gran Maestro Templare d'oltreoceano, ma neppure questo è poi molto importante. Volete sapere invece cosa vi è successo?"
    Mi alzai senza alcun preavviso in piedi, reso irrequieto da una sensazione indefinita. Udii un tintinnio ai miei piedi. Abbassai lo sguardo e notai una chiave dalla fattura particolare, che emetteva, inaspettatamente, una debole luce. Era appoggiata sul mio corpo ed era caduta quando mi ero mosso. Ve la aveva appoggiata l'uomo, di sicuro: la situazione si stava facendo sempre più strana, e io avevo l'estremo bisogno di capire velocemente. Posando gli occhi sull'oggetto, la confusione invece che svanire si accentuò. Lungo il fusto della chiave spiccavano alcune lettere. Osservandole con attenzione, vidi che formavano il mio nome, ma appena lo capii, la scritta luminosa sbiadì e si cancellò. La voce uscì roca dalla sorpresa.
    "C'era il mio nome sopra..." Spostai lo sguardo sul sedicente Gran Maestro e sul suo sguardo ora sornione. "Ho sentito parlare del Gran Maestro Kenway, un elemento autorevole dell'Ordine... peccato che sia morto, e che il mondo sia pieno di impostori! O siete... un fantasma?"
    Costui non si mosse dalla sua postura rilassata, con una gamba distesa e l'altra piegata a sorreggere il braccio.
    "Continuate a focalizzarvi sulle domande sbagliate. Piuttosto, la chiave che avete in mano. Dovreste chiedervi come sia stata in grado di salvarvi la vita. La spada nel vostro petto la ricordate ancora, vero?"
    Fece un cenno verso il mio petto e, d'istinto, lo toccai con la mano, indovinando la stoffa tagliata e irrigidita dal sangue della giacca e della marsina ma... nulla più. Non la pelle ferita, né la sofferenza che aveva attraversato il corpo da capo a piedi quando il mio avversario aveva colpito ferocemente al centro del petto. Per cercare altre conferme, tastai lo zigomo ferito dal proiettile della traditrice: anche sulla guancia, la pelle era intatta e non provavo nessun dolore. I ricordi arrivarono tutti insieme, come un attacco in forze: l'agguato, il confronto, il duello... la morte. Perché ne ero certo come ero certo di stare ancora respirando. L'Assassino mi aveva trapassato il cuore, spezzando ossa e tranciando muscoli e nervi. Rabbrividii alla crudezza dei ricordi e delle sensazioni. Nonostante lo sforzo immane per il mio carattere molto sospettoso, un'esitazione sempre più consistente mi spingeva a dare fiducia a colui che si proclamava Gran Maestro. Sempre più elementi e fatti si presentavano alla mia razionalità ancora incerta per essere scartati o accettati.
    "Quindi dovrei credere che una strana chiave mi ha riportato indietro dal regno dei morti? Si tratta di un manufatto antico, come quello che... ho recuperato recentemente?"
    Kenway inarcò un sopracciglio, per niente impressionato dalla notizia.
    "Qualcosa del genere, ma molto più potente. La Chiave Titana vi ha scelto per entrare a far parte di un progetto grandioso. Tra circa un secolo l'Ordine Templare si estinguerà, ma io e voi, Germain, con pochi altri prescelti, avremo la possibilità di farlo rinascere”
    "Pretendete da me un atto di fede straordinario. Se anche credessi a tutto quello che mi avete raccontato finora, e le prove che lo testimoniano le ho addosso, comunque non reputo che riuscirò mai a fornire i miei servigi all'Ordine ancora a lungo. E nessuno vive tutto questo tempo..."
    Per un secondo, resistetti all'impulso che mi aveva quasi vinto poco prima. Mi parlava del futuro e di un futuro lontanissimo, per me inaccessibile, con un'estrema calma.
    A quel punto, Kenway si alzò in piedi, scrollandosi la terra dal mantello. Si avvicinò e sfilò dalla sua giacca una chiave, simile se non identica a quella in mano mia. Si mosse con estrema calma, come se non intendesse preoccuparsi o farsi carico del tumulto e dei dubbi che stava instillando nella mia mente.
    "Queste ci permetteranno di vivere molto più a lungo di quanto possiate immaginare. Il vostro desiderio è quello di essere un Templare, correggetemi se sbaglio, ma qui, nelle vostre condizioni - sono d'accordo con voi - non potrete esserlo per ancora molto tempo. Tuttavia, se deciderete di seguire e accettare il vostro destino, potrete davvero soddisfare questa vostra necessità, realizzando il vostro desiderio..."
    Le due chiavi, trovandosi in prossimità, cominciarono a irradiare una luce sempre più potente, che quasi mi accecò e sembrò scacciare via la nebbia che ancora gravava su Parigi. Per quanto scosso, cercai di rimanere concentrato sulle parole che mi disse e che io dissi a lui. Erano importanti, dannatamente importanti per me. Rappresentavano la mia vita, la somma delle mie azioni da quando ero diventato uomo. Erano il cuore e l'anima della mia esistenza, erano il fulcro più profondo del mio raziocinio. Erano me.
    "Desidero la grandezza dell'Ordine e il dominio della nostra ideologia sul mondo, avete ragione. La gloria personale è ben piccola cosa ma sbagliate su di me... io SONO un Templare, e a questa causa sacrificherò tutto!"
    Un'ombra leggera passò sopra alle ultime parole, quasi una premonizione. Il Gran Maestro mi fissò in modo diverso, la sua fronte sembrava gravata di minori preoccupazioni. A quanto pareva, con la mia coerenza e risolutezza avevo vinto il suo scetticismo.
    "Perdonate l'uso improprio delle parole, ma il concetto fondamentale non cambia. Riformulo per essere maggiormente chiaro: monsieur Francois-Thomas Germain, siete disposto a restare un Templare per molto molto più tempo di quanto vi potrà concedere Madre Natura? A servire la Causa in un progetto ambizioso?"
    Sorrisi lievemente. Non ero il tipo di persona che rideva o dimostrava in maniera sguaiata i propri sentimenti, né tanto meno si sbilanciava nel dimostrare soddisfazione, proprio come aveva appena fatto lui. Avevo l'impressione sempre più netta che avremmo cooperato in modo ottimale al grandioso progetto di cui mi stavo già sentendo parte. Accompagnai il mio impegno posando la mano sul petto.
    "Sarà un onore per me collaborare con voi e con altri degni membri del nostro Ordine. Ora, ditemi cosa devo fare!"
    "Ne sono lieto. E l'onore è mio, un uomo così devoto ci sarà di certo utile. Ma venite con me, abbiamo un lungo viaggio da fare..." Si stava avviando fuori dal luogo lugubre in cui erano avvenuti eventi straordinari al solo cospetto di ossa e lapidi, ma si bloccò, come fulminato da un dubbio inaspettato.
    "La vostra famiglia, volete dirgli addio? Accettando tutto questo... non potrete più tornare da loro. Andremo molto, molto lontano"
    Pareva in difficoltà, mostrando per la prima volta che il dubbio poteva intaccarlo, ma ero stato colpito da un colpo poderoso e dovevo pensare a quello, non a vacue considerazioni.
    Credevo forse che l'eccellenza e il trionfo si ottenessero con una stretta di mano? O che le grandi occasioni della vita bussassero più volte alla porta di chi non era pronto a coglierle?
    Dovevo abbandonare la mia famiglia e tutto il resto: la casa, i beni, le ricchezze, la mia posizione influente, anche se ero certo ne avrei acquisita una ancora più adeguata. Avrei vissuto ben oltre il momento in cui le ossa delle persone che conoscevo sarebbero diventate polvere. L'Ordine avrebbe portato giustizia e pace nel mondo grazie al mio lavoro, e l'umanità ne avrebbe beneficiato.
    Passò qualche secondo in cui il mio interlocutore attese condiscendente. Rimasi immobile, il viso impenetrabile, per non mostrare la debolezza del rimpianto in un uomo che aveva appena giurato di mettere a disposizione la sua vita per un compito altissimo. Non tentennai nel rispondere.
    "Ritroviamoci qui tra un'ora. Per quel momento, avrò fatto il necessario per mettere al sicuro la mia famiglia"
    Con un cenno di inchino, mi allontanai e presi deciso la strada per la Ville de la Cité, dove aveva sede il nostro Ordine. Era mattina e di solito i membri più importanti non vi arrivavano fino a dopo il desinare, ma le guardie mi avrebbero fatto accedere all'ufficio del Gran Maestro.
    Scrissi velocemente alcune righe dove gli annunciavo la mia improvvisa e definitiva partenza, dove gli chiedevo il favore di occuparsi della mia famiglia, di Marie. Le mie proprietà sarebbero passate legalmente all'Ordine, come era previsto in caso di morte di uno dei membri più addentro ai nostri segreti. Era così che prevedevano le regole che avevamo giurato di rispettare. Lasciai la pergamena appena vergata sulla scrivania del capo dei Templari. Non avevo motivo di dubitare del suo operato, aveva sempre dimostrato una rettitudine e una saldezza che erano stati il mio modello fin dalla giovinezza. Era il tempo di cambiare visione e Maestro. Era il tempo di affidarmi alla forza di una nuova promessa e di un futuro grandioso. Ebbi un pensiero fugace per mia moglie. Il mio affetto per lei era profondo, ma non così tanto da resistere alla possanza dei miei ideali e alla chiamata suprema.
    Non era passata neppure un'ora, quando varcai nuovamente i cancelli diroccati del Cimitero degli Innocenti, e la nebbia ancora copriva le miserie di Parigi.


    Edited by Illiana - 16/11/2020, 15:23
     
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    La luce sanguigna del tramonto tingeva il cielo e ricopriva le colline circostanti come una calda coperta. Adoravo l'atmosfera del crepuscolo, quando il giorno lasciava spazio alla notte e il fermento delle strade scemava nella quiete incombente. Mi rilassava e mi permetteva di concentrarmi al meglio per il mio allenamento giornaliero.
    Mi trovavo a poche centinaia di metri dalla mia abitazione. Mi ero ritagliata il mio angolo di paradiso su un'altura circondata da alberi secolari e di un verde sfavillante. Proprio qui avevo fissato un uomo di legno, un “Mook Yan Chong” detto in cantonese. Era il mio fidato compagno. Avevo provato ad allenarmi con altre persone ma alla fine ci avevo sempre rinunciato. Ero consapevole di non essere in grado di relazionarmi con i miei simili. Preferivo la solitudine alla compagnia, il mio uomo di legno ad un uomo in carne ed ossa. Alla fine, tutti mi avevano delusa. Non era una delusione dovuta al mio “troppo concedere", nessuno mi conosceva davvero. Il problema era che coloro che mi stavano attorno non avevano capito come approcciarsi a me. Ero un tipo taciturno e schivo. Non dimostravo alcune emozione, non per riservatezza, ma perché ero semplicemente incapace si provarne. Apatia e indifferenza erano mie alleate. Non avevo ancora trovato nulla che potesse accendere una scintilla nel mio esigente interesse. Le persone che mi erano state accanto, avevano preteso di cambiarmi, di costringermi ad essere ciò che non ero, volevano che fingessi una partecipazione concreta alle loro problematiche. Invece io, volevo solo essere me stessa, lontana dall'ipocrisia e dalla falsità di particolari ambienti. Per questo mi ero ritirata a vita quasi da eremita, vivendo in una casetta immersa nella foresta. Non mi ero potuta isolare dalla società in maniera perpetua, anche se lo avevo desiderato, perché avevo degli impegni da portare avanti, un codice da seguire, un credo da proteggere.
    La mia famiglia, da generazioni, apparteneva in gran segreto all'antico Ordine dei Templari, ed io, fin da piccola, ero stata istruita ai suoi valori e ai suoi scopi. Ero sempre in cerca di missioni nuove e pericolose in cui lanciarmi, purché fossi da sola. Ero alla costante ricerca del brivido, della famosa scintilla che avrebbe potuto accendere le mie emozioni. Ma fino a quel momento, non era successo nulla di veramente eclatante. Il mio cuore era rimasto freddo e la mente era più che mai analitica. Stavo bene così...
    La mia vita da Templare era occulta ai più. Invece, “alla luce del sole”, anche se era un puro eufemismo dirlo, ero un membro fedele e implacabile delle Tigri, un'organizzazione segreta, della quale si avvaleva il nostro Imperatore... eravamo spie che agivamo nell'ombra per rimediare alle azioni scomode del sovrano. Eravamo coloro che chiamava in caso di urgente intervento.
    Nessuno conosceva la nostra identità e avevamo carta bianca quando ci veniva assegnata una missione.
    Le mie mani, le mie braccia, le mie gambe non sentivano dolore. Continuavo a colpire, a schivare a parare senza sosta. Ricordavo i primi tempi che attuavo quella tecnica di allenamento. Le ferite, il sangue, le fasciature. Sembrava tutto così lontano nella mente e nel cuore. Non ricordavo cosa avevo provato. Forse frustrazione, forse impotenza. I vecchi sentimenti erano vaghi nella mia testa, ma ero certa di cosa provavo in quel momento. Soddisfazione nel sentire il corpo fremere e tendersi fino a limiti sconosciuti per i comuni mortali, il sudore che si attaccava alla pelle mi dimostrava che stavo lavorando bene. Gli abiti di pelle nera che indossavo fasciavano il mio corpo scattante. Erano ore che combattevo senza sosta e avrei continuato ancora e ancora. Ma dovevo darmi un limite. Di lì a breve sarei dovuta partire per una missione per conto dell'imperatore e dovevo obbligarmi a riposare un po'. Sebbene fossi instancabile, non ero immune alla fatica. Mi fermai e di colpo. Un leggero fiatone mi sollevava ritmico il petto. Gettai un'altra lunga occhiata al panorama che si stendeva al di là dell'altura e mi persi nelle tonalità ormai violacee del cielo. Era tempo di rincasare.
    Mi diressi silenziosa verso la mia abitazione. Non era grande, era perfetta per le mie esigenze. Mi spogliai con noncuranza - un altro lato positivo del vivere sola in mezzo alla foresta - mi infilai sotto un marchingegno di legno che tramite un dispositivo di semplice meccanica, mi regalò un getto di acqua gelida che corroborò i miei muscoli tesi e affaticati.
    Sciolsi i lunghi capelli neri e li lavai con cura. Quando ebbi terminato mi asciugai il corpo ma non mi rivestii subito. Non avevo pudore di me stessa e mi piaceva la libertà che gli abiti inibivano. Passai davanti a un enorme specchio e mi osservai. Non ero molto alta, ma il fisico snello rendeva la mia figura slanciata. La mia pelle era solcata da sottili cicatrici, che in alcuni punti diventavano delle piccole ragnatele. Ne avevo viste tante, troppe nella mia vita, e il mio corpo ne era la prova tangibile.
    Un movimento alle mie spalle, nella fitta oscurità al di là della finestra, mi mise in allarme. Non ero sola. Il mio primo istinto fu di afferrare i miei due fidati Sai. Li avevo fatti fare su misura per me con una modifica essenziale. Di norma, questo tipo di arma non è affilata, sebbene sia ben acuminata. Io, però, ne avevo richiesto un paio munito di lame al posto della tradizionale sezione cilindrica centrale. In tal modo avrei potuto aumentare il mio margine di azione e il numero di colpi a mia disposizione. Non badai alla mia nudità, né al freddo pungente della sera, aprii con forza la porta che dava all’esterno e ciò che vi scorsi mi lasciò perplessa e attonita. Non analizzai le circostanze. Un uomo di stazza ragguardevole, con sguardo truce mi stava fissando e agii d'istinto. Attaccai felina con una ritrovata energia dopo il relax di poco prima. Il mio volto sfingeo non tradiva alcuna emozione. Ero solo una girandola umana di affondi e calci. Lui non si era fatto cogliere impreparato e dopo un primo attimo di smarrimento aveva preso a difendersi e contrattaccare.
    Dopo attimi che parvero eterni ci trovammo con la mia schiena incollata al suo torace e le grandi braccia che mi tenevano bloccati i polsi e così anche le armi letali che brandivo. Ero pronta a liberarmi dalla sua presa, quando il sussurro della sua voce in
    un orecchio mi bloccò all'istante nella mia reazione.
    "Vengo in pace, signorina Yong. Pensate di potermi concedere qualche minuto del vostro tempo? Porto
    notizie importanti.”
    Chi mai sarebbe potuto venire a trovarmi fin quassù per portarmi notizie? Ero scettica e non ero ancora propensa a fidarmi. Sebbene non fossi nelle condizioni di fare domande, non esitai.
    "Che nuove portate? Ben poca gente conosce la mia dimora e devo dire anche la mia persona." Non potevo guardarlo negli occhi ma attesi la sua risposta con accennata pazienza.
    "Eppure, se sono giunto fin qui un motivo importante ci deve pur essere. Vi ho trovata, non siete curiosa di saperne di più?" La sua voce era sinuosa ma non melliflua. Pareva contenesse la seta per sua natura, senza alcuna forzatura.
    "La curiosità non mi appartiene. È più consona alle oche senza cervello." Diedi uno strattone leggero, per fargli capire che adesso poteva allentare la presa. “Tuttavia, dopo che avete fatto tanta strada per venire a cercare me, sarebbe scortese non darvi l'occasione di portarmi il vostro messaggio." Lui mi lasciò libera. Ormai aveva compreso che avevo accettato la sua presenza, almeno per il momento.
    "In fondo a destra troverete un salottino. Sarò da voi tra un attimo..."
    Mi avviai, padrona della mia proverbiale noncuranza e mi diressi verso la camera da letto. Recuperai la mia vestaglia di seta nera lunga fino ai piedi e la indossai.
    Non potevo far attendere il mio ospite. Prima ci avrei parlato e prima avrebbe tolto il disturbo. Solo da pochi minuti la mia quiete era stata infranta e già ne sentivo la mancanza. Avrei dovuto sentirmi nervosa o in ansia per le eventuali rivelazioni dello sconosciuto seduto nel mio salotto, ma nulla turbava il mio animo. Rivolevo solo indietro la mia compagna solitudine.
    Ripassai di fronte al grande specchio e mi soffermai per l'ennesima volta. Stavolta non osservai il mio corpo ma il mio volto. Se avessi saputo sperare, avrei sperato di incontrare uno scintillio di eccitazione nello sguardo, o una ruga di preoccupazione a solcarmi la fronte, ma non vi trovai nulla. La pelle degli zigomi definiti e della mascella decisa era perfettamente levigata, come sempre... e non me ne stupii.
    Raggiunsi il mio "ospite" trasportando una piccola brocca di ceramica e due tazze senza manico su un vassoio di metallo.
    "Non sono adusa a ricevere gente, si dovrà accontentare dell'acqua." Da dove veniva fuori tutta quella ospitalità? Avrei fatto prima a buttarlo fuori di casa mia - in senso figurato, s'intende - e tornare alla mia routine, però c'era un che di magnetico in quell'uomo, che mi attirava come una falena con la luce di una candela.
    “Non c'è alcun problema, signorina Yong. Non sono aduso alle smancerie ospitali quando sono in missione. E adesso voi rappresentate proprio questo. Ho una proposta da farvi”
    Lo osservai attentamente con i miei occhi color petrolio, ero alla ricerca di un guizzo di ironia nella sua espressione, ma non ve la scorsi.
    "Allora, cosa stiamo aspettando? Scoprite le vostre carte, sarò poi io a decidere se la vostra mano è buona oppure no."
    “Non ho bisogno di carte per portarvi la notizia, ma di questa!" tirò fuori un involto di pelle.
    Sentii subito un brivido gelido serpeggiare sulla mia spina dorsale per poi percorrermi interamente. Non sapevo a cosa dovevo una simile reazione, ma intuii che le prossime parole del mio interlocutore mi avrebbero svelato l’arcano.
    “E' una Chiave Titana, la MNEMOSYNE'S KEY, un manufatto molto antico che ha la capacità di chiamarci e legarci a sé. Ma non è molto importante il 'come', quanto il 'perché'. Si tratta di un progetto molto ambizioso quello per cui sono venuto a cercarvi... con voi e altri come voi, saremo in grado di rendere grande l'Ordine Templare, anche quando... in un futuro più prossimo di quanto possiamo immaginare, sarà destinato all'estinzione." Quello strano uomo, dall’invidiabile calma, quasi potesse concorrere con la mia, di natura più oscura e sconosciuta, mi osservò attentamente. Il suo sguardo era animato da molte emozioni: convinzione, risolutezza, aspettativa. Credeva davvero in ciò che aveva detto e per suggellare il suo discorso ricco di ardore mi porse il contenitore di morbida pelle. Lasciò a me il compito e l'onore di scoprire le fattezze di questa famosa Chiave. Il mio cuore accelerò di poco il battito, era eccitazione o solo una reazione fisica alla presenza di quell'oggetto?
    Quando lo liberai dalla custodia una luce abbagliante mi accecò per qualche attimo. Senza esitazione, come se sapessi che era la cosa giusta da fare, afferrai il manico luminoso e vi lessi scolpite le lettere che formavano il mio nome “Mariko Yong”. Poi scomparvero riportando la chiave alla sua apparenza “normale”.
    La casata Yong aveva servito per generazioni la causa dell’Ordine Templare e ne aveva protetto fieramente i segreti. Io ero l'ultima discendente diretta. Non mi sarei tirata indietro, anche se ancora non avevo compreso tutti i dettagli che questa storia serbava.
    Con l'eclissarsi del bagliore, il mio cuore tornò a fare diligente i suo lavoro ed ebbi la risposta alla mia “stupida speranza". Non me ne curai.
    “Presumo siate un Gran Maestro Templare se vi trovate al mio cospetto con un oggetto tanto bizzarro e potente allo stesso tempo. Ebbene, questo ambizioso progetto immagino mi porterà lontano dalla mia vita, dalla mia casa. Per molto, molto tempo. Dico bene?” Avrei voluto condire le mie parole con un po' di rammarico o di tristezza, ma la mia voce restò ferma e il mio sguardo freddo.
    “Proprio così. La vostra perspicacia vi descrive ancor meglio della vostra fama. Sono un Gran Maestro, ma di un futuro che ancora deve arrivare e sì, dovrete abbandonare quanto vi circonda e prepararci a una lunga permanenza altrove, più lunga di quanto possiate immaginare..."
    La sua risposta non mi sorprese, e ciò rafforzò la mia avidità di conoscere…
    “Parlate di lunghe permanenze, di un futuro lontano da cui provenite e di tempi infausti per l’Ordine.” Mi risultava alquanto difficile credere che il glorioso impero Templare potesse vedere una fine, e una simile eventualità, mi convinse ancora di più a contribuire per evitarlo. Gli alti scopi dell'Ordine dovevano sopravvivere, anche alla mia stessa esistenza, ma avevo ragione di credere che sarei stata testimone della sua forza e della sua eterna alba.
    “Avrò, dunque, l'onore di assistere al compiersi di questo glorioso progetto? La Chiave mi donerà l’immortalità L'ultima frase avrebbe voluto essere una domanda, ma la certezza aleggiava tra noi, come un faro che segna la via.
    “Avete riassunto ogni cosa alla perfezione. La lunga vita sarà fondamentale visti i tempi che ci attendono.” La soddisfazione traspariva evidente dal suo volto.
    Mi raccolsi in un lungo istante di riflessione. Pensai a ciò che mi sarei lasciata alle spalle e a chi avrei “abbandonato”. Un sorriso gelido affiorò sulle mie labbra ma non coinvolse gli occhi. Nessuno avrebbe sentito la mia mancanza, né io avrei sofferto il distacco. I servigi all’imperatore erano ormai un ricordo vago. Mi osservai attorno e scrutai il piccolo angolo di paradiso che mi ero creata, neppure il luogo che aveva accolto gli ultimi anni della mia vita, riusciva a scuotere il mio cuore fatto di pietra. Al contrario, mi concentrai sul futuro che mi attendeva. Una nuova esistenza, un nuovo scopo, un nuovo angolo di paradiso da costruire altrove e in un altro tempo.
    “Non credo che sarebbe comodo seguirvi in vestaglia. Datemi un po' di tempo e sarò pronta a partire!”


    Edited by The Bla¢k Wit¢h¸ - 19/12/2020, 18:09
     
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    Troyes - Francia, 1795
    La navetta correva veloce tra le dita e i fili dell'ordito. Un altro passaggio, un altro tocco con il pettine per sistemare gli intrecci e tutto daccapo. Il lavoro era lungo e noioso, e neanche seguire i piccoli motivi decorativi con il cambio dei colori mi salvava dalla noia mortale.
    Ma dovevo impegnarmi per finire il pezzo quanto prima, o non sarei stata pagata da quel maledetto approfittatore del mercante. Pagata, poi! Quale ingiustizia... mi avrebbe elemosinato il prezzo misero che aveva stabilito lui, sapevo che avrebbe rivenduto la stoffa a dieci volte tanto, ma cosa potevo fare? Ero una donna che nessuno proteggeva, che doveva trovare il modo di mantenere se stessa e quell'altro cialtrone perditempo.
    Ero seduta al mio telaio, l'unico bene che custodivo gelosamente per il solo motivo che rappresentava il nostro sostentamento, e qui vi passavo gran parte della giornata. Non che avessi da fare molto altro. Alle volte, alzavo lo sguardo e oltre la piccola finestra della casa, un unico locale gelido d'inverno e torrido d'estate dove trovavano posto il pagliericcio e un tavolo con due sedie scompagnate, contemplavo il castello che era stato di proprietà di mio nonno. Mio padre lo aveva ereditato alla sua morte, ma la sua incapacità per gli affari e il vizio del gioco lo avevano obbligato a venderlo per pochi soldi, e ora era abitato da una famiglia di ricchi arrivisti, senza alcun blasone, che disonoravano la memoria del mio avo.
    Un'ombra oscurò la luce fioca nella stanza. Mi irrigidii, senza però darlo a vedere. Una voce maschile si schiarì la gola e io feci una smorfia di sorpresa. Da quando erano così gentili e riguardosi, i visitatori che arrivavano fin qui?
    “Selina... Birch?”
    Mi girai lievemente sullo sgabello, mentre non vista afferravo nella tasca del grembiule le forbici affilate che usavo per tagliare i fili dei miei lavori. Risposi freddamente: “Mio marito non è in casa, e io non voglio sapere niente dei suoi debiti di gioco e... di qualsiasi altra cosa che pensiate di poter chiedere ad una donna sola che cerca unicamente di poter sopravvivere!”
    “Non fraintendetemi. Sono qui esclusivamente per voi. Ho un oggetto che vi spetta e una proposta da farvi, se vorrete ascoltare!”
    Strinsi ancora di più le dita intorno alla mia arma improvvisata. Il metallo freddo mi dava una piccola sicurezza: di riuscire almeno a minacciare, se non di difendermi totalmente. Ah, se quel pusillanime di Armand non fosse stato l'essere schifoso che invece era! Era duro per una donna non poter contare sull'aiuto dell'uomo che aveva sposato. Per lui provavo solo repulsione e disgusto. Ero stata troppo stupida e avventata a sceglierlo, e questo sbaglio dovuto alla mia ingenuità e ad un'infatuazione che subito dopo era svanita lo stavo pagando da più di dieci anni. Non era giusto!
    Presi un respiro profondo e mi alzai. Almeno, lo sconosciuto non era venuto a reclamare nulla da me, come facevano molti creditori di mio marito, che bussavano alla nostra porta a ogni ora del giorno e della notte, urlando e bestemmiando per ottenere le loro vincite.
    Spalancai gli occhi e la bocca per la sorpresa quando riconobbi il viso dell'uomo garbato. Un ricordo di tantissimi anni prima mi immobilizzò e una mosca, volando, mi sarebbe potuta entrare in bocca, ma non mi importava, tanto ero colpita ed emozionata. Un po' imbarazzato, l'uomo allargò le braccia, come a presentarsi.
    Haytham, il mio adorato zio, il figlioccio di mio nonno Reginald, sorrise con il suo modo amabile e contenuto davanti alla mia confusione. Lui, insieme a poche altre memorie, rappresentava un passato lieto e spensierato che si era dissolto lasciando solo povertà, affanni e mortificazioni.
    In due passi coprii la distanza tra di noi e lo abbracciai come una bambina che fa le feste ad una persona amata.
    Lo accarezzai sul viso, sorridendo fino alle lacrime. “Non sapevo, non sapevo! Mi era giunta notizia che fossi morto, e ho pianto per giorni interi. Che cattive sono le persone, quando si divertono a far soffrire!” Mi staccai da lui per osservarlo meglio. “Sei bello come ricordavo! Da bambina eri il mio eroe e... sei rimasto uguale all'ultima volta che ti vidi”
    Ero diventata un fiume in piena di parole. Mi capitava sempre così, quando ero felice o nervosa.
    “Devi raccontarmi cosa hai fatto in questi anni, e come sei riuscito a trovarmi, in questo paesino pidocchioso! Hai accennato ad un oggetto da consegnarmi, apparteneva forse al nonno?”
    Haytham scosse la testa, divertito dai miei modi. “Non è esatto. Si tratta di un manufatto che spetta ai discendenti delle più influenti famiglie Templari, e rappresenta una...” Mentre parlava, aveva estratto dalla tasca della marsina una chiave grande e decorata con motivi particolari, che emanava una luce stranissima.
    Non riuscendo a contenere il mio stupore lo interruppi, facendo un passo indietro: “Cosa rappresenta quest'oggetto? E' un manufatto antico? Mio nonno amava raccontarmi delle storie fantastiche sulla sua vita avventurosa, ma pensavo che le inventasse per deliziare una bambina!”
    “Tuo nonno, il mio patrigno, avrebbe voluto crescerti come sua erede, ma morì prima di poterti iniziare all'antico Ordine. Ora, questo compito tocca a me”
    Mi avvicinò la chiave reggendola sul palmo aperto della mano, e attese che notassi una cosa che subito non avevo scorto. La luce proveniva dalle lettere incise sulla chiave stessa e formavano il mio nome!
    “La chiave reca con sé la saggezza di un dio antico e potente. Nel tuo caso, la dea Thetys. Io sono solo un emissario e ho il compito di chiederti se vorrai sacrificarti per realizzare...”
    “Cosa devo fare? Devo venire via con te?”
    Haytham mi guardò leggermente disorientato. “Sì, è questo che intendevo. Però posso capire se vorrai preparare un bagaglio e congedarti da tuo marito...”
    “Oh no! No, no, no, no!” Quasi ridevo per la rabbia. Salutare mio marito, quell'essere meschino che si sarebbe accorto della mia assenza quando non avesse più trovato cibo o soldi con cui continuare la sua esistenza insulsa? E cosa dovevo preparare, se gli unici vestiti li avevo addosso e la promessa di una nuova vita che mi stava donando Haytham mi bastava a lasciare questa realtà ripugnante?
    Mi guardai un attimo intorno ma non per paura di provare nostalgia: avevo altro in mente, e il cuore che bruciava al pensiero che mi era balenato in testa.
    Armand aveva rovinato gli anni migliori della mia vita, e doveva pagare o quantomeno, pentirsi amaramente di questo. E quando ciò sarebbe successo, l'unico rammarico derivava dal fatto che non avrei assistito alla sua punizione e disperazione.
    Presi le forbici e con un gesto netto, mordendomi la lingua per non gemere, mi tagliai il palmo della mano. Il sangue gocciolò subito copioso sul pavimento, lasciando una scia color rubino mentre camminavo. Andai dal telaio e sporcai con diligenza il tessuto che stavo lavorando, lo sgabello, la bobina di filo posata per terra. Dopo qualche minuto, sudata e tremante, contemplai la messinscena.
    Guardai Haytham, che rimaneva in piedi immoto. “... non credo di capire cosa sta accadendo...” Articolò circospetto.
    Sorrisi orgogliosa e compiaciuta. “Ora possiamo andare!” Mi incamminai per uscire, ma lui alzò una mano per fermarmi, lo sguardo severo come il tono. “Cosa significa? Sembra la scena di un delitto!”
    “E così deve essere!” Inasprii anche io lo sguardo e la voce. “I magistrati locali si muoveranno difficilmente per punire l'omicidio di una moglie, di una donna, ma se c'è anche solo una possibilità che questo succeda, saprò di essere stata io a renderlo possibile, e questo basterà a ripagarmi di tutte le umiliazioni che ho subito nella mia vita!”
    Haytham abbassò la mano senza commentare, e io lo superai con il cuore lieto e leggero come non lo possedevo da molto, molto tempo.


    Edited by Illiana - 20/11/2020, 20:57
     
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    Virginia, o meglio Ginny, era così che da sempre ero stata chiamata fin da quando ero poco più che una bambina. La piccola di casa Birch. Ero la luce degli occhi della mamma, la favorita di papà e la piccola testarda di mio nonno. Forse per questo o per la mia naturale dote nel farmi amare che io e mia sorella Selina, da sempre, eravamo le migliori friendenemis.
    Il più delle volte era una lotta al coltello per primeggiare in un'arte, avere il vestito più bello o molto semplicemente attirare l'attenzione di qualcuno. E questo era accaduto fin dalla più tenera età che fosse fare il miglior bouquet di fiori di campo per la mamma o molto semplicemente raccontare il miglior andetto allo "zio" Haytham.
    La presenza di Alan con noi era stata, poi, sempre motivo di attenzioni. Certo eravamo solo bambini che giocavamo insieme, ma mi irritava quando capitava che loro giocassero a fare gli sposini e a me toccava sempre interpretare la loro figlia. Bastavano però i miei gesti spericolati come, arrampicarmi su un albero o gettarmi con una fune nel lago, per far cambiare idea ad Alan che subito mi seguiva in tale pazzie, mentre Selina era sovente urlarmi dietro che non erano cose adatte ad una signorina.
    Tuttavia ben presto i tempi cambiarono e i giorni spensierati finirono. La nostra famiglia era caduta in disgrazia e come diceva la Legge di Murphy se una cosa va male, può andare solo peggio e così fu.
    I miei genitori e Selina si ammalarono di tifo, mentre io per la mia salvaguardia ero stata allontanata in un collegio ove vi passai circa quattro anni. Li venni cresciuta come la signorina che dovevo essere seppur non mancavo di continuare i miei studi, di nascosto da tutti, da Templare. Ricordavo ancora come quando da bimba zio Haytham permetteva a me e Selina di "allenarci" ed anche se era visto come un gioco per me era un qualcosa che volevo continuare ad apprendere.
    Così mentre le mie compagne di stanza dormivano io studiavo, di nascosto, libri di strategia militare. Di giorno approfittavo del tempo libero per raggiungere una zona dell'ampio giardino dell'istituto ove mi ero ritagliata un angolo solo mio. Ero perfino riuscita ad intagliarmi una spada di legno con la quale tiravo di fioretto, arte che stavo apprendendo spiando l'ala maschile del collegio. Insomma facevo di tutto per essere anche io come loro, io che sognavo più studiare in quell'ala della scuola che in quella dove mi trovavo.
    La mia speranza era ogni giorno che i miei genitori o mia sorella venissero a prendermi, ma così non fu ed anzi quando seppi della loro morte capì che per me non c'era salvezza alcuna. Zio Haytham lo avevo visto si è no 2 volte in 4 anni e la seconda fu solo per presentarmi colui che sarebbe divenuto mio marito.
    Grayson era un bravo ragazzo, ma fin troppo per i miei gusti. Compito e timido era un buon Templare ed il suo essere bonaccione mi permise dunque di continuare nei miei affari senza averlo alle costole. Tuttavia essere sposata, senza scelta e così presto, non era certo il mio sogno. Io volevo realizzarmi come donna ed anche se il matrimonio mi portò alla possibilità di lasciare il collegio e trasferirmi in un'elegante residenza con tanto di domestici, dall'altra ero sempre tenuta sotto esame come donna e moglie. Tuttavia la possibilità di rivedere e riabbracciare Alan, ora Templare tutto d'un pezzo, mi aveva restituito gran parte della mia spensieratezza.
    Non c'era giorno che non pensassi a casa e a mia sorella, perchè nonostante gli alti e bassi era sempre stata una figura così presente che non sentirla più al mio fianco mi struggeva.
    Avevo preso dunque l'abitudine di scriverle, ogni volta che ne sentivo la necessità. E così buttavo nero su bianco i miei pensieri in lettere che poi non spedivo, ma a lei intestavo.
    Rimasi vedova molto presto ed in parte mi dispiacque veramente per la dipartita di Grayson, ma dall'altra mi diede tutta la libertà che tanto agognavo. Io ed Alan prendemmo a frequentarci sempre più assiduamente, non importandomi cosa gli altri pensavano di ciò, e mentre io più e più volte lo coprivo con la moglie lui mi insegnava tutto ciò che sapeva. Io che mai avevo messo nel cassetto il desiderio di divenire una Templare. La migliore.
    Inutile dire dunque che quando zio Haytham si presentò a me, stentai a crederci. Le notizie che avevo, dallo stesso Alan, erano che anche lui era passato a miglior vita. Il rivederlo però mi diede speranza tanto quanto sentirlo dire che anche Selina si sarebbe aggiunta a noi.
    Poi tutto accadde veloce. Dalle sue parole e rivelazioni, ad una luce intensa ed infine una chiave che mi cambiò la vita. Fu proprio io a convocare Alan nella mia mansione, su richiesta di Haytham, e lì anche lui venne reclutato.
    Entrambi vivevamo con il desiderio di una via di fuga da quella vita che ci stava iniziando ad andare stretta ed ecco che la paura di non aver tempo di realizzare i nostri sogni era scomparsa, come la certezza di poter tornare ad abbracciare le nostre speranze, ma soprattutto i nostri desideri.

    Febe, la Titanide rappresentante della chiave in mio possesso, era la fondatrice dell'Oracolo di Delfi e scoprire che gli Dei che a lungo avevo studiato erano reali mi aveva emozionato. Nulla di quella storia mi aveva sconvolto: da sapere che mia sorella era viva, al piano segreto di una rinascita dei Templari, alla vita eterna, all'acquisizione di poteri o perfino essere sulla Luna. Nulla. E quello diceva molto di me e del mio carattere sempre curioso e sempre spinto oltre alle regole, oltre ai limiti imposti dalla società e la conoscenza.
    Haytham era ripartito subito dopo averci lasciato e mentre un certo omone dal casco scintillante ci mostrava gli alloggi e ci prometteva risposte e l'inizio di un grandioso percorso, io contavo le ore che mi avrebbero separato dal rivedere Selina.
    In quei pochi giorni avevo fatto la conoscenza di uno strano omino, alto meno di un metro, e tutto verde che si comportava come un bambino cosa che poi era. Il fatto che fosse un alieno e così brutto, a dire di Alan, non mi spaventava, a differenza di lui, anzi. Ed infatti non era raro che si intrufolasse nel mio alloggio quando aveva capito che da me avrebbe trovato sempre qualcosa di squisito da mangiare.
    "Direi che è ora di smettere però..." dissi togliendogli da davanti la ciotolina che gli avevo porto, mentre lui alzando le braccine e mugugnando offeso mi stava facendo ben capire che non era d'accordo.
    "Sei un golosone, ma ora basta. Non so se questi cosi dolci possano causare mal di pancia, o se a te possa venire, ma nel dubbio meglio evitare!" lo sgridai bonariamente prima di sedermi di nuovo sul bordo del letto al suo fianco. Presi sorridente ad accarezzargli una lunga orecchie e lui emetteva dei sospiri che mi faceva presupporre che gli piaceva. Sorrideva e quando Megamede entro nel mio alloggio entrambi saltammo sul posto con fare colpevole.
    “Ecco dov'eri ti ho cercato dappertutto!” disse con tono composto prendendo in braccio il piccolo con una certa nota di rimprovero.
    A me nemmeno degnò di uno sguardo anzi stava per uscire quando fermandosi un momento prima di andarsene, aggiunse “Ah tua sorella è appena arrivata. Il Maestro Haytham mi ha detto di avvisarti. Si trovano nel suo ufficio” e poi senza aggiungere altro, atono così come era arrivato, se ne andò.
    Io dal canto mio saltai in piedi e correndo per i corridoi gracchiando un "Permesso" "Mi scusi" "Permesso" molto poco educato, cercando di evitare di sbattere addosso alla gente, corsi a per di fiato. Arrivai infatti sull'uscio della porta dell'ufficio con il fiatone e sapevo che avrei dovuto chiedere se potevo entrare, ma me ne dimenticai.
    "Selina!" urlai solo troppo felice, lei nemmeno fece in tempo a rendersi conto di chi aveva di fronte o chi l'avesse chiamata che io già la stavo abbracciando forte.
    "Sono così felice di vederti. Sei viva e stai così..." mi ero appena staccata e ancora sorridente avevo le mani sulle sue spalle quando guardandola mi accorsi che "bene" era un eufemismo e così mi uscì meno convinta di quanto avrei voluto ... bene!" dissi infine a denti stretti cercando di mostrarmi sicura di quanto detto, ma nemmeno il tempo di aggiungere altro che qualcun altro fece la sua comparsa.
    "Insieme come i vecchi tempi mh?" ero così su di giri che nemmeno mi accorsi che la tensione nella stanza era tale che si sarebbe potuta tagliare con un coltello.
     
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    Voglio essere una macchia colorata in mezzo al grigiume della realtà

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    :Alan:
    Ero una persona esigente, ma non con gli altri, con me.
    Pretendevo sempre il meglio da me stesso, semplicemente perché io eroil meglio.
    Poteva sembrare presuntuoso, e forse lo era, ma sin da piccolo è sempre stato il mio modo di comportarmi -anche se non so dire se in parte avevano colpa anche i miei genitori per questo.
    Ero il primo di sette fratelli ed ho sempre dato il meglio per essere un buon esempio per loro… che perdita di tempo. Uno peggio dell’altro. Non li vedevo da anni e non mi interessava nemmeno incontrarli di nuovo. Mi piaceva immaginarmi figlio unico.
    Comunque, pensavo semplicemente che il modo in cui mi faceva sentire questo mio modo di comportarmi mi avesse completamente assuefatto, non riuscendo più a farne a meno. Mi piaceva sentirmi migliore, essere il migliore.
    Se c’era un compito importante da assolvere, io ero una certezza.
    Mi rendevo conto che questo mio atteggiamento era poco sopportato da molte persone, forse anche da chi mi amava, ma era più forte di me. Sentivo la necessità di pavoneggiarmi delle mie abilità, delle mie conoscenze -ne avevo tutti i motivi-, e se per metterle in pratica dovevo schiacciare qualcun altro, poco importava.
    Dopotutto non era colpa mia se il mondo era colmo di persone mediocri.
    Primo fra tutti mio zio Benjamin.
    Uno stupido inetto incapace persino di nascondere o rendere meno evidente il suo tradimento nei confronti dei Templari. Tutto ciò solo per dare la vittoria alla Corona inglese. Questo suo comportamento stupido e sconsiderato portò il Gran Maestro Kenway ad allearsi con un Assassino -un Assassino! Ci rendiamo conto?!- pur di scovarlo, visto che il codardo era scappato con la coda fra le gambe.
    Il solo pensiero di essere imparentato con lui mi imbarazzava.
    Ricordavo ancora il momento in cui, guardandolo fisso negli occhi con disprezzo e disgusto, gli recisi la gola per ordine di Kenway, guardandolo morire come il ratto che era.
    Quanta soddisfazione provai in quel momento. Fu così che presi il suo posto, fiero più che mai di aver soppiantato l’ennesima nullità e di poter contribuire nell’affermazione Templare.


    Quei ricordi mi sembravano così lontani, come lo era la Terra.
    Se qualcuno mi avesse detto che i Templari si sarebbero estinti e che per farli risorgere saremmo dovuti andare sulla Luna, ero sicuro gli avrei riso in faccia sprezzante e lo avrei ridicolizzato dandogli del pazzo.
    Però quel qualcuno era stato Haytham Kenway, una delle persone che più stimavo in assoluto -e per un egocentrico come me era cosa incredibile-, che aveva recuperato me e Ginny e ci aveva portato quassù.
    Guardavo la Terra da una delle tante finestre del palazzo in cui ci trovavamo, così minuscola e azzurra. Era così strano vederla nel modo in cui avevo guardato la Luna per tutta la vita.
    Avevo lasciato tutto non appena avevo ricevuto la notizia.
    Quando Haytham mi porse quella chiave sfavillante con sopra inciso il mio nome sentii una grande energia invadermi, assuefarmi. Come se fosse possibile, la sicurezza in me stesso era aumentata esponenzialmente, la mia vista ed il mio udito, per un attimo, erano diventati strani. Sembrava che qualsiasi cosa guardassi mi rimanesse impressa in testa, come una pila infinita di fotografie che andava a riempirmi la mente. Era come se stessi assimilando tutto ciò che mi circondava, suoni, parole, movimenti. Tutto.
    Non capivo perché, ma avevo la convinzione che, se solo avessi voluto, avrei potuto riprodurre qualsiasi azione e le voci dei presenti nella stanza.
    Guardai Ginny, anche lei leggermente confusa per quello che ci stava succedendo.
    Si voltò verso di me e mi sorrise raggiante. Adoravo quel sorriso.
    Era la mia migliore amica da sempre, sin dall’infanzia, quando ci arrampicavamo come scoiattoli sugli alberi. Molto tempo era passato prima che ci rincontrassimo. Lei era andata in collegio, io nel mentre ero cresciuto, avevo fatto esperienze, mi ero follemente innamorato di quella che poi era diventata mia moglie, Julie. Ma poi il destino aveva voluto che ci rincontrassimo e così era stato.
    All’epoca ero un Templare e lei si sposò con un uomo dell’Ordine.
    Entrambi eravamo cresciuti, ma sembrava non fosse passato nemmeno un giorno.
    Eravamo inseparabili. Purtroppo però qualcosa in me cambiò, tuttora non sapevo dire cosa, sapevo solo che ero terribilmente confuso ed insoddisfatto, tanto da cercare la pace in fughe “romantiche” -se così le vogliamo definire- con altre donne. Non ne andavo fiero. Julie non se lo meritava. Avevo sempre detestato le persone ipocrite e deboli, ma non riuscivo a farne a meno. All’improvviso quel forte amore che provavo per mia moglie aveva perso mordente, non sapevo più cosa volevo. Non capivo nemmeno il motivo di questo cambiamento. Tutto ciò mi infastidiva incredibilmente.
    Per fortuna però al mio fianco, a sostenermi sempre, c’era Ginny, che era arrivata persino a coprire le mie scappatelle con mia moglie.
    Quando ero partito alla volta della Luna, perché la causa non poteva essere messa in secondo piano, salutai Julie. Le spiegai che avevo una missione di vitale importanza che avrebbe rischiato di metterla in serio pericolo. Per questo le lasciai tutto -niente avrei dato a quegli schifosi dei miei fratelli- e le dissi di considerarmi morto, che avrebbe dovuto rifarsi una vita. Era libera di fare quel che voleva. L’amavo, ormai non più come un tempo, ma le dovevo tutto ed altro ancora.

    Era con questi pensieri malinconici che mi stavo avviando nell’ufficio di Haytham.
    Poco tempo prima avevamo ricevuto una notizia sconvolgente.
    Selina Birch, sorella di Ginny -ed anche mia, o almeno io la consideravo tale… quanto avrei voluto avere lei come sorella invece di quei sei idioti-, non solo non era morta per colpa del tifo, ma era appena stata reclutata da Haytham per unirsi a noi nella rinascita dei Templari.
    Ero contento della situazione, ma allo stesso tempo non potevo negare di essere agitato.
    Ricordavo ancora come le due sorelle si contendessero la mia attenzione.
    Ma che vai a pensare! Ormai siamo adulti, come potrebbero mai tornare situazioni di quel tipo?
    Con questo pensiero ottimista entrai nella stanza dove Ginny era letteralmente saltata addosso a Selina.
    “Insieme come i vecchi tempi mh?” esclamò entusiasta Virginia.
    Si poteva sicuramente dire che Selina non fosse propriamente in forma. Mi chiedevo cosa le fosse successo. Però il suo sguardo, quello non era cambiato. Forte, orgoglioso come all’epoca.
    In questo momento però vedevo anche una nota di qualcosa che non riuscivo completamente a comprendere… forse fastidio?
    Non sapevo perché, ma avevo la sensazione che ero stato fin troppo positivo nelle mie previsioni e supposizioni.
     
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    ”Selina!” Non avevo mai dimenticato la sua voce, che non era cambiata di molto, nonostante l'avessi sentita molto, molto tempo fa per l'ultima volta. Possedeva ancora il tintinnio argenteo dell'entusiasmo, della fiducia nella vita, della spensieratezza della giovinezza, anche se ormai era una donna fatta, come me.
    La mia amata sorellina era raggiante, gli anni trascorsi in mezzo agli agi le avevano donato una bellezza che nella vita rappresentava un vantaggio da sfruttare ad ogni costo, soprattutto in una società dove le donne erano facilmente vittime di soprusi come... era successo a me. Il suo viso era roseo, gli abiti eleganti e di buona fattura, i capelli lucenti e soffici.
    La sua irruenza quasi infantile mi fece dimenticare per qualche secondo lo stupore che stavo provando per il luogo, per le notizie stringate che mi aveva fornito Haytham durante il viaggio. Notizie che non avevo avuto neanche la preoccupazione di chiedergli quando avevo lasciato la mia squallida casa in quell'orribile paese. Tutto, tutto sarebbe stato meglio della mia vita precedente, anche diventare un'artista itinerante, se questo avesse voluto anche solo dire mangiare con regolarità e senza provare una continua angoscia per il futuro, ma mai, in nessun sogno possibile, avrei immaginato di vedere e vivere un tale cambiamento. Mi era stato offerto un ruolo di spicco in un'organizzazione potentissima, la stessa di cui faceva parte mio nonno, al servizio di un Impero che esisteva da migliaia di anni su pianeti lontani dalla Terra. Una realtà che faticavo a comprendere, ma che avevo la ferma volontà di fare mia e di sfruttare in ogni modo possibile.
    Rimasi immobile mentre Virginia mi abbracciava e sfoderava il suo sorriso trascinante, ma mi irrigidii quando accennò al mio aspetto. Decisamente non ero bella e curata come lei, sicuramente si vedevano sul mio viso e nell'abbigliamento tutte le rinunce che avevo subito: la fame, il freddo, la paura, la rabbia. Nascosi prontamente la mano che mi ero ferita con le lame delle forbici e avevo fasciato alla meglio strappando un lembo della mia gonna. Avevo le unghie spezzate e la pelle rovinata e rossa per via del lavoro pesante a cui ero obbligata.
    “Insieme come i vecchi tempi mh?”
    Sorrisi in maniera stentata, lanciando un'occhiata a Haytham, che sembrava indifferente al nostro incontro così teso, e aveva già distolto l'attenzione da noi, dedicandola a dei documenti che aveva prelevato dalla scrivania.
    Non mi resi conto sulle prime che un'altra persona era entrata nell'ufficio, fino a che Ginny non la invitò a entrare e a salutarmi: Alan. Era sempre affascinante e sublime, oltre i miei ricordi: eravamo cresciuti insieme, e quando lasciammo da parte i giochi infantili e passammo a quelli amorosi, tra me e mia sorella ci eravamo dichiarate silenziosamente la guerra per tentare di conquistare il nostro più affezionato amico, che si era trasformato in un aitante e splendido giovane uomo.
    Io mi ero innamorata di lui, e mia sorella aveva rivolto le sue attenzioni ad Alan per questo solo motivo. Ne ero quasi certa: se non si fosse accorta dell'infatuazione che avevo per lui, non lo avrebbe sicuramente considerato altro che un compagno buono per le marachelle o per corse spericolate a cavallo.
    Ero sicura che se il nostro rapporto fosse continuato, sarei riuscita a conquistare il suo cuore, ma la disgrazia si abbatté nuovamente, dopo la morte del nonno, sulla nostra famiglia. Io, i miei genitori e molte altre persone del villaggio ci ammalammo di tifo, e Alan, con la sua famiglia e altri che erano scampati al contagio fuggirono velocemente per non ammalarsi. Si portarono via anche la mia sorellina, o almeno era quello che pensai. Rimasi tra la vita e la morte per molte settimane, prima di riprendermi. Solo io guarii: i miei genitori morirono senza le cure di nessuno. E a me non rimase altra scelta che andare avanti, vivere al limite dell'indigenza, senza la possibilità di fare ricerche sul destino di mia sorella e del nostro adorato amico. Non ebbi più nessuna notizia di loro.
    Avevo sognato spesso, negli anni di tristezza e patimento, come avrebbe potuto essere la mia vita se non mi fossi ammalata, se non avessi perso il contatto con Alan. Avrei tanto desiderato poterlo sposare, poterlo avere solo per me senza doverlo condividere con nessuna, tanto meno Virginia. La mia meravigliosa, insopportabile sorellina.
    Fino a quando, per un caso incredibile, un manufatto alieno stabilì che ero meritevole di un posto nella cerchia dei potenti.
    Il fato mi aveva concesso non solo un'occasione impensabile, ma anche una nuova prospettiva di felicità. Ampliai e ammorbidii il sorriso guardando Alan, tentai di ravvivarmi i capelli disordinati e stopposi e ignorai con la forza di volontà le loro occhiate quasi commiserevoli. Ingoiai un malloppo di lacrime e bile amara e alzai il mento, orgogliosa.
    “Già, tutti di nuovo riuniti, come se gli anni non fossero passati! Quanto ho sperato di potervi riabbracciare, e quanto ho sofferto quando mi sono trovata sola, debole e... senza mezzi! Certo, non potevate immaginare che qualcuno di noi sarebbe sopravvissuto, ma!” Alzai il tono della voce, mantenendo il sorriso tirato e lo sguardo duro. Alzai la mano per prevenire le giustificazioni di mia sorella, che aveva aperto la bocca con fare contrito. “Sono stati momenti orribili, che non auguro a nessuno, e sono lieta che voi non ne abbiate fatto esperienza!”
    Li guardai uno per uno in viso, in una muta accusa. Possibile che nessuno di loro, neanche il mio amato Haytham, avessero avuto il desiderio o il dubbio di conoscere la mia sorte? Che mi avessero dato per spacciata senza neanche un piccolo rimorso? Strinsi i denti. Se mi fossi abbandonata all'astio che mi portavano questi pensieri, avrei rovinato ogni cosa. Avrei gettato alle ortiche la possibilità di essere felice. Avevo ancora la vita davanti, una vita estremamente lunga e promettente. Questa volta non me la sarei fatta carpire da nulla e da nessuno.
    “Avremo tanto tempo per ricominciare e per stare insieme ma ora, scusatemi, sono molto stanca e non desidero altro che di riposare. Alan, per cortesia, potresti mostrarmi la strada per i miei alloggi?”
     
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    Intercettare Ingvild non era stato complicato, la sua puntualità era divenuta leggendaria tra le mura della villa e io avevo imparato ad apprezzare questa insieme ad altre sue qualità, come la discrezione e la dedizione. In tarda mattinata, avevo un appuntamento con Claudia nella Sala del Consiglio per discutere dei miei prossimi reclutamenti, ma avevo saputo – dalla stessa governante – che la sua signora aveva trascorso una notte insonne. Così avevo annullato l’incontro e avevo disposto che avrei portato io la colazione a Claudia, volevo accertarmi di persona delle sue condizioni. Non era raro che fosse preda di incubi, con ogni probabilità, il suo passato tornava a tormentarla anche se “da sveglia” ogni suo più piccolo atteggiamento mirava a nascondere anche il più piccolo ricordo. Ormai conoscevo gli argomenti e gli atteggiamenti che la irritavano, perciò mi veniva semplice notare il naso che si arricciava involontario, la ruga che le si formava tra le sopracciglia nel tentativo di sedare il disappunto, il labbro inferiore che spesso veniva aggredito da denti nervosi. Quando scorgevo anche solo uno di questi dettagli sentivo scattare qualcosa dentro di me, una specie di istinto primordiale che mi ordinava di distruggere la sorgente di quel disturbo e proteggerla a ogni costo.
    Anche mentre camminavo lungo il corridoio che mi portava al suo appartamento personale, col vassoio della colazione ben stretto tra le dita, quello stesso istinto scalpitava per prendere il sopravvento, ma io ero dannatamente bravo a tenere a bada tutte le emozioni strane, incompatibili con la mia missione, con il mio modus vivendi, con il mio obiettivo finale: Claudia aveva bisogno di certezze, di un braccio a cui appoggiarsi, di un fedelissimo su cui contare, ed io non mi sarei tirato indietro cedendo a impulsi non meglio identificati.
    Bussai leggiadro alla porta ed entrai solo quando percepii un lieve assenso al di là dell’uscio. Ero certo di averlo udito nella mia testa grazie al mio potere, tanto la voce di Claudia era bassa e lontana. Questa constatazione mi fece perdere un battito, ma non per questo esitai.
    I miei passi si mossero silenziosi, appoggiai il vassoio su un tavolinetto di vetro posto nell’anticamera, poi mi occupai di scostare i tendaggi pesanti per far entrare un po’ di sole nella stanza. L’autunno era ormai inoltrato, ma le temperature si mantenevano gradevoli… i misteri dei luoghi come l’Italia.
    Rimasi a guardare fuori il tempo necessario affinché Claudia potesse indossare la vestaglia e raggiungermi. Non mi mossi di un solo millimetro, conscio che avrei potuta trovarla in déshabillé e io… non ero Ingvild, l’avrei di certo messa in imbarazzo. Ed era l’ultimo dei miei desideri, metterla in imbarazzo.
    “E io che mi ero già rassegnata al terzo grado della cara Ingvild, mi hai salvata all’ultimo istante, come sempre…”
    Eccolo il segnale. La sua voce gentile mi invitava a voltarmi, ma anche il fruscio di seta appena udito mi aveva convinto che era arrivato il momento.
    “Ho pensato che non avessi voglia di spiegare il perché dell’ennesima notte insonne.” Sapevamo entrambi quanto la governante sapesse essere apprensiva, soprattutto quanto si trattava della salute di qualcuno di noi, di Claudia in primis. Mi avvicinai di un passo, osservandola attento, era bellissima anche senza un filo di trucco e le ciocche color del fuoco pettinate con le dita. Ero forse l’unico uomo, a parte Jordan, ad averla vista così… senza maschera. E ne ero onorato.
    Tuttavia, i segni lasciati dagli incubi erano evidenti. Con un altro paio di passi le fui proprio di fronte e con un dito leggero disegnai il contorno della sua guancia, fino al mento. Il viso era pallido, le labbra contratte in un sorriso forzato, le dita si muovevano nervose a stringere il cinturino della vestaglia dello stesso colore della sua chioma sciolta.
    “Vieni, siediti, ti offro un po’ di tè. Ingvild mi ha raccomandato di versarlo piano così che i petali infusi non si rovinino…” Non sapevo bene perché le stessi raccontando una cosa del genere, tanto futile, forse per distrarla? Le sfiorai un gomito per invitarla anche coi gesti, attento a non approfondire un contatto che avrebbe potuto infastidirla. Tuttavia, furono i suoi pensieri a tradirla e il mio potere ad avvisarmi. Lasciai che mi afferrasse il braccio, ma non accomodai il suo tentativo di avvicinarsi a me… al mio volto. Non invadevo la sua mente in maniera indiscriminata, mi limitavo ad aleggiare sui pensieri più prossimi, impulsivi, vaganti, così da poter anticipare eventuali sue mosse avventate. Avrebbe voluto baciarmi, forse, ma io non glielo permisi… lasciai una carezza sul volto stanco e incrociai due iridi trasformate in rubini splendenti. Stava provando sentimenti contrastanti, o almeno era questo che percepivo, tuttavia non mi era facile decifrare qualcosa che non conoscevo.
    Se per Claudia i sentimenti erano una specie di ginepraio, in cui a volte si perdeva, per me assomigliavano invece a un quadro di Picasso: per quanto ammirassi la sua tecnica, non ero mai riuscito a comprenderne l’essenza. Limite mio, ovvio, ma ciò non cambiava il risultato.
    “Ti ho messo a disagio, vero?” Le sue parole tremarono assieme alla sua voce e quell’istinto primitivo riprese a pulsare feroce nel petto. Gli imposi di tacere, era quanto mai inopportuno, ma questa volta non obbedì, non subito almeno.
    “Affatto. Il mio unico desiderio è che tu stia bene, il resto non conta.” La guardai con intensità, prima di avvicinarmi appena, senza capire bene quale fosse il mio scopo, lo capii solo quando le mie labbra baciarono appena la punta del suo naso. Come la chiamavano i terrestri? Coccola? Premura? Tenerezza? Non ricordavo bene, ma sentivo che Claudia era di questo che aveva bisogno, non di un bacio affamato, di una stretta possessiva, di un amplesso passionale. Lei meritava tutta la delicatezza di cui l’universo era capace, io avrei provato a farmene carico, anche se ciò avrebbe significato fare i conti con dimensioni per me assolutamente sconosciuti.
    Claudia stava trattenendo il respiro, così mi allontanai, per permetterle di inspirare l’ossigeno che le serviva per tornare lucida, per tornare la donna tutta d’un pezzo che conoscevo e che mostrava al mondo. I suoi pensieri non mi ingannavano, erano un libro aperto e questo era il suo ennesimo dono.
    “Ho tante cose di cui parlarti, ti va di ascoltarmi mentre mangi un biscotto?” La vidi annuire lentamente, nel frattempo le sue dita lasciarono il mio braccio e si intrecciarono alle mie, lasciandosi condurre verso il tavolino e il suo tè preferito.
    Le raccontai delle persone che avrei dovuto reclutare: Ophelie De Sable l’avrei ritrovata nella sua residenza di Parigi, viaggiando verso l’anno 1765; Thiago Marquez mi avrebbe costretto a un salto nel passato ancora più profondo, nel 1740, in un cimitero dell’Havana; mentre per Charlene Zaytsev sarei tornato in un tempo molto più vicino al nostro presente, nell’anno 1920, a Leningrado, una città martoriata da una delle Guerre epocali del pianeta Terra. Non sarebbero state missioni semplici, ma confidavo nelle informazioni che avevo messo insieme per portarle a termine nel migliore dei modi.
    Avevo parlato a lungo, senza distogliere il mio sguardo da quello di Claudia, che sorseggiava piano il suo tè e mangiava il terzo biscotto, chiaramente minacciata dai miei occhi. Quando tentò di posare il piattino…
    “Ancora uno e potrò dirmi soddisfatto.” La mia voce era gentile, ma ferma. Doveva rimettersi in forze se voleva tornare ai suoi doveri. Su questo non avrei fatto un passo indietro.
    “Se hai deciso di mettermi all’ingrasso, va bene, poi dovrai sopportarmi quando mi lamenterò per qualche chilo di troppo.” Era di certo ironica, ma io colsi la palla al balzo per mettere in chiaro alcune cose importanti.
    “Claudia, sei perfetta così. Mi piace come i tuoi capelli si confondono con la vestaglia, come ci infili le mani per tirarli indietro, come muovi il collo per liberarti da qualche ciocca ribelle. Mi piace quando cammini ondeggiando, quando muovi le tue dita affusolate per indicare qualcosa, sì, perché gesticoli tanto ed è una cosa che di solito non sopporto… ma con te è diverso. Di contro, odio quando la tua pelle è pallida e i tuoi occhi lucidi per un disagio a cui potrei dare un nome ma che lascio volutamente nel silenzio, perché chissà forse così un giorno scomparirà davvero. Perciò, mi impegnerò affinché tutti noi possiamo godere della tua pelle rosea, del tuo sorriso spontaneo, ma soprattutto della tua mente brillante… E adesso la smetto di parlare, ho la gola secca, ma spero che il messaggio sia giunto a destinazione.”
    Avrei mantenuto la mia promessa di sicuro, il punto era se Claudia me lo avrebbe permesso. Attesi una sua risposta, una qualsiasi, per attimi infiniti… risposta che arrivò e mi scatenò dentro un altro stranissimo impulso, sconosciuto quanto improvviso.
    “I personaggi che dovrai reclutare sembrano davvero dei bei tipi, ma sono sicura che saprai come votarli alla Causa!” Mi donò un sorriso degno di questo nome, mi fece l’occhiolino e prese un altro biscotto.
    Ecco, adesso potevo dirmi soddisfatto.


    Edited by The Bla¢k Wit¢h¸ - 9/12/2020, 20:12
     
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    Voglio essere una macchia colorata in mezzo al grigiume della realtà

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    Era notte, le stelle illuminavano il cammino e speravo davvero mi avrebbero portato dalla persona che stavo cercando come un povero diavolo.
    Da giorni non mettevo qualcosa sotto i denti e, non avendo più acqua a bordo non facevo altro che bere rum. Ero ubriaco fradicio ed in preda ai morsi della fame, era ovvio che iniziassi a delirare persino sulle stelle.
    Fra i miei compagni, gli unici quattro gatti al mondo degni di essere definiti "la mia famiglia", c'era chi dormiva, chi controllava svogliatamente il mare e chi era svenuto a terra per colpa dell'alcol.
    Una lieve brezza si alzò, provocandomi piccoli brividi. In effetti che cazzo ci facevo sull'albero di prua? Stavo solamente prendendo freddo.
    Alzai gli occhi al cielo un'ultima volta prima di scendere e ricordai, in mezzo alla foschia della sbornia, perché mi ero arrampicato fin quassù. Le stelle, volevo vederle meglio, volevo essere più vicino a loro.
    Non ero religioso, non credevo in niente e nessuno, mi avevano portato via fin troppo nella mia vita per poter credere che fosse stato tutto un grande disegno di qualche stronzo lassù... ma da quando avevo scoperto la verità sulle mie origini, guardando le stelle riuscivo a sentirmi vicino a lei, a Lucia Màrquez, mia madre.
    Non l'ho conosciuta, o meglio, non me la ricordavo, perchè morì quando io avevo solo un anno, e da quando avevo scoperto tutto non ero altro che un corpo animato da rabbia e vendetta.
    Furia pura contro chi mi ha cresciuto in una menzogna, colui che mi ha imbrigliato a se a doppio filo per fin troppo tempo negandomi libertà ed affetto, e contro quei bastardi che hanno ucciso mia madre. Una dei due assassini, Opìa Apito, l'avevo già uccisa, avevo già riversato la mia sete di vendetta su di lei. Ora mancava solo un'altra persona, un bastardo che non riuscivo mai ad acciuffare: Edward Kenway.
    Ogni qualvolta che mi avvicinavo lui riusciva sempre a sfuggirmi come un pesce dalle mani.
    Sembrava quasi un fantasma sempre un passo avanti a me.
    Prima o poi però sarei riuscito a prenderlo, trovarmi faccia a faccia con lui ed a staccargli la testa. Ero determinato a farlo. Lo facevo per me, per mia madre. Era una promessa e l'avrei mantenuta.


    "Capitano! Siamo arrivati!"
    Il mio amico ed ex compagno di collegio Lucas ricevette solo il silenzio come risposta.
    "Thiago, porca puttana, ci ritroviamo sempre alle solite! Alza quel cazzo di culo piatto che ti ritrovi e comportati da capitano per una volta!"
    "Nessuna si è mai lamentata del mio culo, anzi, ha la nomea di essere rotondo e sodo." mugugnai aprendo gli occhi.
    "L'unica parte che hai capito è quella riguardante il tuo culo?! E poi che cazzo me ne frega? Ma perchè sto continuando questo discorso?"
    "Stai facendo tutto te." gli risi in faccia.
    "Al diavolo, mi manderai al manicomio!" esclamò uscendo come una furia dalla mia cabina.
    Ma quanto mi divertivo a stuzzicarlo? Lucas è sempre stato così suscettibile sin dai tempi del collegio.
    Ai tempi era solito attirare guai proprio a causa di questo suo caratterino irascibile. Poi arrivavo io che tentavo di calmare le acque, ma con il mio modo di fare scanzonato ma provocatorio, tipo "Ehi, ma stai tranquillo! Stanotte un granchio ti ha pizzicato il culo?", peggioravo solo la situazione, finendo sempre e comunque in risse.
    Mi alzai dal letto decisamente malconcio, andai allo specchio e anche io non ero messo molto bene. Capelli scapestrati, barba lunga, abiti di due giorni prima decisamente sgualciti -mi ero messo la camicia al contrario?- e macchiati un po' ovunque da non volevo sapere cosa.
    Insomma, non ero un bello spettacolo, sembravo un barbone.
    Dovevo uscire a breve, quindi mi tagliai la barba in fretta e furia, mi lavai rapidamente, mi cambiai con i primi abiti puliti che mi capitarono a tiro e uscii.
    Sul ponte trovai la mia ciurma, composta da Lucas ed altri quattro uomini- Rafael e Miguel erano anche loro con me in collegio, Samuel e John erano mercenari come me e li avevo raccattati in giro per i Caraibi-, ad aspettarmi spazientiti.
    "Era l'ora! Ma quanto ci hai messo?" esclamò Samuel.
    "Il tempo necessario mio caro. Comunque, siamo arrivati ad Havana, ma ricordatevi che è solo una rapida tappa per fare rifornimento. Quindi, vàmonos!" dissi allegro per poi scendere dalla nave e separarmi dai miei compagni.
    "Thiago va tutto bene?" roteai gli occhi al cielo. Cosa non aveva capito di rapida tappa e vàmonos?
    "Sì Rafael, tutto bene, ora vai a..."
    "Non credo proprio amico. Ieri sera era la terza sera di seguito che eri ubriaco fradicio appollaiato sull'albero di prua come un pappagallo ad inveire e dichiarare vendetta contro quel Kenway, e non usare la scusa che non c'era più acqua potabile a bordo."
    Rafael, quello che non si sa come sa sempre come ti senti, e di conseguenza non si fa mai i cazzi suoi.
    "Beccato. Sai com'è la situazione. Tu, Miguel e Lucas la conoscete meglio di chiunque altro.” gli dissi in tono scanzonato mentre osservavo distratto le bancarelle in una delle vie nei pressi del porto.
    “So perfettamente com’è la situazione Thiago, ma questa si chiama ossessione. Ormai è morto da dodici anni! Non puoi resuscitarlo per poi farlo fuori tu. Fattene una ragione.”
    Colpito ed affondato.
    “Sai che effetto mi fa l’alcol. Gli unici momenti in cui mi butto giù di morale sono quelli in cui sono sbronzo. Dopotutto non si può essere sempre allegri e contenti no?" gli dissi facendo spallucce.
    “Questo mi pare ovvio, altrimenti saresti pazzo, però non puoi logorarti in questo modo. Ci ha pensato qualcun altro e so che è proprio questo che ti fa impazzire, ma devi lasciarlo andare, non puoi rimanere prigioniero del passato. Gli assassini di tua madre sono morti, giustizia è stata fatta, a prescindere dal fatto che li abbia uccisi entrambi tu o no. Sei libero finalmente. Nessuno ti impedisce di fare niente, nessuno ti tiene rinchiuso da qualche parte. Goditela questa libertà, non conosco nessuno che ne ha più bisogno di te.”
    Come riusciva a capire sempre cosa provavano gli altri?
    "A dopo amico." gli sorrisi. Era un sorriso che non coinvolgeva gli occhi.
    Gli diedi una pacca sulla spalla e mi incamminai verso il centro della città.
    Havana era una città decisamente viva, un via vai incessante la animava, ed accoglieva nei suoi colori e nei suoi suoni letteralmente chiunque.
    Avrei dovuto comprare le provviste necessarie per il viaggio imminente che sarebbe durato un po’ di tempo -dopotutto scovare e far fuori un gruppo di persone sparse per il Pacifico non era cosa rapida-, ma prima avevo una cosa decisamente più urgente da fare.
    Comprai degli ibischi rossi da un fioraio nel centro della città e poi mi avviai verso la campagna.
    Dopo aver camminato per una decina di minuti in mezzo ad un paesaggio decisamente diverso da quello della città, colmo di vegetazione varia e decisamente colorata, arrivai ad un cimitero praticamente abbandonato a sè stesso.
    Aprii il cancello ormai arrugginito e seguendo un sentiero sterrato in mezzo ad un mare di lapidi malconce e semidistrutte arrivai davanti ad una tomba ben tenuta, con sopra pochi rampicanti che però non la deturpavano, anzi, la rendevano più bella.
    Poggiai i fiori a terra e ripulii le lettere incise nella pietra.
    Rimasi in silenzio, seduto a terra, a godermi il lieve venticello che si era alzato.
    Ogni qual volta che mi capitava di passare per l’Havana venivo qui a trovarla. Sapevo che non poteva ne vedermi, ne sentirmi, come ho detto non credo in queste cose… però, da quando avevo scoperto della sua esistenza, venire qui era uno dei pochi modi per sentirmi in contatto con lei.
    Diciamo che mia madre era l’unica eccezione alla mia miscredenza.
    Dopotutto un ragazzo di soli diciotto anni che scopre che in realtà sua madre non l’ha abbandonato, ma che anzi è morta uccisa, come altro doveva reagire se non precipitandosi davanti alla sua lapide, a ciò che restava di lei, per cercare quel legame che per tutta la vita aveva desiderato ma che gli era stato negato?
    La rabbia inizio a salire. Respirai profondamente. Questi momenti negativi li relegavo solo e soltanto a quando non ero sobrio.
    Nel silenzio rilassante e quasi spettrale di quel luogo sentii dei passi cadenzati avvicinarsi alle mie spalle. Mi voltai, ritrovandomi davanti un damerino che sembrava avere un palo nel culo da quanto era rigido e serio.
    Sbuffai infastidito per l’intromissione, anche se ero curioso di sapere cosa volesse da me questo strano individuo.
    Riportai lo sguardo sulla lapide di mia madre e ghignai.
    “Che vuoi, straniero?” gli chiesi sarcastico.
    “Parlare con te.” mi rispose atono ed inespressivo.
    “Fin qui c’ero arrivato, altrimenti che senso aveva starsene in piedi lì dietro come uno stoccafisso?”
    dissi strafottente mentre mi alzavo da terra pulendomi i pantaloni dalla terra. “Arriva al punto damerino, ho altro da fare.”
    Il leggero pulsare di una piccola venuzza sopra al sopracciglio destro fu l’unica manifestazione del suo fastidio nei miei confronti. Era un tipo decisamente tosto.
    “Devo consegnarti un oggetto prezioso. Il resto verrà dopo. Con te mi sa che i preamboli sarebbero inutili. Perciò, stranamente, concordo con te. Andiamo al sodo.”
    Sogghignai divertito. Anche se non lo dava a vedere, sembrava stessi riuscendo ad intaccare leggermente la sua pazienza. Per questo decisi di andare avanti in questo modo… mi diverto male, lo so, ma che ci posso fare? Sono insofferente a tipi del genere.
    “Come sono contento, ma non è il mio compleanno. Non ti conosco e sai, il mio patrigno mi ha insegnato che non si accettano cose dagli sconosciuti.” dissi ironico con tono quasi infantile, ma non appena il tizio si fece più vicino di qualche passo e portò la mano ad una tasca interna della sua giacca, mi feci più serio ed attento.
    Non sia mai che lo stoccafisso volesse riservarmi una brutta sorpresa.
    “Quindi, cosa vuoi da me?” chiesi con un sorriso sghembo.
    Il damerino si mosse lento e tirò fuori dalla giacca un involto di velluto ricamato.
    “Sono venuto qui per consegnarti qualcosa che ti appartiene, nessun dono gratuito.”
    “Non ho perso niente e non penso proprio che tu possa avere qualcosa di mio.”
    Ignorò completamente la mia provocazione ed aprì il tessuto.
    Era una chiave di metallo molto bella che si illuminò appena e quando l’avvicinò a me. La guardai estasiato e curioso come se fosse un tesoro raro e prezioso.
    “Questa, non so bene per quale motivo, sembra averti scelto per una missione molto importante, che va al di là di ogni comprensione. Tu devi solo prenderla ed accettare il tuo destino.”
    Per un lungo istante rimasi ammutolito davanti a queste informazioni.
    Quella cosa aveva scelto me? Perchè? E poi destino? Ma di che stava parlando?
    “Che missione? Quale destino?” ero confuso, decisamente confuso.
    “Ogni mia parola potrebbe risultare inutile, visto che nessuno di noi due ha tempo da perdere, ti consiglio di prendere la chiave e allora capirai ogni cosa...”
    Fissai l’oggetto nelle sue mani che mi stava come una sirena. Ero titubante. A detta del becchino questa chiave avrebbe cambiato per sempre la mia vita, ma ero davvero sicuro di volerlo. Sì, ok, la mia vita era un disastro. Davo la caccia ad un uomo morto da ormai dodici anni. Solo un pazzo non avrebbe accettato.
    Ma i miei compagni? Quei cinque disgraziati che avevano deciso di credere in me -gli unici ad averlo mai fatto-, seguirmi, sostenermi. Erano la famiglia che non avevo mai avuto. Quale persona l’avrebbe mollata su due piedi così? Io non di certo, però la curiosità era troppa.
    Dopotutto posso sempre rifiutare, no?
    Toccai la chiave e su essa si incise il mio nome, la luce aumentò ed io sentii le gambe crollare sotto al mio peso. Mi mancava l’aria e mi poggiai alla lapide di mia madre. Peccato che le passai attraverso, ritrovandomi con il culo a terra, dietro la tomba a fissarla come uno scemo, con i polmoni che cercavano disperati ossigeno. Un mal di testa allucinante iniziò a martellarmi le tempie. La mia testa sembrava un contenitore che veniva riempito a forza con tutta la conoscenza del mondo. D’un tratto sapevo cose di cui non me n’era fregato mai nulla, che avevo sempre ignorato o considerato futili. In tutto quel sapere c’era anche la missione, il destino accennati dallo stoccafisso. Prendere parte alla rinascita dei Templari che a breve sarebbero periti. Avevo sentito nominare Templari ed Assassini, ma me n’ero sempre tenuto alla larga, non mi interessava. Ora però sapevo. Sapevo che mia madre era una Templare e che i suoi carnefici erano Assassini. Guardai la chiave nella mia mano che pian piano si spense ed io ricominciai a respirare. La strinsi forte nel mio pugno e mi rialzai.
    Come potevo ignorare tutto quello che avevo scoperto? Non potevo.
    Avrei dovuto salutare i miei compagni, ma non potevo fare altrimenti.
    Guardai lo spaventapasseri davanti a me, che continuava a guardarmi serio, come se niente fosse accaduto.
    “Verrò con te, ma prima devo assicurarmi che la mia famiglia starà bene anche senza di me.” dissi risoluto. Fece un cenno d’assenso con la testa, mi voltai e determinato andai a dire addio a gli unici che avevano osato volermi bene.


    Edited by The Bla¢k Wit¢h¸ - 13/12/2020, 09:35
     
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    Leningrado 1920
    Venivo definita una tiranna, fredda e senza cuore, l'incarnazione della corruzione burocratica. Dove lavoravo, come Caposala, mi era stato affibbiato, dai paziente, il titolo di "Отличная медсестра". Un modo gentile per definire l'odio che ogni singolo uomo della struttura provava per me. Il motivo? Era assai semplice.
    Per i pazienti rappresentavo l'incarnazione di tutto ciò che ogni buon "maschio" detesta. Ero solita spaventare gli uomini del reparto esercitando un controllo totale e spesso de mascolinizzante.
    Le mie visite in corsia ero solite svolgersi non a suon di urla, ma bensì tramite oscure manipolazioni e torture psicologiche. Il tutto però avveniva con la mia solita aplomb ed eleganza. La mia uniforme immacolata, l'acconciatura perfetta, i capelli dorati, gli occhi azzurri e la voce dolce ed angelica mi rendevano fondamentalmente agli occhi di chiunque la donna perfetta. Ed io lo sapevo.
    Una delle cose che tendeva infatti ad infastidirmi più di qualsiasi altra cosa era il disordine ed ero solita irritarmi facilmente se qualcosa mi impediva di funzionare come una macchina oliata e precisa. La stessa calma che nel mio sguardo si leggeva era in realtà il riflesso di quanto all'interno fossi tesa come l'acciaio.
    Lavoravo all'Ospedale di Leningrado ormai da quasi 3 anni, all'incirca da poco dopo che ero stata cacciata dall'esercito russo dove avevo servito come infermiera. Ricordavo ancora quei tempi e non era raro che dagli stessi portassi sempre con me un'importante insegnamento "Se salvi una vita sei un eroe. Se ne salvi 100... beh sei un infermiera" e mai tanto ero andata fiera di ciò che ero. Ciò che mi disturbava era chi non comprendeva l'importanza di tale ruolo, come quando poco prima della fine della Prima Guerra Mondiale ero stata bandita dal mio ruolo e posizione solo perchè avevano scoperto che soffocavo i soldati che mi supplicavano di voler morire. Era chiaro che la misericordia era un concetto ancora assai raro nelle persone.
    Tuttavia ciò mi aveva permesso, poco tempo dopo, di essere assunta nell'Ospedale Psichiatrico dove in breve tempo ero divenuta la Caposala.
    Il mio carattere manipolatore e vendicativo mi aveva portato a farmi rispettare, dal personale e dai pazienti, in molto poco tempo quanto a rendermi del tutto capace di affrontare con freddezza e polso le terapie che ai pazienti somministravamo dalle più classiche lobotomie alle più sperimentali... vasche di acqua bollente.
    Quella mattina mi stavo accingendo ad uscire come sempre, mentre di fronte allo specchio stavo finendo di sistemare l'acconciatura perfetta e con le mani stirare le pieghe dell'uniforme che con tanta solerzia avevo stirato.
    Sul collo appuntata la mia spilla a "C", era in oro ed oggettivamente era una delle poche cose di valore che possedevo come gli orecchini di perla che non mancavano mai alle mie orecchie, un regalo di mia madre. Li accarezzai, mentre un sorriso tirato si dipinse sul mio viso nello stesso momento in cui mia sorella entrò nella stanza con in braccio il piccolo Nikolai, di poco più di tre anni.
    Ero insofferente ai bambini ed ancor più a lei che prima aveva deciso di sposarsi un piantagrane e poi quando quello era morto mi era piombata in casa con la pretesa che io mi occupassi di lei e suo figlio.
    “Credi che oggi riuscirai a portare a casa dell'altra farina?” mi chiese con voce sottile.
    La Guerra Civile impazzava e mentre io ero nauseata dal caos che questo aveva apportato, anche grazie quell'idealista senza speranze e folle di suo marito, lei si aspettava -come sempre- che io mi occupassi di tutto. Le riserve di cibo scarseggiavano già da tempo, ma io grazie alla mia posizione non era raro che prelevassi scorte dalla dispensa dell'istituto, nonostante ciò non voleva dire che lo facessi a comando.
    "E' sorprendente Katya come tu ti aspetti sempre che io mi occupi di tutto" esclamai osservando il mio riflesso perfetto, mentre appuntavo sul capo il mio "cappellino" da infermiera.
    “Odio stare qui e lo sai... quanto odio chiederti aiuto... ma lì fuori è pericoloso ed io ho Nikolai a cui pensare!”
    "Se tuo marito non avesse fomentato ciò che là fuori c'è non ne saresti costretta!" le feci presente voltandomi verso di lei con quella mia solita aggressività passiva che la faceva impazzire.
    Voce calma e sguardo lieve, mentre lei aveva già alzato gli occhi al cielo ed aveva preso a muoversi con fare convulso e rispondermi con un tono di voce più alto.
    “Smettila! Andrei ha sempre e solo combattuto per la libertà!”
    “No Andrei era un sovversivo e lui e tutti quelli della sua Confraternita dovrebbero essere rinchiusi... fortunatamente alcuni dei suoi compagni lo sono ed io posso occuparmi del loro recupero!” dissi sorridente prima di recuperare anche la borsetta e superandola raggiungere la porta.
    La mano guantata si poggiò sulla maniglia, ma prima di abbassarla mi voltai composta per dire a mia sorella un'ultima cosa "Sono sicura che qualche giorno di digiuno non faccia male al piccolo Nikolai, così la prossima volta imparerà a non ingozzarsi di pane!" e senza aggiungere altro uscì.
    La giornata al lavoro passò come sempre, tra le mie molte attività e responsabilità ed il tenere sempre tutto in ordine. Fu forse per quello che con schiena retta ed atteggiamento impettito, come ero solita essere, mi diressi nella sala comune ove noi infermiere potevamo rilassarci e mangiare qualcosa.
    Quando arrivai la giovane ed inesperta Natasha e la veterana e scorbutica Nadya stavano mangiando e chiacchierando allo stesso tavolo. Io le ignorai se non fosse che quando tirai fuori dal frigo il mio sacchetto di carta, in cui avevo le mie vivande, notai immediatamente che mancava una pesca. La stessa pesca che Nadya aveva accanto al bicchiere sul tavolo.
    Deglutì infastidita e voltandomi decisi di affrontarla.
    "Perdonate la mia intromissione, ma... quella è la mia pesca" feci presente. Lineare e fredda.
    Nadya si bloccò e guardando la pesca la prese in mano. “Non ci vedo il tuo nome scritto sopra!”
    "E chi lo farebbe?"
    “Farebbe cosa?”
    "Scrivere il proprio nome su una pesca" osservai oggettiva.
    “Forse qualcuno che la vuole tanto?” Nadya guardò Natasha ed entrambe sembravano molto divertite, mentre io ero molto irritata nonostante la mia calma e garbatezza.
    "Nessuno lo ha mai fatto! Non metterei mai il mio nome su una pesca!"
    “Oh io ho visto farlo!” ironizzò Natasha, ma prima che poté finire di prendermi in giro io l'avevo già messa in riga al punto che alla mia strigliata si fece piccola piccola.
    "NO! Nessuno lo ha mai fatto!"
    A quel punto impettita Nadya mi sfidò con lo sguardo.
    "E' la mia pesca! L'ho comprata e l'ho portata qui!"
    “Ed io l'ho portata qui!” ironizzò indicando il tavolo a cui era seduta.
    "L'ho pagata!"
    “Magari l'hai rubata!”
    "Ma non l'ho fatto!"
    “Però se l'avresti fatto...”
    "Sarebbe comunque mia!"
    “Mmm non lo so... so solo che ho aperto il frigo e questa pesca è rotolata verso di me... quindi l'ho presa! Quindi ora... è mia!”
    “Bè in un certo senso ha ragione, perchè se la pesca è rotolata f-”
    "Nessuno sta parlando con te!" la rimbeccai di nuovo dura e mentre quella alzava le mani in segno di resa e Nadya rideva.
    “Oh qualcuna qui è irritata... 'quella è la mia pesca, ridammela'” mi fece il verso come ad imitare una bimba capricciosa.
    "Quella è la mia pesca!"
    “Oh no questa pesca è nella mia bocca! Mi dispiace!” e così dicendo le diede un morso guardandomi dritta negli occhi mentre io percepivo una spiacevole sensazione farsi largo in me.
    "A te non dispiace, ma lo farai"
    “Davvero? Perché cosa farai al riguardo?” mi chiese ed alzandosi mi venne incontro. La MIA pesca in una mano e l'atteggiamento tronfio di chi credeva di aver vinto dipinto sul suo viso.
    “Che c'è sei sorda? Non rispondi?”
    "No. Sto solo pensando a tutte le cose che farò al riguardo..." lo dissi con una calma così inquietante che l'espressione dell'infermiera di fronte a me cambiò. Divenne pallida tutta insieme, mentre ben presto venimmo interrotte dall'arrivo di un'altra nostra collega che timidamente mi fece presente che all'ingresso c'era qualcuno che chiedeva di me.
    Rimasi per qualche secondo immobile, guardando ancora negli occhi Nadya che ormai sudava freddo e poi con un sorriso che di dolce non aveva nulla mi voltai e superando Yelena mi diressi a ricevere l'inaspettato ospite.

    L'inaspettato ospite che mi trovai di fronte era un distinto uomo dalla pelle, se possibile, più chiara della mia. I suoi occhi smeraldo non trasparivano emozioni ed i suoi capelli rossi non ingannavano la sua appartenenza non propriamente russa.
    “доброе утро” esclamò alzandosi e mantenendo le mani dietro la schiena non sedendosi fintanto io non avevo fatto lo stesso. Eravamo sue due poltrone gemelle, di pelle verde scuro, nella saletta in cui ero solita incontrare i parenti dei degenti. Il mobilio era in pesante legno scuro ed il camino alle mie spalle era davvero un lusso raro di quei tempi.
    "Ее русский язык исключительный, но я сомневаюсь, что она откуда-то здесь, Signor...?" conclusi passando all'inglese e non tradendo la mia postura rigida ed una mancanza di emozionalità che faceva a gara con l'uomo che avevo di fronte.
    “King. In effetti, Miss Zaytsev ho fatto molta strada per raggiungerLa. Tuttavia noto che Lei è molto simile a me, di poche parole. Passiamo ai fatti Le va?”
    Quel tono misterioso non mi stupì, ero abituata ad avere a che fare con "richieste" particolari e dunque quell'agire non mi scompose. Anzi se possibile lo apprezzai. Odiavo chi si perdeva in giri di parole inutili.
    Feci dunque un leggero cenno con il capo come ad assentire al suo procedere. Lo vidi dunque, con attenzione, tirare fuori dalla tasca interna della giacca un fazzoletto di seta che pareva nascondere qualcosa di prezioso.
    I miei occhi si accesero, seppur la mia postura rimase la stessa. Il collo tirato come quello di un cigno e le mani composte in grembo.
    Osservai con dovizia di particolare ogni suo gesto, dall'appoggiare il contenuto sul piccolo tavolo da té di fronte a noi, all'aprire leggermente il fazzoletto per mostrarmi il contenuto.
    "Una chiave?" chiesi curiosa, con tono atono, ma attento.
    “La provi a prendere Miss Zaytsev...”
    Non ero nuova ad accettare pagamenti di vario genere da parte di parenti o tutori che volevano che i propri "cari" venissero trattati in determinati modi o che gli venissero fatti determinati trattamenti. Denaro, oro, oggetti di valore erano merce rara e quando capitavano era una buona occasione per aspirare a qualcosa di meglio della miseria in cui vivevo e certo non meritavo.
    La presi dunque in mano e ne soppesai la fattura ed il peso. Appariva come d'oro massiccio, ciò che non mi aspettai fu il suo improvviso bagliore. Uno che mi costrinse a portare una mano ai miei occhi chiari che prontamente strinsi voltandomi dall'altra parte. Ma la curiosità era troppo e tornando a guardare la chiave, o almeno provandoci, vidi delle parole e dei numeri prendere forma. Il mio nome, l'anno in cui ci trovavamo e la città.
    Avrei chiesto che diavoleria fosse, ma quando la luce di riempire la stanza, l'uomo di fronte a me era già sparito ed al suo posto era rimasto sul tavolino un bigliettino con un luogo ed un'ora. Mi pareva chiaro che non ci fosse molto su cui riflettere. Rimanere in quel posto che non aveva più nulla da offrirmi o accettare quel salto nel vuoto?
    L'angolo della mia bocca si piegò impercettibilmente. Recuperai il biglietto, lo lasciai scivolare nella tasca della divisa ed a testa alta uscì dallo studiolo.
     
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    Voglio essere una macchia colorata in mezzo al grigiume della realtà

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    Parigi, 1765
    Quanto adoravo farmi un bagno caldo. Mi rilassava in modo indicibile.
    Per questo quando arrivò il momento di uscire da quel paradiso fatto di bolle profumate ed acqua bollente lo feci a malincuore. Tornai nella mia gigantesca camera, arredata con gusto e con il meglio del meglio, sulle tonalità del rosa e del rosso corallo. Adoravo il calore che quelle sfumature sapevano dare. Rispecchiavano decisamente il mio carattere esigente, focoso e frivolo.
    Mi avvicinai al fuoco scoppiettante nel camino ed iniziai ad asciugarmi. Guardai l’orologio sulla mensola sopra ad esso. Per fortuna era ancora presto.
    Stasera ci sarebbe stata l’ennesima festa alla corte di Versailles, ed io non me la sarei persa per nulla al mondo, come facevo sempre del resto.
    Adoravo andare in quella reggia immensa e preziosa, sembrava di essere in uno scrigno del tesoro completamente ricoperto e colmo al suo interno di ricchezze e meraviglie. Forse un po’ troppo pacchiano per i miei gusti -sono una persona elegante, io-, ma la sua esagerazione era proprio la sua bellezza.
    Quando mi trovavo a quegli eventi mondani con la crème de la crème della società parigina e non solo, immersa in quell’atmosfera magica, trasportata dalla musica ammaliante e da ballerini abili ed affascinanti, ero la persona più felice e spensierata della Terra.
    Presi l’abito che avrei indossato stasera. Era un vestito ricercato, uno dei più belli che avessi mai avuto. L’avevo commissionato alla sartoria migliore di Parigi. Era un piccolo capolavoro. Era blu, blu pavone profondo per l’esattezza, decorato con una fantasia floreale, che però essendo argentata, fine e delicata, non rendeva il tessuto brutto od eccessivo, anzi, lo rendeva incredibilmente elegante. Aveva le maniche che arrivavano al gomito, prolungate da pizzi e merletti che arrivavano quasi al polso; quest’ultimi adornavano anche la scollatura vertiginosa, che lasciava ben poco spazio alla fantasia. La gonna era ampia, enorme, decorata da ricami e drappeggi.
    Quest’abito era un sogno, e stasera sarei stata un sogno per molti uomini, ne ero certa.
    È chiaro che adoravo essere al centro dell’attenzione, vero?
    Con il vestito ancora nelle mie mani iniziai a volteggiare per la stanza, entusiasta ed impaziente per la serata che a breve ci sarebbe stata. Per me non era una novità partecipare a questi eventi, però li adoravo così tanto che il mio entusiasmo era sempre quello della prima volta.
    Quello era il mio ambiente, il mio posto. Ero una nobile, il sangue blu scorreva nelle mie vene. Ero imparentata, seppur alla lontana, con Sua Maestà Re Luigi XV di Francia, e persino con il grande Robert de Sablé, undicesimo Gran Maestro Templare all’epoca delle Crociate.
    Ero fiera ed orgogliosa di discendere da un Templare che aveva fatto la storia del nostro Ordine. Quanto avevo desiderato seguire le sue orme e rendere lustro e giustizia ai Templari. Purtroppo nella mia famiglia in pochi sentivano la mia stessa vocazione alla Causa. Fin troppo spesso avevano scambiato questa mia dedizione e voglia di fare in desiderio di attenzioni, capricci ed egocentrismo. Non fraintendiamo, io sono egocentrica e capricciosa, molto capricciosa, ma i miei genitori non erano riusciti a distinguere le due cose.
    Fin troppo spesso mi impuntavo e fissavo con cose e persone.
    “Devo assolutamente averlo, come potrei farne a meno?! Ne ho assolutamente bisogno!”.
    Frasi classiche che strillavo impaziente ed irritata per ottenere ciò che volevo, per poi fregarmene subito dopo. Ce l’avete presente un bimbo che vuole ardentemente un certo giocattolo e poi, dopo averci giocato cinque minuti, questo va nel dimenticatoio più assoluto? Ecco, così facevo io. Per questo confusero il mio interesse nei Templari per un capriccio temporaneo, come tanti ne avevo fatti in passato.
    Così mi avevano relegato in un angolino, estraniandomi completamente dall’Ordine, incentivandomi a buttarmi a capo fitto nella vita mondana, convinti che questa avrebbe potuto placare la mia sete di attenzioni.
    Adoravo questo mondo in cui ero finita, rispecchiava completamente il mio ideale di vita, ma purtroppo mancava sempre quel qualcosa, che ogni sera tentavo di affogare ed ammutolire fra alcool, divertimento e amanti focosi: uno scopo. Sapevo qual’era, ma ormai mi era inaccessibile, non c’era modo di riavvicinarmi all’Ordine, quindi vivevo il momento come potevo, appagando i miei sensi ed i miei desideri al massimo delle mie possibilità.
    Chiamai le mie domestiche per aiutarmi a vestirmi, entrare in questi vestiti non era facile, a truccarmi ed acconciarmi i capelli. Mi guardai allo specchio ed ero un semplicemente magnifica… come sempre. I miei capelli rosso nocciola creavano un contrasto magnifico con il blu dell’abito. Mandai un bacio volante al mio riflesso, presi il mio ventaglio, coordinato all’abito, ed uscii dalla mia camera. Scesi l’enorme scalinata in marmo bianco che portava al salone d’ingresso. Uno dei miei servitori mi mise uno scialle sulle spalle.
    “Mademoiselle de Sablé, la sua carrozza la attende.” mi disse uno dei miei maggiordomi.
    “Grazie, Andrè.” gli risposi sorridente per poi uscire di casa… e trovarmi un soggetto decisamente ambiguo ad ostacolarmi il passaggio.
    Era un uomo altissimo, elegante nel vestiario quanto nei modi di fare. Indossava una mantella foderata di rosso, chiusa con un fermaglio d’oro al collo.
    Lo guardai decisamente infastidita.
    Questo cosa vuole ora?
    “Monsieur, non ho la minima idea di chi siate, ma al momento non posso proprio perdere tempo con strambi sconosciuti. Quindi, spostatevi immediatamente, mercì.”
    L’unica manifestazione della sua perplessità fu un sopracciglio alzato.
    “Mademoiselle de Sablé, ho urgente necessità di parlarvi. È una questione molto importante, se poteste dedicarmi qualche minuto del vostro prezioso tempo, sono certo che non ve ne pentirete.”
    Ero incuriosita dallo sconosciuto, ma anche molto infastidita. Avrei fatto tardi alla festa!
    Cosa mai avrà da dirmi quest’uomo di tanto urgente?
    “Innanzitutto non mi sembra né educato né sensato presentarsi a casa altrui così, senza preavviso e per di più di sera. In più, voi sapete chi sono, ma io non ho la più pallida idea di chi voi siate. Non vi hanno insegnato che la prima cosa da fare quando si incontra una persona a noi sconosciuta è presentarsi? Mon Dieu, questa è educazione base. Sicuramente se sapessi con chi sto parlando ed il tema della discussione forse sarei più propensa ad ascoltare.” dissi stizzita incrociando le braccia al petto, provocando un suo leggero sospiro.
    “Ero certo che andare subito al sodo della questione vi avrebbe fatto risparmiare un po’ del vostro prezioso tempo. Ho fatto molta strada per arrivare qui, per tale ragione mi trovo alla vostra porta a un’ora così tarda. Ho qualcosa da darvi, posso farlo qui e ora...”
    La mia pazienza stava iniziando ad esaurirsi. Quest’uomo era tremendamente insistente con il suo fare serio e calmo, il che me lo rendeva ancora meno sopportabile. Non avevo tutta la sera, accidenti!
    “Bene dunque, venga al sodo!” dissi sbrigativa. Solo in quel momento mi resi conto che tirò fuori da sotto al mantello scarlatto un involto di stoffa, che una volta aperto rivelava una stupenda chiave lucente.
    Se fosse stato possibile, ero sicura che i miei occhi si sarebbero illuminati dalla curiosità e dalla meraviglia che mi stavano divorando.
    “Cos’è questa chiave? E cosa ha a che fare con me?”
    “È una Chiave Titana. Vi ha scelto, Ophelié, per fare parte di un grande progetto. Il grande Ordine Templare un giorno si estinguerà, voi con altri prescelti come voi avrete l’onore di tenere alto lo stendardo. Prendetela, è vostra, allora vi sarà tutto più chiaro...”
    Sgranai gli occhi sconvolta ed esaltata, lo sguardo che luccicava per la gioia e l’orgoglio. Mi porse la Chiave ed io l’afferrai con mani tremanti per l’emozione.
    Non appena lo feci un dolore lancinante mi colpì alla testa, talmente forte che sembrava potesse esplodermi da un momento all’altro. Era come se mi stessero conficcando un’infinità di aghi nel cervello. Ero convinta sarei svenuta da un momento all’altro. Mi ero rannicchiata su me stessa, le mani ad afferrarmi convulsamente le tempie, come se avessero potuto in qualche modo alleviare quello strazio. Socchiusi leggermente gli occhi e vidi una luce intensa provenire dalla Chiave, che mi era caduta a terra, su cui ora c’era inciso il mio nome. Com’era venuta, l’emicrania se ne andò e con lei anche il bagliore della Chiave. La raccolsi e lentamente mi rimisi in piedi, ancora un po’ traballante.
    Guardai l’uomo di fronte a me, sempre imperturbabile. Probabilmente sapeva già cosa sarebbe successo. Immediatamente mi tornarono a mente le parole che aveva detto.
    Se fossi stata da sola avrei iniziato a saltare come un grillo per il cortile, urlando e piangendo dalla felicità.
    Finalmente, finalmente, finalmente! Uno scopo, anzi lo scopo! Quello per cui mi ero battuta in tutta la vita, quello da cui mi avevano allontanata perché non ritenuta degna di perseguirlo. Ebbene, si sbagliavano, tutti si sbagliavano! Non ero solo una persona superficiale, avevo altro da dimostrare e da offrire, e per la prima volta in venticinque anni di vita qualcuno mi aveva dato questa possibilità. Qualcuno aveva creduto in me! E di certo avrei dato il meglio di me stessa, in primis per la Causa, e poi come rivincita personale nei confronti di coloro che non avevano mai avuto nemmeno un briciolo della mia passione nei confronti dell’Ordine.
    Tentai di calmarmi un minimo, non volevo mostrare tutta la mia euforia.
    “Sono talmente onorata che non so come rispondere… non è da tutti riuscire a zittirmi, monsieur.” gli dissi sorridente. “Sì, assolutamente sì, verrò con voi e vi giuro che farò di tutto per portare avanti gli ideali Templari.”
    “Ero certo che avrei suscitato il vostro interesse. E, sono altrettanto certo che saprà onorare la Causa con la verve che riconosco vivida in voi. Allora, andiamo? Ci aspetta un lungo viaggio.”
    Ero abbastanza sicura che si vedesse tutta la mia commozione per quel commento. Nessuno aveva mai riposto così tanta fiducia in me.
    “Assolutamente, in fin dei conti le feste a Versailles sono tutte uguali, non mi perdo nulla.” risi, per poi fissare nuovamente il mio interlocutore. “Ora posso sapere il vostro nome, monsieur? Vorrei sapere chi è colui che mi ha ridato uno scopo.”
    Mi sorrise leggermente -penso uno dei pochi se non rari sorrisi che gli ho visto in tutti questi secoli-, mettendosi entrambe le mani dietro la schiena.
    “Il mio nome è Henry, avrò modo di raccontarvi tante cose durante il tragitto che vi porterà alla vostra nuova casa...” disse per poi porgermi un braccio per farmi strada.
    Non avvisai nessuno della mia partenza. Nessuno se lo meritava, nessuno mi meritava. Mentre i miei genitori avrebbero contribuito ad affossare ulteriormente l’Ordine, da bravi incapaci quali erano, io l’avrei fatta risorgere dalle ceneri insieme a quelli che a breve sarebbero diventati i miei compagni per la vita.
    Me ne andai così, in una notte come tante, vestita da ballo, lasciando dietro di me tutti i miei domestici sconvolti e perplessi.
     
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    Henry era tornato non poco indispettito dai suoi viaggi e seppur non voleva darlo a vedere, riusciva a provocarmi un sorriso quel suo fastidio ben impresso sul suo volto per chi, come me o Jordan, sapeva leggerlo.
    Continuavo dunque a guardarlo di sottecchi, mentre ridacchiando il mio sguardo si incrociava con il suo attraverso lo specchio.
    “Trovo infantile il tuo deridermi così apertamente” mi rimbeccò serio con lo sguardo fisso nel mio, che saettava da lui al mio riflesso in cui stavo sistemando gli ultimi dettagli prima del viaggio. Avrei fatto due tappe una nel '700 ed una in epoca moderna, non era dunque stato facile mettere insieme un outfit adatto per le due occasioni, ma grazie ad Ingvild eravamo riuscite nell'intento. Nel primo caso l'abito era molto simile a quello di una semplice popolana e molto probabilmente di una strega, considerato l'immaginario dell'epoca e sicuramente i miei capelli aiutavano nell'intento. Nel secondo caso ero molto simile alle donne che seguivano la religione wiccan, che seppur vivevano negli anni 2000 amavano richiamare con i loro look quelle delle loro celebri antenate di Salem.
    "Trovo solo molto divertente la tua incapacità di nascondere, ai miei occhi, il disappunto che ti crea aver arruolato alcuni degli ultimi personaggi che alle nostre schiere si sono uniti..."
    Dissi portandomi le mani sui fianchi e voltandomi verso di lui chiedergli, con il solo sguardo, di porgermi il mantello poggiato al sui fianco sul bordo del letto. Henry lo prese, ma invece di passarmelo si alzò e raggiungendomi di spalle me lo appoggiò sulle stesse, allacciandomelo.
    Di nuovo voltandomi verso lo specchio lo guardai negli occhi come sempre rapita dai suoi modi di fare e dalla sua cavalleria nei miei confronti. Con delicatezza, con attenzione, senza mai indugiare in quegli aspetti classici di un uomo. Lo sguardo che cade sul mio seno prosperoso, la vicinanza prolungata pur di favorire del calore del mio corpo, le mani che accarezzano la pelle nuda... banalità appunto. Cose a cui rifuggivo e per cui rabbrividivo eppure con lui non capitava, anzi quando notavo la sua attenzione a ciò ed il suo allontanarsi ogni volta mi pareva di perdere un battito.
    “Semplicemente credo che alcuni degli ultimi adepti siano a dir poco... particolari...” sussurrò sottolineando quella parola. Al che avrei probabilmente riso, come al mio solito, ma l'alito caldo della sua voce vicina al mio orecchio mi aveva inebriato.
    Vidi le sue mani scivolare via ed arrivare alle mie spalle e sapevo che le avrebbe tolte, se non fosse che non lo fece. Rimase immobile guardandomi fisso, sicura che stesse percependo ogni sfumatura delle mie emozioni.
    "Henry..." iniziai in un sussurro accaldato, come chi si sente pronto e deciso a voler dire qualcosa di importante, ma appena mi voltai verso di lui, mi poggiò una mano sulle labbra gonfie e rosse come ciliegie, impedendomelo.
    Il suo dito lungo ed affusolato si mosse iniziando ad accarezzarmele, mentre io chiudendo gli occhi mi abbandonavo a quella sensazione mostrandomi senza difese. Completamente a mio agio con lui, con un uomo, come non lo ero da tempo. Anzi come non lo ero mai stata.
    “Non posso darti quel che cerchi...” disse in un sussurro caldo, ma freddo allo stesso tempo. Compito come sempre. Fu ciò a farmi aprire gli occhi e guardarlo, mentre ora la sua mano aveva raggiunto la mia guancia che dolcemente accarezzava.
    "E cosa cerco?" lo sfidai piegando il viso da un lato e permettendo così alla sua mano di scendere sulla pelle morbida del mio collo.
    “Empatia? Calore? Emozioni? Inutile dire che sono proverbialmente famoso per non possederle...”
    Osservò impassibile risalendo nella sua carezza e raggiungendo la mia tempia, lì dove con due dita si fermò, quasi a volersi collegare con ogni mio pensiero e vibrazione ed io glielo stavo permettendo.
    "Credi che sia così banale? Ascolta tu stesso... le parole sono superate... è chiaro che non ci appartengono..." dissi chiudendo gli occhi e lasciandolo entrare.
    Perchè fermarsi a ciò che è conosciuto per definire cosa sia realmente amare? Forse la maggior parte delle persone necessitano dargli un senso, un nome, un etichetta, ma non io. Non noi. C'è così tanto che le parole non sono in grado di esprimere e l'amore è un contenitore così piccolo incapace di raccoglierne ogni sfumatura, anche la più unica e la più rara.
    Sentirlo dentro di me in quel modo era come una carezza su un nervo scoperto, faceva male, ma diventava poi piacevole se era fatto con rispetto. Non feci nemmeno in tempo a riaprire gli occhi perchè percepì chiaramente la delicatezza delle sue labbra sulle mie. Non era un bacio o per lo meno non ancora.
    Erano labbra che si cercavano, ma in egual misura si accarezzavano con timore. Si studiavano scoprendone la forma, la consistenza... che cercavano di scoprire se fossero compatibili...
    Percepì chiaramente le stesse scambiarsi un bacio casto, appena accennato, mentre la sua mano sulla mia tempia si era trasformata in una carezza sul volto e l'altra si era appoggiata timidamente sul mio fianco. Al contempo io avevo adagiato le mie mani al suo dorso, in una stretta sicura. In un riparo ad ogni male. Lì ero certa, non ne avrai subito.
    Quel contatto si fece un poco più profondo nell'attimo in cui, le lingue, si toccarono. Fu un attimo. Le punte come calamite si erano cercate e subito dopo essersi trovate si erano di nuovo perse in un mare tanto burrascoso quanto paradossalmente calmo.
    Quando riaprì gli occhi e lo trovai lì a guardarmi con i sui penetranti occhi verdi non ebbi più dubbi, lui aveva già tutto quello che cercavo, anzi che non avevo mai tentato di cercare. Perchè credevo fosse impossibile che ciò esistesse, dunque perchè prodigarsi ad illudersi dopo tanto dolore?
    Chiusi gli occhi e poggiai il viso sul suo dorso, stretta nel suo abbraccio. Non c'erano bisogno di parole. Non tra noi.

    Cambridge, 1782
    Mentre i fratelli Montgolfier facevano sollevare il primo pallone aerostatico e la pubblicazione del romanzo epistolare "Le Relazioni Pericolose" di De Laclos faceva parlare di sè, qualcuno pareva non condividere quell'entusiasmo che permeava ogni persona di quell'epoca.
    Natale era vicino e la neve ricopriva le strade brulicanti di luci e persone intente a fare compere, mentre i bambini costruivano pupazzi di neve.
    Io camminavo a capo basso, il mantello a celarmi il volto e l'aspetto di chi era una donna indipendente. Avrei potuto scegliere una mise più nobiliare forse, una che avrebbe potuto comunicare superficialità e potere o al contrario preferire un abbigliamento puritano per apparire casta e remissiva. Ma non era quella l'apparenza che volevo dare, volevo far comprendere subito di che pasta fossi fatta e poi amavo l'idea che venissi considerata una strega, quando di fatto lo ero.
    Quando entrai nel bar del campus di Harvard tutti i professori e studenti presenti si voltarono verso di me, mentre io ignorandoli camminai fiera e tranquilla fino a prendere posto di fronte ad un uomo riverso sul tavolo.
    I capelli spettinati, i bicchieri finiti, la camicia sollevata fino ai gomiti ed un puzzo di alcool che impregnava l'aria.
    Tutti gli stavano ben lontani tanto che nessun tavolo nelle vicinanze era stato occupato.
    "Sono appena le 9 di mattina e Voi siete già sbronzo Professor Lee, ma mi sembra ormai la sua normalità o sbaglio?"
    “Io non sono più un Professo...” la voce impastata strascicava le parole le stesse che si bloccarono appena i suoi occhi posarono lo sguardo sul mio viso.
    Sorrisi da sotto il mantello, il seno prosperoso non nascondeva la sua audacia, mentre proseguì nella mia missione imperturbabile.
    "Felice di aver avuto la Vostra attenzione"
    Il suo sguardo era ancora sul mio seno quando alzando una mano mi fece segno di andar via, prima di prendersi la testa tra le mani per quanto gli vorticava.
    “Non sono in vena ok? Dì ai miei studenti o colleghi che non mi interessa...”
    "Potrei rimanerci male... di solito mai nessuno è immune al mio fascino eppure, Professor Lee, non sono qui per questo..." gli feci notare, prima di tirar fuori proprio da sotto il bustino un fazzoletto di seta che custodiva un oggetto prezioso. Lo poggiai sul tavolo e lo guardai fissarlo incuriosito.
    "Vostro fratello è morto 2 mesi fa per mano e per colpa della donna che amavate, la stessa che Vi ha solamente usato. Fidatevi se Vi dico che so cosa si prova... Nella mia famiglia sono stata per tanto tempo un orpello che è stato manipolato e poi gettato quando ormai usato per i propri scopi. Ma non sarà affogarvi nell'acool la soluzione ai Vostri problemi..."
    Mi accorsi che avevo la sua attenzione, perchè si era alzato di scatto e sporgendosi sul tavolo che ci separava mi aveva preso per il bavero del mantello, mentre io non parevo per nulla sconvolta o spaventata.
    “Come diavolo sapete queste cose eh? Cosa volete da me?”
    "Perchè non lo scoprite da solo?" gli chiesi facendo saettare lo sguardo da lui alla chiave. Lo vidi fissarla, lasciarmi lentamente andare e tornando a criogiolarsi al suo opposto fissarla come Gollum osservava il fantomatico Anello.
    Mi sistemai il mantello che mi aveva sgualcito e senza fare una piega mi alzai.
    "Avete due opzioni: o rimanere qui a commiserarvi e piangere sulla memoria di un uomo che ha fatto grandi cose per l'Ordine Templare oppure prendere quella chiave e fare qualcosa di concreto per ottenere vendetta" esclamai tagliente come una lama.
    Stavo già per girare i tacchi ed andarmene quando fermandomi tornai a guardarlo.
    "Vi aspetto all'Eliot Brige a mezzogiorno in punto, un solo secondo di ritardo e non mi troverete... Avete una possibilità Professor Lee. Rimanere e..." mi guardai intorno disgustata "... morire di cirrosi epatica tra qualche anno oppure vivere per l'eternità e raggiungere conoscenze sconfinate ed inimmaginabili..." era un professore e come tale ero certa che la conoscenza fosse il suo punto debole.
    Notai il luccichio nei suoi occhi, ma non persi tempo e voltandomi me ne andai. Non lo avrei supplicato, non ce n'era bisogno quando ero certa senza ombra di dubbio del mio successo ancor più perchè dove lo avrei portato dopo gli avrebbe dato quella spinta di adrenalina e meraviglia di cui tanto necessitava.


    Edited by The Bla¢k Wit¢h¸ - 27/12/2020, 18:29
     
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    Ritornare a casa dopo diversi giorni e diverse notti trascorse perso, distrutto, affogato nei fumi dell’alcool, no… non era mai stato nei miei piani. Ma mi ero lasciato prendere la mano, erano mesi che permettevo all’istinto di travolgermi e trascinarmi ancora più in basso, verso il fondo di un baratro di cui non riuscivo a vedere la fine. Non ero più io, non mi riconoscevo più, non riuscivo più a rivedere nello specchio l’uomo sorridente e ottimista che ero stato. Tutto, avevo perso tutto, in una notte fredda di autunno, mentre il cielo piangeva tutte le mie lacrime. Io non ne avevo versato neppure una, anche se i motivi per abbandonarmi al pianto erano stati parecchi. Potevo ancora sentire il calore del sangue di mio fratello imbrattarmi le braccia e il petto, mentre lo tenevo stretto, lo chiamavo forte, gli chiedevo perdono… Charles Lee era morto a causa mia, della mia leggerezza, di quel famoso ottimismo che avevo seppellito sotto metri di terra assieme al suo cadavere.
    Avevo sì perso un fratello maggiore, un uomo che stimavo sopra ogni cosa, che mi aveva cresciuto come un padre dopo la prematura morte dei nostri genitori. Io ero troppo piccolo per ricordarli, ma lui no… lui me ne aveva raccontato i visi, i caratteri, i princìpi, insegnandomi che l’onore e la dedizione dovevano essere sempre messi al primo posto. Lo avevo deluso, per un intero anno prima della sua morte, avevo visto moltissime volte nei suoi occhi il biasimo di chi riconosce di aver fallito… eppure, non lo avevo fatto intenzionalmente. O meglio, le mie di intenzioni erano pure… ma quelle della persona che credevo di amare no. Mi aveva tradito, mi aveva usato, mi aveva schiacciato con un peso tanto possente da togliermi il respiro. Aveline mi aveva sussurrato parole di amore, mentre un suo confratello tagliava la gola a Charles, ed ero stato io a fornirgli le informazioni più importanti, dove ci saremmo trovati, dove lui sarebbe stato… Uno stupido, un ingenuo, una delusione, ecco in cosa mi ero trasformato. Uno di quegli ingenui che affondano il coltello nella carne delle persone amate senza neppure accorgersene. Io desideravo solo che le ostilità cessassero, credevo davvero che la Confraternita degli Assassini e l’Ordine dei Templari avrebbero potuto sotterrare l’ascia di guerra un giorno. La mia storia con Aveline ne era la prova, o almeno era ciò che avevo continuato a ripetere a Charles per mesi, finendo per litigare furiosamente. Solo adesso capivo, solo adesso mi rendevo conto di quanto avesse sempre avuto ragione, ma ora era troppo tardi per rimediare. Per questa ragione avevo lasciato che il senso di colpa mi divorasse e mi punisse.
    Aveline si era volatilizzata con l’assassino di mio fratello – non dimenticherò mai la sua lama celata ancora sfoderata e il tomahawk infilato nella cintura – e forse era stato un bene, se l’avessi avuta davanti dopo… dopo aver scoperto il corpo agonizzante di Charles, con ogni probabilità l’avrei uccisa con le mie stesse mani. Non avevo faticato a unire gli indizi, nessuno si era premurato di nascondere le connessioni, perciò il colpo era stato così forte da togliermi ogni certezza. Persino la mia carriera universitaria si era arrestata bruscamente, mi avevano concesso un’aspettativa di un mese per il lutto, ma ne erano trascorsi due e non ero ancora riuscito a mettere piede in un’aula. D’altro canto, lasciare il campus mi era diventato quasi impossibile. Non ero in grado di insegnare, ma neppure di abbandonare quell’ambiente a cui avevo dedicato tutta la mia vita. Gli sguardi di commiserazione dei miei colleghi mi dilaniavano, ma non erano stati capaci di scuotermi, né tantomeno i tentativi dei miei studenti di farmi tornare alla realtà. Mi volevano bene, ci tenevano al loro Professore di Letteratura, lo stesso che li aveva fatti appassionare a versi antichi e moderni con la sua innata passione… ma quel Professore non esisteva più, era stato travolto e ucciso dal dolore.
    Per tutte queste infinite ragioni, mai e poi mai, avrei pensato che l’incontro con una Strega avrebbe dato una svolta alla mia vita. Non che ci avessi capito granché, insomma, persino le sue parole vorticavano confuse nella mia mente ed ero certo che non fosse una vera Strega nonostante il suo aspetto, ma il suo accenno all’Ordine Templare e a conoscenze sconfinate aveva colto nel segno. Perciò, avevo deciso di non mancare all’appuntamento che mi aveva dato, avevo raccolto il fazzoletto con il manufatto prezioso ed ero corso a casa. Qui sarei stato al sicuro, avrei fatto una doccia gelida per schiarire la mente e avrei analizzato quello strano dono… c’era ancora tempo prima di recarmi all’Eliot Bridge.
    […]
    Qualche ora più tardi, camminavo a passo spedito lungo la Soldiers Field Road; pestavo gli stivali con forza per esorcizzare l’ansia che mi percorreva la spina dorsale. Avevo così tante domande che ci avrei potuto riempire l’intero Charles River. Quel nome… avrebbe fatto così male ogni volta che lo avrei anche solo pensato? Oppure il tempo avrebbe diluito il dolore? Propendevo per la seconda ipotesi, ma un nuovo scopo nella vita avrebbe potuto giocare un ruolo fondamentale in tutto ciò. Questo scopo, ero convinto di averlo appena ricevuto, anche se non ne conoscevo i dettagli: la misteriosa chiave mi aveva marchiato avvolgendomi in una luce abbagliante. Per un attimo, avevo pensato che sarei morto, che la Strega – forse alleata degli Assassini – mi aveva teso una trappola, ma il dubbio era scomparso quando la sensazione di calore si era trasformata in una di pienezza, come se quel bagliore avesse riempito il nero vuoto che avevo dentro al petto. Durò troppo poco, ma ero convinto che qualcosa in me era cambiato, e non solo nelle mie emozioni; qualcosa, a un livello più fisico, mi aveva stravolto… ma non ero ancora in grado di capire di cosa si trattasse.
    Mi guardai attorno, ero arrivato nel luogo dell’appuntamento. Il sole splendeva ma era troppo debole per generare un po’ di conforto dal gelo che avvolgeva la città. E poi, ero sicuro che dopo il calore provato al contatto con la Chiave, su cui avevo visto inciso il mio nome completo, avrei avuto freddo per tutta la vita. Sfregai le mani guantate e mi alzai il colletto del cappotto nero. Ero nervoso, odiavo non avere risposte per le mie mille domande e avrei fatto di tutto per ottenerle in un nuovo confronto con la Strega.
    “Claudia Auditore, è questo il mio nome.”
    Mi voltai di scatto, sorpreso per l’arrivo felpato della donna, che sembrava non percepire il freddo di quella giornata d’inverno. La sua pelle era rosea, la mantella era aperta sul davanti e non potei che riconfermare la prima impressione: era bellissima davvero, a dispetto dell’alcool, non mi ero sbagliato quella mattina.
    “Signorina Auditore, non vi conosco, ma sono curioso di sapere il motivo di questo incontro. La Chiave… la Chiave che mi avete dato mi ha cambiato… ho bisogno di sapere come e perché… Siete venuta per darmi un nuovo scopo? Per darmi la vendetta che anelo ma che non ho avuto ancora il coraggio di prendermi?” Avevo iniziato a parlare baldanzoso, ma la mia voce, con l’avvicendarsi delle sillabe, si era trasformata in un soffio, quasi supplichevole. Strinsi le dita in pugni ferrei, consapevole di apparire debole di fronte a una donna tutta d’un pezzo, ma non potevo nascondere di dipendere totalmente dalle sue parole.
    “Professor Lee, sono venuta a carcarvi perché la Chiave vi ha scelto. Voi, assieme ad altri come voi, avrete l’onore di rendere il Nuovo Ordine dei Templari glorioso. Tra circa un secolo, l’Ordine si estinguerà, ma il grande progetto a cui voi parteciperete prevede la sua resurrezione. Siete pronto a votarvi alla Causa?” Tentavo di assimilare i significati che quelle frasi stavano trasudando, sarei stato all’altezza? Avrei potuto onorare così la memoria di mio fratello.
    “Non sono mai stato un vero Templare. Charles, mio fratello, lo era. Lui, di certo, sarebbe stato il candidato giusto. Forse la Chiave si muove su discendenza di sangue, come faccio a sapere che sarò in grado di portare a termine l’incarico?” La mia abitudine di dare un senso a ogni processo aveva preso il sopravvento, così come il dubbio che la Chiave avesse sbagliato Lee…
    “Non sono un’indovina, ma posso assicurarvi che il manufatto che stringete al petto è molto potente e non sbaglia mai. Da voi mi e ci aspettiamo solo completa dedizione, l’addestramento e il resto verrà da sé. Potete darcela?”
    La dedizione, sapevo bene quale fosse il significato profondo di quella parola, Charles aveva speso interi anni della sua vita a inculcarmelo, era un segno anche questo? Dovevo accettare, dovevo cambiare la mia vita e non avrei perso questa mirabolante occasione.
    “Mi direte anche perché ho la sensazione che dentro di me qualcosa sia cambiato? Non parlo di sentimenti, ma delle mie cellule, del mio fisico, cosa mi è successo?” Ero ostinato, dovevo ammetterlo…
    “Sono certa che lo capirete da solo, tra non molto. Prima di tornare alla base, nel luogo dove vivrete fino al compimento del progetto, dovremo fare un’altra tappa...”
    Un’altra tappa? Ero curioso, dannatamente curioso, ma mi imposi di non domandare altro: vedere con i propri occhi era di gran lunga più eccitante.
    Claudia Auditore mi fece cenno di seguirla e insieme attraversammo il ponte. Il passo di lei era leggiadro, il mio stranamente emozionato. Raggiungemmo un piccolo parco, inoltrandoci verso una zona più abbandonata. Pochi secondi dopo si fermò, strinse un anello tra le mani, pronunciò qualche parola tra i denti e un vortice si materializzò di fronte a noi. L’istinto di retrocedere sarebbe stato normalissimo, ma io avanzai, come un incosciente attratto dalle fiamme. Claudia notò il mio comportamento e uno sorrisetto furbo affiorò sulle sue labbra.
    “Dopo di voi, Professore” mi incitò con un gesto del braccio. Io annuii senza neppure rendermene conto e attraversai quella specie di portale.
    Non avevo idea a cosa stavo andando incontro, ma non vedevo l’ora di scoprirlo.
     
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