Present Day #2021: Mandalore

Season 6

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  1. SydneyD
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    Roberta
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    L’acqua gelida scorreva sulle forme del mio corpo. La linea del mio profilo, le labbra carnose, la via in mezzo ai seni, l'addome… fino a cadere giù e schiantarsi sulle piastrelle candide. Amavo lavarmi con l'acqua fredda. Era come una sorta di catarsi che donavo al mio fisico, costantemente sottoposto a temperature altissime, asfissianti, costretto all'interno di un armatura integrale e impenetrabile.
    La mattina, appena sveglia, mi dedicavo alle mie abluzioni prima di indossare la corazza in senso fisico e metaforico.
    Tamponai spalle, braccia e gambe con un telo di tessuto grezzo, e poi mi avvolsi al suo interno, in attesa di concludere il mio rituale mattutino.
    Mi sedetti davanti allo specchio, quasi l'unico pezzo di arredamento nelle mie stanze. Avevo fatto togliere la maggior parte della mobilia pregiata che aveva decorato il Palazzo Reale di un tempo, lasciando solo il minimo indispensabile. Infatti, quella superficie riflettente non rappresentava né un vezzo, e tanto meno un invito alla beltà. Aborrivo la vanità e ogni senso estetico eccessivo che allontanava dalla Via e dai nostri valori di combattenti. La stessa armatura che indossavamo lo testimoniava a gran voce.
    Presi una spazzola e iniziai a pettinare i lunghi capelli ancora umidi. Arrivavano quasi al ventre e ogni volta era sempre più difficile trattarli. Quando superavano quella lunghezza li accorciavo da sola. Avrei potuto benissimo tagliarli, per maggiore comodità, ma mi ero rifiutata trincerandomi dietro una motivazione in apparenza sciocca, ma per me di vitale importanza. Era un ricordo di me bambina, sporca di fango e con un'arma in mano. I capelli erano cortissimi e alla mia tenera età, nulla avrebbe potuto distinguermi da un maschio, non in senso solo estetico. Mi considerava tale, lui mi trattava come tale. Mi allenavo, lottavo, a mani nude, con la spada e degli stupidi capelli lunghi sarebbero stati di intralcio, un vezzo femminile da aborrire, distruggere.
    Quando poi lui non era più tornato, ero rimasta sola con me stessa. Ormai proprietaria di diritto della mia armatura, avevo deciso di allungarli. Era la mia silente e personale rivalsa.
    Li intrecciai con cura su una spalla e poi arrotolai la treccia sulla testa. Dovevano restare ben ordinati. Neppure una ciocca sarebbe dovuta venire fuori dal casco.
    Mi guardai attentamente per l'ultima volta, l’acconciatura era perfetta, il mio viso non allo stesso modo, ma non ne me curai. Indossai gli abiti leggeri necessari e poi la corazza, gli spallacci, i gambali e per ultimo, nascosi le mie fattezze sotto il casco impenetrabile.
    Dovevo andare… avevo un incontro importante.
    […]
    Come tutte le mattine, anche quel giorno mi recai all'orfanotrofio a trovare i miei bambini. Ormai da tempo immemore avevo preso l’abitudine di accompagnarli mentre facevano colazione. Adoravo farlo. Pura gioia mi invadeva nel vedere i più piccoli e più grandi condividere il momento più importante della giornata, che precedeva quello più faticoso. Lo studio e l'allenamento.
    Entrai nel salone grande attraversando un arco monumentale in pietra. La sala era allestita con lunghi tavoli di forma rettangolare disposti in parallelo. I posti a sedere erano molti, ma non tutti erano occupati. I primi in ordine per chi accedeva, erano dedicati ai bambini, che non appena mi videro, iniziarono ad agitarsi, ad alzarsi e a venirmi in contro con un gran vociare. Tutti intorno a me per il saluto del mattino. I più grandetti, nei tavoli più lontani, coloro che avevano appena iniziato a indossare parti di armature, mi guardavano con rispetto, a distanza e mi salutarono con cenni solenni del capo. Erano cresciuti tanto e giorno dopo giorno acquisivano le movenze e le attitudini di Mandaloriani fatti e finiti. Mi attardai qualche minuto con i bimbi più scalmanati, gli accarezzavo i capelli o elargivo qualche parola dolce. Quando i volontari, che a rotazione si occupavano della mensa, suonarono la campanella, tutti seppero che la colazione era pronta. I bimbi si disposero in fila e si diressero con i vassoi verso le pietanze messe in fila insieme alle bevande. I più grandi attesero il proprio turno e quando tutti si furono serviti, tornarono a sedere in maniera ordinata.
    La disciplina era alla base della Via e imparare a dominarsi era fondamentale, un valore insegnato fin dalla tenera età, ma non eravamo dei vessatori e non approfittavamo mai della nostra autorità. Ero fermamente convinta che l’addestramento avesse delle tappe e delle età ben definite. L'infanzia era sacra e proprio in virtù del fatto che molti dei nostri trovatelli venissero da realtà violente e crudeli, volevamo fortemente che la loro permanenza nel nostro mondo diventasse un punto fermo, un nuovo inizio, per divenire uomini e donne migliori.
    Alla fine andai a sedermi. Ovviamente non avrei mangiato. Avevo sbocconcellato qualcosa nelle mie stanze, prima di uscire. In quel gruppo, solo pochi avevano ricevuto il casco. Ancora si trovavano in una fase in cui potevano toglierlo al cospetto dei propri compagni. Man mano che avanzavano di età e di maturità nell’addestramento, avrebbero dovuto ritirarsi e mangiare per conto proprio. Era un percorso di gruppo prima, che sfociava in uno più personale e interiore.
    Li conoscevo uno per uno, poiché ad ognuno di loro avevo costruito i pezzi di metallo che decoravano fieri i loro corpi.
    Si rivolgevano a me con reverenza e rispetto. Avrei preferito più familiarità, e in più di un'occasione l'avevo anche chiesta, ma tutti i ragazzi mi consideravano come un superiore, una figura al di sopra di loro.
    Non potevo fare molto per cambiare una simile visione, se perfino i loro addestratori mi vedevano come qualcosa di più di una guida, quasi una regina.
    Scacciai quel pensiero. Non volevo neppure tenerlo in conto. Io desideravo il bene del mio popolo e avrei fatto di tutto per sostenerlo, con ogni mezzo. I miei fratelli prima di ogni cosa, anche prima di me. Non mi interessavano gli appellativi o i ruoli altisonanti. Finché avrei avuto la possibilità di guidarli con onore e serietà lo avrei fatto, fino al mio ultimo respiro.
    Dopo che in giovani ebbero finito di mangiare, li lasciai andare affinché si dedicassero alle loro mansioni. Quando tutti si allontanarono, uno di loro restò, aveva il casco tra le mani, stava per indossarlo, ma era evidente che voleva parlarmi prima.
    “Dimmi ragazzo. Non devi temere nulla, tanto meno me.” dissi con voce paziente. Allora, il ragazzo alzò il mento in una posa marziale e parlò.
    “Io… io volevo ringraziarti. Per tutto quello che fai per noi, per essere chi sei. La nostra guida, la nostra ispirazione. I tuoi consigli sono preziosi come il metallo che forgi. Grazie! Solo… questo.”
    Adesso che aveva buttato fuori quelle parole sembrava più rilassato. Forse era da tanto che ci rimuginava su e solo adesso si era deciso a parlarmi. Il mio cuore si gonfiò di orgoglio, di tenerezza, di forza. Percepivo ogni singola sensazione con una vividezza quasi tangibile. Non ero fiera di me e di come mi aveva dipinto, bensì ammiravo l’onestà e la purezza del suo animo. Mi avvicinai a lui e presi il casco che aveva tra le mani. Io stessa lo appoggiai sul suo capo e poi lasciai i palmi dov’erano. Era ciò che più poteva assomigliare a una carezza. Volevo mi sentisse vicina.
    “Sono solo un’umile serva della Via. Sono felice che mi prendi ad esempio, ma sappi che il tuo cuore ha tutte le carte in regola per diventare un grande Mandaloriano, retto, onesto. Ricordati… io sarò sempre qui per te, per tutti voi. E tu, in futuro, farai lo stesso per i tuoi fratelli. Questa è la Via” Il ragazzo alzò la testa e io sapevo che mi stava fissando con intensità. Aveva recepito il messaggio. Seguì i suoi compagni e io mi avviai verso la mia fucina, era quello il mio regno.
    Attraversai una delle vie principali della città che la tagliavano a forma di croce e arrivai alla piazza centrale. Qui era affissa la bacheca utilizzata dai miei fratelli per recuperare le missioni dei vari clienti, che arrivavano da tutto il Sistema.
    Non ci ponevo mai attenzione, non era mio compito vagliare le richieste e carpire informazioni. Ma un'energia sconosciuta mi costrinse a piantare i piedi nel terreno, proprio all'altezza dell’enorme parete in legno. Voltai il capo e l'occhio cadde su una missione in particolare. Chi avesse potuto guardarmi al di sotto del casco, avrebbe visto la fronte corrucciata e le labbra strette in una linea dura. Non mi soffermai. Raggiunsi rapidamente la forgia e una volta lì feci convocare le due persone di cui più mi fidavo. Solo a loro avrei potuto avanzare la mia richiesta, del tutto fuori da ogni protocollo e regola.
    […]
    Nell’attesa mi ero messa a lavoro su un gambale. Uno dei miei trovatelli se lo era meritato.
    Udii dei rumori di passi e feci una pausa. Quando alzai il capo ritrovai Din e Omera a fissarmi. Di Din potevo intuire l'attesa placida, Omera aveva stampato in volto un sentimento di preoccupazione. Ogni volta che l'avevo convocata era stato per assegnarle delle semplici missioni.
    Nel suo caso, avevo supervisionato personalmente le sue scelte per farla iniziare con i pericoli minori e assicurarmi che acquisisse la giusta esperienza senza particolari rischi. Mi aveva stupita in maniera positiva. Era sempre pronta, scattante e prodiga verso la causa. Sarebbe diventata una Mandaloriana valorosa. Lo sentivo dentro. Proprio per questo, stavo valutando la possibilità di donarle il casco, a completamento della sua armatura. Quello sarebbe stata la meta ultima che l'avrebbe consacrata alla Via, sebbene sapessi che dentro il suo cuore e nella sua mente, Mandalore aveva scavato un posticino sicuro, ben ancorato alla sua volontà di proteggerlo.
    Mi riscossi dalle mie riflessioni. Non potevo far attendere oltre i miei ospiti. Lasciarli ancora sulle spine, li avrebbe fatti preoccupare oltre misura.
    Gli feci cenno di sederci al tavolo che usavo per le riunioni e lì mi apprestai a fare qualcosa di assurdo.
    “Scusate l’urgenza con cui vi ho convocati. La questione è di vitale importanza.” Non mi interruppero. Sapevano bene che c'era dell'altro.
    “Questa mattina sono passata davanti alla bacheca delle missioni. Una di queste ha attirato la mia attenzione. Come ben sapete non ho mai esercitato alcuna ingerenza sui lavori scelti dai miei fratelli. Solo nel tuo caso, Omera, del tutto particolare, mi sono permessa di seguirti nel percorso.” Lei mi guardò con sguardo riconoscente.
    “E i tuoi consigli sono stati fondamentali per me. Ti ringrazio.”
    “Non hai nulla di cui ringraziare. Stai facendo il tuo dovere con onestà e saggezza. Io ho potuto solo indirizzarti sul sentiero per seguire la Via, senza rischiare la vita. Tutto ha i suoi tempi. Ma non divaghiamo…” La mia voce si era fatta più dura, senza volerlo. Non potevo allontanare troppo il discorso che mi premeva di più.
    “È necessario che vi rechiate alla Bacheca per assicurarvi una missione. Solo voi potrete portarla a termine. Ci sono buone probabilità che l’obiettivo sia o abbia a che fare con il ‘giovane figlio’ descritto nella profezia.” Da quando gli Jedi erano entrati nelle nostre vite, molti equilibri erano saltati e questa strana forma di alleanza mi metteva in allerta, sempre sul chi va là. Non mi fidavo, ma allo stesso tempo, non potevamo lasciare nulla di intentato, se il nostro mondo fosse stato davvero in pericolo.
    “Quali sono le caratteristiche della missione. Come la riconosciamo?” Din era intervenuto senza la minima esitazione. Io mi sentivo come se avessi profanato un luogo sacro. Mi sentivo in difetto nei riguardi di regole per noi fondamentali. Ma al cospetto dei miei interlocutori non mi sarei giustificata. Era la decisione giusta da prendere, sebbene difficile. Altri non avrebbero compreso il vero senso di tutto quello che stavamo affrontando.
    “L’obiettivo è una persona dell’età di diciotto anni. Il Cliente mette a disposizione l’ultima posizione rilevata e un localizzatore. Deve essere recuperato vivo. Il pagamento ammonta a una cassa di metallo Nth.” Ero stata precisa e concisa.
    Non vi era molto altro da dire. Dovevamo fare in fretta.
    “Accettate entrambi la missione?” chiesi con una formula di rito.
    Sia Din che Omera dissero un “Sì” in contemporanea. Vedere quei due insieme, all'opera, mi riempì il cuore di speranza e di sicurezza. Ero certa che loro fossero le persone adatte per affrontare i rischi che una simile scelta comportava.
    “Adesso vi prego, andate. Il tempo è prezioso. Recuperate questa missione prima che un altro dei fratelli la individui. A quel punto, non potrò fare più nulla per impedirgli di partire. È vitale che siate voi i prescelti. Andate e parlate con il Cliente. Questa è la Via.”
    Speravo con le mie parole di essere stata chiara e di avergli trasmesso le mie sensazioni di urgenza. Dovevamo scoprire in qualche modo, contro quale minaccia avremmo dovuto combattere.
     
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